di Nica FIORI
Con l’espressione “Estate di San Martino”
in Europa si intende quel particolare fenomeno meteorologico per cui il periodo intorno all’11 novembre è spesso contraddistinto da cielo sereno e temperatura in aumento. La leggenda vuole che il tempo, da freddissimo, sia divenuto mite in seguito alla donazione, da parte di Martino, di metà del proprio mantello a un mendicante. La notte seguente gli apparve in sogno Gesù Cristo che diceva agli angeli: “Martino, il quale ancora non è che un catecumeno, mi ha coperto con la sua veste“. Quest’atto di carità, che avrebbe compiuto quando era un giovane soldato ad Amiens, ha ispirato il motivo iconografico più frequente nei dipinti e sculture a lui dedicati.
Lo hanno raffigurato nell’atto di tagliare il mantello, mentre sta su un cavallo bianco, tra gli altri pittori, El Greco (nel 1597), Antoon Van Dyck (nel 1618), Gustave Moreau (nel 1882), Vittore Carpaccio (nel polittico di Zara, 1480-1490) e Mattia Preti (nello Stendardo di San Martino al Cimino, realizzato nel 1650 per i Pamphilij). Nei loro dipinti la ricca armatura di Martino e il suo mantello rosso (solo El Greco lo propone verde) sono contrapposti al mendicante che è quasi nudo. Girolamo da Santa Croce, allievo di Giovanni Bellini, lo ha raffigurato in una tavola del 1527 (nella chiesa di San Martino a Luvigliano, in provincia di Padova) sempre con la stessa iconografia, ma insieme ad altri santi, mentre in alto appare Cristo con la metà del mantello donatogli.
Molte tradizioni popolari della festa di San Martino, come le libagioni con il vino novello, l’uso di fiaccole e falò, le predizioni per l’annata agricola sembrano legate al fatto che questo giorno segna nei paesi a clima freddo l’inizio dell’inverno. Si riallaccia, quindi, come la festa di Halloween, al capodanno celtico, il Samuin, che durava una decina di giorni. Del resto il santo è strettamente collegato con la cultura celtica, visto che è stato l’evangelizzatore delle Gallie. In Francia più di 500 località portano il suo nome. Era pure il patrono della monarchia francese e il suo mantello veniva conservato nella cappella reale. Anzi, il termine francese chapelle deriva proprio dal fatto che vi era custodita la celebre “cappa” (chape). Ma anche in Italia il suo culto è sempre stato vivo.
A Roma fu il primo santo non martire ad essere titolare di una chiesa, quella di San Martino ai Monti (più precisamente Santi Silvestro e Martino ai Monti), voluta da papa Simmaco (498-514), in quello che era il titulus Equitiae. Nel VI secolo i mosaicisti di Sant’Apollinare Nuovo, a Ravenna, lo hanno raffigurato in testa alla processione dei Santi martiri (la basilica, ariana sotto Teodorico, passò alla Chiesa cattolica e venne dedicata a San Martino di Tours sotto Giustiniano) e San Benedetto gli consacrò una cappella in luogo del tempio pagano sulla vetta di Monte Cassino. A Belluno gli venne dedicata la cattedrale, a Lucca il duomo, a Napoli la Certosa.
Nato a Sabaria, in Pannonia (l’attuale Ungheria), nel 316, “Martinus“, il cui nome richiamava il dio Marte, intraprese molto presto la carriera di soldato, che abbandonò però dopo qualche anno per dedicarsi alla vita religiosa, come racconta il suo primo biografo Sulpicio Severo (amico dello stesso Martino) nella Vita Martini.
Simone Martini, che ha realizzato tra il 1313 e il 1318 un importante ciclo pittorico relativo a San Martino nella chiesa inferiore di San Francesco ad Assisi, ha raffigurato, tra i dieci episodi che costituiscono il ciclo, la “Investitura di San Martino a cavaliere”, alla presenza di Giuliano (l’Apostata), e anche la “Rinuncia di San Martino alle armi”, davanti allo stesso imperatore.
Si ricorda, infatti, che quando Giuliano riunì a Worms un esercito per combattere i Germani, Martino, che si era da poco fatto cristiano, si rifiutò di combattere con le armi e Giuliano lo accusò di codardia. Allora Martino si offrì di marciare davanti all’esercito senza armi nel nome di Cristo. Ma non ce ne fu bisogno, perché i Germani stipularono una pace inaspettata con l’imperatore.
Di lì a poco Martino si ritirò a vita eremitica, finché il vescovo Ilario non lo chiamò a Poitiers, dove lo ordinò esorcista e in seguito sacerdote. Seguirono anni di peregrinazioni per l’Europa: ritornò in Pannonia per convertire i genitori, andò quindi a Milano, dove imperversava l’arianesimo. Cacciato dagli ariani, andò nell’isola ligure di Gallinara, in seguito arrivò a Roma in pellegrinaggio e a un certo punto si ritirò a Ligugé, presso Poitiers, dove fondò nel 361 il primo monastero occidentale.
Nel 371 fu eletto vescovo di Tours, ma i cittadini di Tours, secondo quanto si racconta, dovettero ricorrere a uno stratagemma per fargli abbandonare la vita eremitica. Gli mandarono un certo Rustico, che lo implorò di recarsi dalla moglie malata, quindi sulla strada lo catturarono con un’imboscata e lo portarono in città acclamandolo vescovo. Secondo un’altra versione Martino si sarebbe nascosto in una stia per le oche, ma quelle schiamazzarono, indicando il suo rifugio agli abitanti di Tours .
Martino andò ad abitare in una casetta nei pressi della sua chiesa, ma ben presto preferì trasferirsi a due miglia dalla città, dove fondò il monastero di Marmutier.
Morì a Candes durante un viaggio il 9 novembre del 397 e fu sepolto a Tours l’11 novembre alla presenza di una folla incredibile di fedeli. E qui la sua storia si intreccia con quella di Sant’Ambrogio, il quale in una chiesa di Milano, durante la messa, cadde in un sonno profondo e quando, dopo tre ore, il suo diacono osò svegliarlo, raccontò di essere stato a Tours al funerale di Martino: episodio raffigurato nel mosaico absidale del VI-VIII (restaurato nel XII secolo) nella chiesa di Sant’Ambrogio a Milano. Nella scena in basso a destra si legge “MARTINI INTERITUM OPERATIS AD ARAM / AMBROSIUS QUAMVIS DISSITUS INDE VIDET / DUMQUE VIDET CORAM SPECTABILIS IPSE PARENTAT / PRESENTEMQUE SIMUL FUNUS ET ARA CAPIT”, che possiamo tradurre così: “La morte di Martino, mentre Ambrogio stava celebrando presso l’altare, quantunque lontano, da lì vede e, mentre vede, visibile a tutti, celebra il funerale, ed è presente contemporaneamente al funerale e all’altare”.
Certo la fama di Martino si era diffusa da tempo in tutta l’Europa per i numerosi prodigi che gli si attribuivano. Tra i più celebri è l’episodio del pino sacro ai Celti, che egli fece abbattere dopo aver distrutto un tempio pagano. Poiché i contadini si opponevano alla distruzione dell’albero, uno di loro chiese a Martino di dimostrargli la superiorità del suo dio ponendosi sulla probabile traiettoria della caduta, ma l’albero crollò dalla parte opposta. Pur avendo contribuito tantissimo a sradicare l’antica religione delle Gallie, per uno strano paradosso San Martino ha assunto le funzioni di una divinità celtica, il cosiddetto “dio cavaliere”, che portava una mantellina corta, proprio come quella del santo, che era stata tagliata per donarne la metà a un povero. Il dio cavaliere era colui che trionfava sul mondo infero, e quindi sulla morte. Era al tempo stesso il dio della vegetazione, che presiedeva alla rinascita della natura dopo la “morte” invernale. Cavalcava un cavallo nero ed era spesso accompagnato da un’oca, che per i Celti era il “messaggero dell’altro mondo”.
Il cavallo di Martino è diventato bianco, come bianca è l’oca pure presente nella sua iconografia, ma la cosa più interessante è che anche il santo ha una stretta relazione con gli Inferi, visto che combatte e prevale sul diavolo più volte. Egli era molto abile in effetti nel riconoscere le manifestazioni divine da quelle false del demonio. Un giorno gli apparve una figura simile a Cristo: un Cristo vestito di porpora e ingioiellato come un re. Il santo non si lasciò incantare e smascherò l’apparizione, che scomparve in una nuvola di fumo sulfureo. Un’altra volta riuscì a burlare il diavolo, facendogli costruire sul torrente Lys un ponticello che era appena crollato (Pont Saint Martin, in Val d’Aosta). Satana gli aveva chiesto, in cambio del suo lavoro, l’anima del primo passante che avesse attraversato il ponte. Ma San Martino fece in modo che passasse davanti a lui un cane, così che il diavolo se ne andò via gabbato.
Tra i tanti episodi miracolosi relativi alla sua vita, si racconta che, quando era vescovo di Tours, un giorno di festa, andando in chiesa per celebrare la messa, incontrò un mendicante privo di vestiti. Martino gli diede il suo abito e si fece comprare dal diacono un vestito da pochi soldi, che indossò al posto dell’altro. Mentre egli era così vestito, durante la messa apparve un globo infuocato sopra la sua testa, e allora molti lo paragonarono agli apostoli, episodio questo raffigurato nel dipinto di Eustache Le Sueur “La messa di san Martino di Tours” (1654, Parigi, Louvre).
Nelle biografie di Martino è esaltato il suo potere taumaturgico, come per esempio quando incontrò un lebbroso, che egli con grande amore baciò e benedisse, ragion per cui il lebbroso guarì miracolosamente. Si parla anche della sua capacità di far parlare i morti e di impartire ordini agli animali. Una volta uscì indenne da un incendio, un’altra volta sopravvisse all’azione velenosa dell’elleboro, episodio questo raffigurato in una miniatura di un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Torino, databile all’inizio del XIV secolo. Secondo quanto narra Jacopo da Varagine nella sua Legenda Aurea, quando Martino fu cacciato dagli ariani da Milano, “si ritirò, con un solo compagno, nell’isola Gallinara. Lì mischiato con altre erbe, mangiò dell’elleboro, un’erba velenosa, e si sentì ormai prossimo alla morte: però con la forza della sua preghiera allontanò il dolore e il pericolo di vita”.
Questi sono solo alcuni esempi di come San Martino è stato raffigurato. La sua iconografia più tipica è sicuramente quella di soldato, che taglia in due il suo mantello come atto di carità cristiana, ma è diffusa anche la rappresentazione di San Martino vescovo, spesso insieme ad altri santi, e in questo caso non sempre la sua figura si discosta da quella di altri santi vescovi, come per esempio nella tavola di Timoteo Viti “San Tommaso Becket e San Martino con il vescovo Giovan Pietro Arrivabene e il duca Guidubaldo”(1504), eseguita per il duomo di Urbino e conservata nella Galleria Nazionale delle Marche.
Il bresciano Moretto lo ha raffigurato almeno due volte come vescovo.
Nel dipinto ad olio nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Brescia, “La Madonna col Bambino in gloria e i santi Rocco, Martino e Sebastiano” (1525), Martino indossa sontuose vesti episcopali con manto damascato, bastone pastorale e mitria. Nel dipinto della “Madonna in gloria con San Martino e Santa Caterina” (1530, chiesa di S. Martino a Porzano, frazione di Leno, in provincia di Brescia), invece, il suo manto è più tradizionale, ovvero tutto rosso.
Per finire in gloria, non possiamo non citare il dipinto del 1791 di Stephan o István (in ungherese) Dorffmeister “San Martino in gloria”, dove l’identità del santo vescovo è evidente, perché uno degli angeli che lo accompagnano in cielo sorregge il mantello, la spada e l’armatura che furono del santo. Il dipinto venne realizzato per il palazzo vescovile di Szombathely, la città più antica dell’Ungheria, corrispondente all’antica Sabaria, città natale di Martino, fondata dall’imperatore Claudio nel 43 d. C. col nome di Colonia Claudia Savariensum.
Nica FIORI Roma 10 novembre 2109