di Nica FIORI
SANT’ANTONIO ABATE. Il particolare rapporto del santo eremita con il diavolo e gli animali
La lotta tra il bene e il male, e in particolare tra i santi e Satana, è sempre stata raffigurata dagli artisti in modo fantasioso, anche se spesso alla base vi sono descrizioni particolareggiate fatte dagli stessi santi. Diavoli tentatori erano soliti presentarsi ad essi per interrompere le loro preghiere. Tanto più erano ispirate le loro parole, tanto più il demonio si infuriava e, ricorrendo a una serie di trasformazioni diaboliche, faceva di tutto per farli peccare. Non riuscendovi, li tormentava ferocemente.
Il santo più conosciuto per il suo particolare rapporto con Satana è sicuramente Sant’Antonio Abate, la cui festa cade il 17 gennaio, giorno in cui resiste ancora in varie località la tradizione di far benedire sul sagrato delle chiese dedicate al santo gli animali domestici: asini, muli, cavalli, pecore, cani, gatti e uccelli. Lo scopo è quello di iniziare l’anno nel migliore dei modi, proprio come si faceva in epoca precristiana, quando il periodo che precedeva la primavera era contrassegnato da cerimonie di purificazione degli uomini, degli animali e dei campi.
Ricordiamo che anche a Roma si benedicono tuttora gli animali domestici nella domenica successiva alla festa, ma non davanti alla chiesa di Sant’Antonio Abate (in via Carlo Alberto), come si faceva un tempo, bensì nella chiesa di Sant’Eusebio, in piazza Vittorio.
Il santo è diventato in ambiente contadino il protettore degli animali forse perché veniva raffigurato con un maialino che, secondo quanto si narrava, lo seguiva dappertutto dopo essere stato da lui guarito. Ma l’abbinamento con una figura così poco spirituale potrebbe avere un significato ben diverso. Per comprenderlo dobbiamo risalire indietro nel tempo e ricostruire il particolare contesto storico e ambientale in cui operò il santo.
Definito dal suo biografo Sant’Atanasio come il fondatore dell’ascetismo, Antonio
visse in Egitto tra il 252 e il 357, agli inizi dell’era cristiana. A circa vent’anni abbandonò la ricca famiglia di origine, vendendo tutti i suoi averi, per seguire il consiglio evangelico: “Se vuoi essere perfetto, vendi quello che hai, dallo ai poveri e seguimi”; si ritirò quindi come eremita nel deserto. “Chi sta in solitudine sfugge a tre nemici: l’udito, la parola e la vista”, disse una volta. Ma la sua vita di ascesi, solitudine e preghiera non fu immune da grandi tentazioni: secondo la tradizione, ripresa nei dipinti di Grünewald, Bosch, e tanti altri artisti, il demonio assunse le più diverse forme bestiali per tormentare Antonio e farlo desistere dal cammino di santità, suscitò cataclismi, cercò di confondere il suo spirito con valanghe di argomenti.
Gli animali che lo circondano nelle sue raffigurazioni, e in particolare il maiale, simbolo di lussuria, potrebbero essere le forme bestiali assunte dal Tentatore (che non a caso in una colorita espressione popolare è detto “porco diavolo”). Ma non dimentichiamo che le tombe della Tebaide, dove abitualmente vivevano gli eremiti, sono piene di affreschi raffiguranti le antiche divinità egizie spesso zoomorfe. Chissà che le visioni diaboliche avute dal santo non fossero allucinazioni dovute al digiuno e alla veglia, in un luogo come il deserto che esprime il punto estremo della tensione spirituale, dove si può scegliere solo tra due Assoluti: la luce o le tenebre, Dio o Satana. La fama della santità di Antonio oltrepassò ben presto la valle del Nilo e una piccola folla di seguaci si riunì a poco a poco intorno a lui, per farsi guidare nella vita eremitica. Per un breve periodo egli si recò ad Alessandria per combattere, insieme a Sant’Atanasio, l’eresia ariana. Poco prima di morire predisse la sua fine imminente a due discepoli che avevano ottenuto di condividere la sua vita negli ultimi quindici anni. Ebbe da loro la promessa che non avrebbero rivelato ad alcuno il luogo della sua sepoltura per sottrarlo agli onori. Secondo la leggenda la sua tomba sarebbe però stata scoperta nel 565 e il suo corpo portato ad Alessandria, e quindi a Costantinopoli nel 635. Nel secolo XI le sue reliquie sarebbero passate in Francia e il suo culto si sarebbe da qui diffuso in tutto l’Occidente. C’è chi vede nell’associazione del santo con gli animali un’influenza di origine celtica perché sono state riscontrate analogie tra la raffigurazione di Sant’Antonio col porcello e quella del dio nordico Lug, solitamente affiancato da un cinghiale. Questa divinità, che regnava sugli inferi, risorgeva ogni anno assicurando il ritorno della primavera.
Non è un caso forse che in un dipinto del Pisanello, conservato nella National Gallery di Londra, sia proprio un cinghiale l’animale che sta ai piedi del santo.
Un’altra usanza legata alla festa di Sant’Antonio è quella dei falò: cataste di legno, che in certe località raggiungono dimensioni enormi e alle quali viene dato fuoco la sera della vigilia. I carboni vengono poi raccolti e conservati a scopo terapeutico. A Novoli, in provincia di Lecce, l’importanza di questa festa, detta della Focura proprio per l’enorme falò, è sottolineata dalla partecipazione in massa di tutte le confraternite locali.
Il rito dell’accensione dei fuochi è in realtà antichissimo e risale al momento del passaggio dalla cultura pastorale a quella agricola: il fuoco avrebbe lo scopo magico di riscaldare la terra, e favorire così il ritorno della primavera. La relazione tra il santo e il fuoco potrebbe essere legata al fatto di essere considerato il vincitore delle potenze diaboliche e quindi il “custode dell’inferno”, ma vi è pure una leggenda diffusa nel Nuorese che fa del santo una specie di Prometeo che regala agli uomini il fuoco per scaldarsi, fuoco puntualmente rubato all’inferno, dove Antonio si sarebbe recato col suo maialino. Invocato contro gli incendi, il santo taumaturgo guarisce anche quel fuoco metaforico che è l’herpes zoster (una malattia virale chiamata popolarmente fuoco di Sant’Antonio), curato a Napoli nella chiesa omonima con frizioni di lardo di maiale.
Interessante proprio per la presenza del fuoco è un’immagine del Libro d’Ore di Enrico VIII (1500 ca., The Morgan Library & Museum, New York), che mostra anche una diavolessa dall’aspetto di bella donna in una grotta.
La festa di Sant’Antonio Abate segna anche l’inizio del carnevale e la cosa sembra a dir poco curiosa se si pensa alla vita di ascesi del santo eremita. Ma ciò potrebbe essere spiegato con un episodio narrato da Iacopo da Varazze nella sua Legenda Aurea. Pare che una volta un cacciatore vide Antonio che si svagava con i suoi monaci e questo gli parve poco adatto al suo tenore di vita spirituale. Allora Antonio gli disse: “Incocca una freccia e tendi l’arco”. Il cacciatore lo fece, e Antonio gli disse di continuare a tenderlo, e poi ancora; a questo punto il cacciatore gli replicò: “Posso tendere fin che vuoi, ma finirei col romperlo e mi dispiacerebbe”. “Lo stesso accade nel servire Dio”, spiegò allora Antonio, “Se volessimo andare oltre misura, ben presto ci spezzeremmo; per questo occorre ogni tanto allentare il rigore della nostra vita”. Come dire che i divertimenti del Carnevale sono necessari per alleviare i periodi di austerità imposti dalla religione.
Tra i dipinti più celebri che illustrano la vita del Santo vi è il grande Trittico di Sant’Antonio (ca. 1500-1505) di Hieronymus Bosch conservato a Lisbona nel Museu Nacional de Arte Antiga.
Nell’anta di sinistra i compagni del Santo trasportano il suo corpo esanime su un ponte dopo che è stato colpito dai diavoli che lo hanno attaccato dall’alto, come si vede nella parte superiore della scena.
Il pannello centrale mostra Sant’Antonio in preghiera in una specie di cappella, circondato da esseri mostruosi che simboleggiano le forze del male. In piedi sul fondo destro dell’edificio è Cristo accanto al Crocifisso sull’altare.
L’anta destra raffigura l’apparizione di Satana, sotto forma di una giovane bella e lussuriosa regina che viene incontro ad Antonio. Lei gli mostra le sue false opere di carità e cerca di sedurlo, ma il santo scopre l’inganno. Indubbiamente Bosch è perfettamente a suo agio nel descrivere le forme più mostruose che il demonio può assumere, dando una visione disperata di un mondo esposto all’azione di forze malefiche, un mondo che credeva ciecamente nella magia e nella stregoneria e che egli cercò di combattere con la sua fede, evidenziando il potere della presenza di Cristo, come aiuto al santo nelle sue tribolazioni, e la sua vittoria sul male.
Il suo messaggio è completato sull’esterno dei pannelli laterali, dove sono dipinti in monocromo due episodi della Passione di Cristo: l’Arresto di Cristo sulla sinistra e il Trasporto della Croce sulla destra.
Ricordiamo che il Trittico di Lisbona non è l’unica versione di questo soggetto da parte di Bosch. Nel Museo del Prado di Madrid è conservato un pannello con la Tentazione di Sant’Antonio (1510-15),
che si discosta dalle altre versioni perché mostra il santo assorto nei suoi pensieri, del tutto estraneo a ciò che succede, mentre i diavoli si stanno preparando ad attaccarlo, circondando il tronco dell’albero cavo che gli serve da dimora. Ai suoi piedi il maiale, il suo attributo più tipico, sembra pure lui inconsapevole della diabolica minaccia incombente.
Nica FIORI Roma gennaio 2019