“Le azioni di Caravaggio in quell’estate del 1610 avevano ragioni diverse rispetto a quanto fin qui ritenuto”: Francesca Curti spiega le novità sugli ultimi movimenti dell’artista prima della morte.

redazione

Dedichiamo con vero piacere questo numero speciale alle ultime novità che Francesca Curti ha proposto nell’ultimo numero della rivista “Storia dell’Arte” e che Rossella Vodret ha esaurientementi illustrato nella recensione che presentiamo in questo numero speciale. Studiosa a tutti nota per le sue ricerche e le numerose determinanti scoperte archivistiche che hanno in molti casi aiutato a dare risposta a vari problematici “quesiti caravaggeschi”, Francesca Curti propone, sulla base di nuove ricerche e illuminanti considerazioni di carattere giuridico e filologico, quello che la Vodret nel testo che ci ha concesso definisce un “fondamentale articolo”  con cui si è potuto chiarire “uno dei più intriganti problemi dell’ultimo periodo trascorso dal Merisi tra la partenza da Napoli, l’arresto che si credeva avvenuto a Palo e la morte che lo colse a Porto Ercole il 18 luglio del 1610”. Proprio su questi apsetti Francesca Curti ha risposto ad alcune nostre domande.

Nella recensione al tuo articolo intitolato e pubblicato su Storia dell’Arte Rossella Vodret parla di “importanti novità sugli ultimi giorni di Caravaggio”; vuoi riassumere in breve le più importanti per i nostri lettori.

R: Com’è noto la vicenda degli ultimi giorni di vita di Caravaggio, dalla partenza da Napoli fino alla morte a Porto Ercole e al ritorno nella città partenopea, presso Costanza Colonna, di tre dei dipinti che portava con sé, presenta ancora molte zone d’ombra che gli studiosi hanno provato a chiarire avanzando negli anni svariate ipotesi. Il ritrovamento da parte di Giulia Cocconi delle due procure per la pace redatte da Giovanni Francesco Tomassoni nei confronti di Onorio Longhi e Merisi, nonché il mandato di pagamento di Deodato Gentile a favore di Fabrizio Santafede nel 1611 per una perizia su un San Giovanni, oggetto di una causa presso il Tribunale della Vicaria a Napoli pubblicato da Edoardo Nappi, mi ha indotto a riflettere a lungo sulla questione, chiedendomi se la stavamo guardando dalla prospettiva giusta. Non si tratta tanto, infatti, di presentare documenti inediti, quanto piuttosto di sottoporre a critica filologica quelli già noti e alcuni pubblicati ma sfuggiti agli studi di settore. Come, infatti, ho avuto modo di ripetere più volte, trovandoci di fronte a documenti archivistici, il metodo da utilizzare per elaborare ricostruzioni che possano dirsi attendibili è quello storico. Marc Bloch, infatti, sosteneva che i documenti “non parlano davvero se non quando li si sappia interrogare”, ma bisogna fargli le domande giuste, altrimenti le risposte potrebbero essere fuorvianti. E per farli parlare correttamente bisogna conoscere il contesto istituzionale, sociale e culturale in cui essi sono stati creati. E io mi ero resa conto che dei contratti di pace, del loro ruolo nelle società di antico regime non ne sapevo nulla. Dopo aver studiato a lungo la questione, è apparso chiaro che essi costituivano il perno attorno al quale ruotava l’amministrazione della giustizia in questo caso pontificia, perché, attraverso di essi, le istituzioni cercavano di raggiungere il loro obiettivo che, a differenza di quanto avviene oggi, non era tanto la punizione del reo, quanto il mantenimento dell’ordine sociale e il disinnesco della spirale vendicatoria della faida. La pace non era un semplice contratto, ma era un giuramento solenne, in cui i contraenti si impegnavano di fronte alla Stato, a Dio e alla comunità. Ed è per questo che la rottura della pace era considerato un crimine quasi più grave dell’omicidio. In una società poi, in cui l’onore e la ritualità contavano più della carta scritta, l’atto di pace doveva essere accompagnato da gesti, quali la stretta di mano o il bacio esibiti davanti a testimoni, che avevano una valenza culturale maggiore dell’atto in sé. Ma soprattutto la pace era il primo passo per poter sperare nella grazia, perché senza di essa non si poteva ottenere il perdono del pontefice. E Paolo V, come è emerso dalla rilettura di alcuni documenti, sembra fosse disposto a concederlo a tutti i partecipanti al duello a patto che, dopo aver concluso la pace, rispettassero l’esilio di cinque anni che aveva imposto. Partendo da questi presupposti, le azioni di Caravaggio messe in atto in quell’estate del 1610 forse potevano avere delle ragioni diverse rispetto a quanto ritenuto. Se, infatti, il suo obiettivo fosse stato quello di tornare a Roma per ricevere la grazia, avrebbe potuto tornarvi più facilmente da dove vi era partito, cioè attraverso i feudi della famiglia Colonna, della cui protezione ancora godeva; la scelta di imbarcarsi sulla feluca, a mio avviso, doveva invece avere a che fare con la sistemazione della fondamentale questione della pace e con l’attesa dello scadere del tempo previsto.

Allo stesso modo, la pubblicazione di Nappi ha confermato quanto da me e Orietta Verdi già sostenuto in merito al destino dei quadri della feluca. Sulla base delle parole di Deodato Gentile riportate nelle lettere indirizzate a Scipione Borghese a proposito del sequestro delle opere da parte di “alcuni ministri regi” avevamo, infatti, ritenuto che esse fossero finite presso un’autorità deputata a giudicare controversie ereditarie, configurandosi i beni di Caravaggio come eredità giacente. La perizia richiesta da Gentile per un San Giovanni valutato da Santafede ben trecento ducati, che non può che essere il dipinto Borghese, aggiunge notizie importanti in merito alle modalità con cui il nunzio riuscì a rientrare in possesso del quadro e a spedirlo al cardinale Borghese. Quadro che, come ho chiarito nell’articolo, non può essere nessuno dei due San Giovanni presenti in casa di Costanza Colonna, ma è da identificarsi con quello richiesto dal viceré, conte di Lemos, all’auditore dello Stato dei Presìdi, anch’esso sottoposto a sequestro afferente ai beni del pittore.

-Come sai certamente anche tu che sei una espertissima ricercatrice e studiosa della vita e dell’opera di Michelangelo Merisi (tra i saggi più significativi rimando a quelli Sugli esordi di Caravaggio, su COSTANTINO SPADA «REGATTIERO DE QUADRI VECCHI» E L’AMICIZIA CON CARAVAGGIO, su Dalle botteghe d’arte al palazzo del cardinal Del Monte. I primi anni di Caravaggio a Roma. su Rivalità di botteghe, rivalità di pittori: un’ipotesi per la nascita dell’inimicizia tra Caravaggio, Giovanni Baglione e Tommaso Salini, ma ne potrei citare molti altri, ndA) su questo artista si scrive e si ragiona anche troppo, quindi per avere veramente voce in capitolo occorre che le novità siano -oltre che inedite e verificabili-  assolutamente ben argomentate altrimenti si rischia di fare un pessimo servizio all’artista e alla storia dell’arte; per questo ti chiedo quali strumenti analitici hai potuto utilizzare per darne conto?

R: A questa domanda credo di avere già risposto, tuttavia voglio aggiungere che mi sono servita di molti studi e ricerche che analizzassero sotto il profilo istituzionale e giuridico il sistema giudiziario e le consuetudini ad esso collegate dello Stato pontificio e del Regno di Napoli. Ma soprattutto ho potuto contare sull’esperienza e sull’infinita conoscenza dell’argomento di don Sandro Corradini, che ringrazio per essersi prestato ad aiutarmi nella ricerca e per la passione con cui affronta ancora le vicende caravaggesche.

-Infine ti chiedo quali prospettive aprono agli studi caravaggeschi queste novità che hai rappresentato e proprio per finire davvero hai in serbo qualche altra novità di cui possiamo almeno accennare ai nostri lettori?

R: Credo che le nuove ipotesi servano per orientare la ricerca verso settori che magari prima non si erano presi in considerazione, in questo caso specifico sarebbe fondamentale ritrovare l’incartamento giudiziario riguardante l’eredità di Caravaggio perché ne potrebbe chiarire finalmente le circostanze della morte, dal momento che esso, come era previsto dall’ordinamento giuridico dell’epoca, dovrebbe essere accompagnato da dichiarazioni di testimoni concernenti tutto ciò che poteva avere a che fare con la questione ereditaria.

Le novità in verità ci sono e riguardano questa volta la figura di Marzio Colonna, duca di Zagarolo, e il suo rapporto con Caravaggio. Sto, infatti, lavorando ad uno studio a tutto tondo su uno dei protettori più importanti quanto più sfuggenti del pittore lombardo. Il mio intento è quello di delinearne un’accurata biografia, mettendone in luce la sua personalità, la sua profonda cultura e il ruolo, non proprio di secondo piano, che ebbe nelle vicende politiche sia dello Stato Pontificio che del Regno di Napoli. Posso dirti che ho ritrovato un suo presunto ritratto che, insieme a rilevanti documenti riguardanti la sua morte e la sua collezione d’arte, permette di sciogliere alcuni nodi finora irrisolti dell’attività di Caravaggio.

P d L  Roma 26 Giugno 2027