di Giorgia TERRINONI
‘L’arte di Frida Kahlo de Rivera è un nastro intorno a una bomba’. (André Breton)
Il 2018, nelle arti e nel costume, si è aperto all’insegna della celebrazione spassionata del sincretismo messicano. Non a caso, è l’anno di Frida Kahlo.
Que Viva Mexico!
Lo scorso Natale, nelle sale cinematografiche italiane, è stato proiettato Coco, l’ultimo piccolo capolavoro firmato Disney Pixar. Per chi se lo fosse perso – magari bollandolo come uno stucchevole e buonista film d’animazione – Coco racconta le (dis)avventure del giovane Miguel Rivera e della sua famiglia, in un coloratissimo villaggio messicano, alla vigilia delle celebrazioni del Día de los Muertos. Miguel vorrebbe partecipare ai festeggiamenti strimpellando liberamente la sua chitarra di risulta, calandosi idealmente nei panni del suo idolo musicale, il grande Ernesto de la Cruz (la cui statua troneggia nello zocalo del villaggio). Ma l’irrefrenabile passione canora del bambino è insensatamente osteggiata da tutta la famiglia, votata alla produzione di calzature. Presto si scopre che sui Rivera aleggia una maledizione, lanciata dalla bisnonna Imelda; un divieto assoluto di praticare alcuna forma musicale. Pena, l’ira e la violenza dei defunti! Miguel, che dalla sua ha l’insubordinazione alle regole tipica del genio infantile, se ne frega letteralmente della maledizione e non esita a trafugare la chitarra stregata appartenuta al suo idolo. E lo fa proprio nel Día de los Muertos, approfittando della disattenzione dei suoi familiari. Quest’azione incosciente ma salvifica gli apre la porta del regno dei morti; e così ha inizio il suo viaggio di visioni, in compagnia del fascinoso – tanto malinconico quanto inquietante – spirito Hector. La musica dei mariachi, i personaggi caratterizzati da un eccesso di malinconia (Hector) oppure da un eccesso di violenza (Ernesto de la Cruz), la prossimità con gli animali – il cane xoloitzcuintle chiamato Dante e gli alebrijes, ovvero spiriti-guida – la profondità magica dei cenotes e l’horror vacui che caratterizza sia la devozione ai morti da parte dei vivi sia l’aldilà, restituiscono una serie di immagini del Messico tutt’altro che banali. Visionarie, eppure reali. Perché tanta cultura messicana, forse in virtù del fatto di essere scaturita dal meticciato ancora rintracciabile, è al contempo visionaria e reale, malinconica e violenta, grafica e ipertrofica…
Manca in questo tripudio visivo la Vergine di Guadalupe, la potente Madonna del Messico che, attraverso i teli del suo mantello, salda i culti aztechi al cattolicesimo. Compare però, en abîme e anche un po’ en passant, l’evocazione di Frida Kahlo. Moderna martire, figura di passaggio, crocevia in carne e, nel caso di Coco, anche in ossa. Ma Frida non è solo la quintessenza del Messico. Frida è il Messico che abbraccia il Vecchio Mondo. È la persistenza consapevole di Vecchio e Nuovo. E, a mio avviso, questa è una delle ragioni per le quali Frida e la sua pittura ci piacciono molto!
In questi mesi, il Mudec di Milano celebra l’artista con una mostra ambiziosa e intelligente (Frida Kahlo. Oltre il mito). L’esposizione, curata da Diego Sileo, riunisce opere provenienti da varie istituzioni internazionali, ma soprattutto dal Museo Dolores Olmedo di Città del Messico e dalla Jacques and Natasha Gelman Collection, le due più importanti collezioni di Frida Kahlo al mondo. A queste si aggiungono documenti e materiali d’archivio rinvenuti negli ultimi anni all’interno della Casa Azul, che intendono fornire una chiave di lettura più solida e complessa intorno alla figura dell’artista.
La mostra sta facendo il tutto esaurito, le vetrine milanesi inneggiano alla moda messicana, l’importazione di adorabili cimeli kitsch e di macabri ex voto è alle stelle, il design di massa – ma immancabilmente radical chic – copia a man bassa.
La vicenda biografica di Frida Kahlo è abbastanza nota. Leggendaria e quindi banalizzata, eppure fondamentale per un’artista che nell’intera sua opera non fa che parlare di sé e della sua irrefrenabile immaginazione. Di realtà, insomma, perché l’immagine è parte del nostro essere reali. Un’immaginazione che avrebbe avuto bisogno di spiccare il volo: le foltissime sopracciglia sono il simbolo ben noto delle ali di un uccello. Ma l’uccello è appollaiato, non può volare, ha la schiena in pezzi!
Frida è di madre messicana, ma soprattutto di padre europeo. Per la precisione Wilhelm/Guillermo Kahlo è figlio di ebrei ungheresi e vive in Germania. Un ragazzo riservato, sensibile e intelligente, che ama la musica e la letteratura. E che, poco tempo dopo la morte della madre, decide d’imprimere una svolta alla sua vita e s’imbarca per il Messico. Incontra Matilde Calderon in una gioielleria di Città di Messico; i due si sposano e hanno quattro figlie. Guillermo apprende dal padre di Matilde l’arte del dagherrotipo e,
divenendo presto un fotografo professionista, inizia a soddisfare la sete di curiosità che l’ha spinto tanto lontano, viaggiando in lungo e in largo attraverso il paese. Il lavoro gli rende bene e gli permette di costruire una casa per la sua famiglia, la ben nota Casa Azul, situata nel quartiere periferico di Coyoacan. Alla piccola Frida Guillermo si sente molto affine; nella bambina egli rintraccia precocemente un’indole malinconica (in casa la soprannominano Lagrimilla, per la tendenza a versare molte lacrime), ma pure un’intelligenza prorompente. È per questo che si batte contro la moglie affinché la figlia frequenti la migliore scuola preparatoria della città, nonostante questa sia molto distante da casa e a Frida sia già stata diagnosticata la poliomelite.
Ma a diciotto anni la vita di Frida si spezza insieme alla sua colonna vertebrale, la ballerina viene irrimediabilmente trafitta. Un grave incidente in tram, di ritorno da scuola, distrugge il suo futuro insieme al suo corpo. Quel futuro che, per l’intera durata della sua vita, Frida combatterà per riavere diritto a vivere. È nei lunghi mesi di convalescenza trascorsi a letto che il suo genio incontenibile, tra dolori e lacerazioni, trova la via della pittura. La pittura sgorga da Frida per necessità.
Dopo i primi ritratti ad amici e familiari, si concentra sulla realizzazione di autoritratti. Complice il letto a baldacchino sul quale è costretta a giacere semi-immobile. Questo è sormontato da uno specchio: la pittura inizia a scaturire dall’immagine di Frida allo specchio. È una Frida smembrata svelata dallo specchio e che si ricompone attraverso la pittura. Nei poco più di vent’anni che le restano da vivere, la donna e l’artista si muovono in simbiosi, costantemente alle prese con smembramenti e ricomposizioni; tutte le saldature imposte al corpo di Frida sono provvisorie, eppure la sua mente le pensa e le sostiene come necessarie.
È nella rinuncia all’interezza, una rinuncia senza resa, che io rintraccio il fascino intramontabile di Frida Kahlo e della sua minuta pittura. La sua ostinazione – nella vita e nell’opera – ricorda la pratica degli ex voto, oggetti offerti nei santuari per ricompensare il Divino, per le preghiere esaudite. L’ex voto è un oggetto-segno che rappresenta l’evento cui si riferisce la grazia ricevuta: molto spesso, tale evento coincide con una grave malattia; per questa ragione, la maggior parte degli ex voto raffigurano organi o parti del corpo.
La pittura di Frida Kahlo pullula di ex voto. Basti pensare al quadro intitolato Ospedale Henry Ford, dipinto a Detroit nel 1932, in seguito a un inevitabile aborto. L’artista si rappresenta su un letto con traverse; è nuda, il ventre arrotondato e i capelli sciolti. I suoi occhi lacrimano e le lenzuola del letto sono macchiate di sangue. In una mano tiene dei fili rossi che la collegano a sei elementi sparsi nello spazio: una lumaca, un feto maschio, il profilo del suo corpo all’altezza del ventre, una strana macchina metallica, le ossa del suo bacino. All’orizzonte, una città industriale. Quando alla metà degli anni Trenta arriva in Messico, André Breton trama non poco al fine di sedurre Frida e portarla sulle sponde del tardo Surrealismo. Ma lei, pur riconoscendo a Breton molte doti e molti meriti, rimane a debita distanza dal vortice surrealista e si limita a spiegargli che la sua pittura parla di realtà. Della sua realtà. Una realtà tragica, trasgressiva, appassionata, incongrua, frammentaria, simbolica, ma pur sempre una realtà.
Frida ha l’abitudine d’indossare gli abiti delle donne di Tehuantepec (Stato di Oaxaca): la città è centro della cultura zapoteca e vi sopravvive ancora una società di tipo matriarcale. Il costume tehuana si compone di un velo, una blusa e una lunga gonna dai motivi floreali intensamente colorati, il tutto impreziosito da vistosi gioielli. Frida sceglie consapevolmente d’indossare una maschera dalle forti risonanze simboliche. Ma nel farlo è guidata da un potente senso di realtà: la maschera, a differenza dell’abbigliamento femminile in voga all’epoca, le consente di nascondere la sua gamba affetta da poliomelite e di enfatizzare il suo essere donna. Essere donna senza retorica, come lo è stato il suo essere comunista. In fondo, sempre e comunque, dannatamente reale!
Giorgia TERRINONI Roma 2018