di Nica FIORI
Guy de Maupassant, nel suo racconto La leggenda del Mont Saint-Michel (1882), per spiegare l’origine dell’omonima abbazia in Normandia, riporta la leggenda secondo cui San Michele aveva costruito su un’isoletta la sua dimora e l’aveva poi circondata da sabbie mobili, perché il Maligno non potesse accedervi.
Ma Satana si era sistemato sulla costa, costringendo il santo a vivere relegato nella sua casa in un digiuno assoluto. A un certo punto San Michele decise di giungere a patti col diavolo. Gli propose di coltivare tutte le sue terre e alla fine avrebbero diviso il raccolto. A Satana sarebbe spettato tutto ciò che era sopra la terra, a San Michele tutto ciò che era sotto. Ma, sei mesi dopo, nell’immenso dominio del diavolo non si vedevano che carote, rape, cipolle e altre piante sotterranee, così che il Maligno rimase gabbato. Dopo altri affari dello stesso genere, un giorno il santo invitò il diavolo a pranzo da lui, in cima al monte. Da lì, con una formidabile pedata, lo scaraventò nello spazio, da dove cadde pesantemente davanti alla città di Mortain. Le sue corna e le unghie penetrarono nella roccia, lasciando tracce ancora visibili (foto 1).
Questa gustosa storiella relativa al celebre monastero benedettino, chiamato dai pellegrini La Merveille perché sembra emergere dalle acque quando c’è l’alta marea, è un esempio di come il popolo abbia visto a modo suo la lotta tra l’arcangelo Michele e Satana. Indubbiamente l’idea dell’arcangelo intento a coltivare la terra ci fa sorridere, perché San Michele è per i cristiani (come pure per gli ebrei e i musulmani) il principe degli angeli, difensore del giudizio divino, custode e guida delle anime verso il cielo. L’immagine più diffusa in occidente è quella di un guerriero alato, con la spada o la lancia in mano, spesso mentre sconfigge il Diavolo (raffigurato sotto forma di drago, serpente o angelo decaduto): iconografia che deriva dal libro dell’Apocalisse (foto 2 e 3).
E proprio come guerriero sarebbe apparso a Roma nella leggendaria apparizione del 590, ma nell’atto di rinfoderare la spada.
Secondo quanto riferisce Iacopo da Varazze nella sua Legenda Aurea (XIII secolo), si sarebbe manifestato in tutto il suo fulgore ai romani sopra la Memoria di Adriano (ovvero il Mausoleo di Adriano), che da allora prese il nome di Castel Sant’Angelo. Il termine castello era giustificato dal fatto che l’edificio era già divenuto, in seguito alla guerra greco-gotica degli anni 535-553, il perno di una cittadella fortificata, in stretto rapporto con la vicina basilica vaticana (foto 4 e 5).
Racconta Iacopo da Varazze che la città era stata colpita da una terribile pestilenza e il pontefice, San Gregorio Magno, aveva chiesto l’aiuto divino portando in processione l’icona della Madonna (l’autore si riferisce forse alla Salus Populi Romani, conservata nella basilica di S. Maria Maggiore, o più probabilmente alla più antica icona, databile al VI secolo, attualmente conservata nella basilica di Santa Francesca Romana). Il papa vide l’angelo del Signore “che stava nettando la sua spada insanguinata e la rimetteva nella guaina”: gesto che fu visto come la fine dell’ira divina, ottenuta grazie all’intercessione della Madre di Dio (foto 6).
Un’altra versione vuole che l’immagine della Vergine fosse quella di Santa Maria d’Aracoeli. In questa chiesa, proprio sotto l’icona miracolosa, era murato un tempo un disco marmoreo, che fu staccato al tempo di Alessandro VII (1655-67) per essere trasferito nel vicino palazzo dei Conservatori, e più tardi nel palazzo Nuovo (entrambi i palazzi, in piazza del Campidoglio, costituiscono i Musei Capitolini).
Questo disco, del diametro di cm 25, contiene una dedica a Iside (vi si legge con molta difficoltà ISIDI FRUGIFERAE: si tratta quindi di un ex voto, proveniente dall’iseo capitolino). Ciò che lo rende particolare è il fatto che vi siano scalpellate le impronte di due piccoli piedi. Secondo alcuni scrittori secenteschi si trattava delle “pedate”, impresse dall’arcangelo Michele quando si poggiò su Castel Sant’Angelo. A nessuno parve strano che il capo delle milizie celesti, il cui nome Michael (“Chi come Dio?”) sembra un potente grido di guerra contro i nemici del Signore, avesse i piedini di un bambino. Il particolare era ripreso pari pari dalla leggenda delle orme angeliche nella grotta del monte Gargano (il primo santuario occidentale dedicato a San Michele), ma a poco a poco, presumibilmente per la sua inverosimiglianza, se ne perse il ricordo (foto7).
In realtà nessun biografo di San Gregorio Magno precedente a Iacopo da Varazze parla dell’apparizione dell’arcangelo, mentre viene dato ampio spazio alla storia della peste inguinale, scoppiata in seguito a uno straripamento del Tevere. Il morbo colpì subito papa Pelagio, che ne morì. Gregorio, eletto papa subito dopo, stabilì di eseguire “una litania settiforme”, ovvero sette processioni che partivano ognuna da una chiesa diversa per radunarsi nella basilica della Vergine. Durante il percorso, secondo quanto scrive Gregorio di Tours, morirono almeno ottanta persone.
Cesare D’Onofrio, che nel suo libro Castel S. Angelo e Borgo tra Roma e Papato (Roma, 1978) ricostruisce storicamente l’intera vicenda, ritiene che il racconto dell’angelo con la spada in mano dovrebbe essere stato aggiunto con tutta probabilità qualche secolo dopo, forse per concretizzare con un’immagine soprannaturale le parole di papa Gregorio, che nella sua orazione al popolo aveva detto:
“La spada è arrivata fino all’anima; tutto il popolo è trafitto dalla spada dell’ira celeste ed è colpito da strage improvvisa …”.
Quando, in seguito, il percorso della litania settiforme cambiò ed ebbe come meta finale la basilica di S. Pietro, i fedeli si trovavano a passare sotto il castello, sulla cui cima pare esistesse già dal VII secolo una cappella dedicata a San Michele inter nubes, ispirata al culto aereo degli angeli, e probabilmente anche una sua statua.
Il nome del castello, che dalla metà del X secolo fino alla metà del XII era detto dei Crescenzi, potrebbe essere cambiato proprio per la presenza del simulacro angelico. Da allora si sono succedute diverse immagini scultoree. Oltre all’attuale, si conserva soltanto quella di Raffaello da Montelupo (corpo in marmo e ali metalliche traforate, che un tempo dovevano essere decorate), dalle fattezze classiche e un bel viso dall’aria malinconica (foto 8). Collocata sulla cima nel 1544, la statua venne rimossa nel 1747 per essere sostituita dall’imponente bronzo di Pieter van Vershaffelt, più fedele nell’aspetto all’angelo della leggendaria visione del 590 (foto 9).
Oltre a questa romana, le apparizioni micaeliche più note sono quelle avvenute in una grotta sul Gargano, dove poi sorse l’importante santuario di Monte Sant’Angelo (prov. di Foggia), meta di numerosissimi pellegrini. La prima apparizione avvenne nel 490 e poco dopo l’arcangelo apparve per ben due volte al vescovo di Siponto San Lorenzo Maiorano, che gli dedicò la grotta il 29 settembre 493 (foto10, 11 e 12).
Nella lotta per il possesso dell’Italia meridionale, i Longobardi elessero l’arcangelo Michele protettore delle loro milizie, avendo a lui attribuito la vittoria riportata dal re longobardo Grimoaldo sui Bizantini nel 647, ai piedi del Gargano, come riferisce Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum (IV, 46). Fu proprio grazie ai Longobardi che il suo culto si diffuse in tutto il regno. Questo popolo, che si era convertito prima all’arianesimo e poi al cattolicesimo, aveva trovato in San Michele alcuni attributi del dio germanico Wotan (Odino), che era dio della guerra portatore di vittorie, protettore di eroi e guerrieri e psicopompo (foto 12).
In altri contesti l’Arcangelo ha preso il posto di altre divinità pagane, cui è stato in qualche modo associato. Nel santuario che Costantino, secondo alcuni storici, gli aveva dedicato sul Bosforo, detto Michaelion, vi si praticava l’incubazione, che era tipica dei santuari di Asclepio, il dio della medicina, e pertanto San Michele potrebbe aver assunto anche le sue funzioni di guaritore. La sua festa cade il 29 settembre (festa che condivide con gli altri arcangeli San Gabriele e San Raffaele), in uno dei periodi più critici dell’anno, quello intorno all’equinozio d’autunno, quando il sole passa dall’emisfero settentrionale dello zodiaco a quello meridionale, come dire che scende agli “inferi”. In epoca ellenistica questo equinozio era consacrato, insieme a quello primaverile, al dio solare Mitra. Nell’iconografia consueta il dio era accompagnato da due simbolici portatori di torcia. Il primo, Cautes, è rappresentato con la fiaccola alzata a significare il giorno o anche l’aspetto primaverile del dio. L’altro, Cautopates, ha invece la fiaccola abbassata e simboleggia la notte oppure il sole autunnale.
Molte funzioni equinoziali di Mitra-Sole sono state ereditate da San Michele, perciò anche questa festività, come altre collegate ai periodi di transizione dell’anno, indica nella tradizione popolare le condizioni meteorologiche dei mesi successivi, come in questo proverbio: “Quando l’Angiolo si bagna l’ale, piove sino a Natale”.
Mitra era nel mondo romano una divinità prediletta dai soldati, in quanto garante dei giuramenti, e San Michele, capo delle milizie celesti, diventa a sua volta protettore dei soldati e dal 1949 patrono del Corpo della Polizia. Anche l’iconografia ricorda in un certo senso quella di Mitra. Quest’ultimo è raffigurato mentre uccide un toro, mentre San Michele combatte e prevale sul drago, simbolo del demonio. Considerato signore e animatore del cosmo, Mitra-Sole aveva tra i suoi attributi una sfera. Ma anche San Michele a volte tiene la spada in una mano e un globo nell’altra, come nell’affresco (1547-48) di Domenico Zaga a Castel Sant’Angelo a Roma.
Il significato della sfera è pressoché simile nei due casi, anche se stavolta la sovranità sul cosmo è quella di Dio e Michele non è che il suo esecutore. In un polittico del Sassetta, nel Museo diocesano di Cortona, San Michele è raffigurato con un fuoco tra i capelli. Potrebbe essere una reminiscenza delle fiaccole solari mitraiche, ma più probabilmente questa fiamma, che caratterizza pure l’iconografia di altri angeli, vuole alludere al fuoco iperuranio che nasce tra le stelle, luminoso e puro come quello dello Spirito Santo (foto 13).
Più volte l’arcangelo è raffigurato con la bilancia per pesare le anime, come per esempio in un mosaico del duomo di Torcello del XII o XIII secolo, ma anche il mito di Mitra vuole che il dio, alla fine dell’attuale ciclo cosmico, ritornerà sulla terra per separare le anime buone da quelle cattive (foto 14).
Questa funzione di “pesatore di anime” la si ritrova nel dio egizio Thot e nel greco Ermes (Mercurio per i romani), divinità assimilate tra loro in epoca alessandrina. Alfredo Cattabiani nel suo Calendario (1988) scrive a questo proposito che, quando l’Arcangelo
“conquistò anche i Celti e gli Anglo-Sassoni, in Francia e in Germania i suoi primi santuari furono costruiti sui templi dedicati a Mercurio, che a sua volta aveva sostituito un dio locale”.
È interessante notare che, così come Mitra era adorato in ambienti a forma di grotta (i mitrei erano chiamati spelaea), anche in ambito cristiano si afferma la scelta dell’antro tenebroso come luogo di culto.
Nel mitreo di Sutri (III secolo, attualmente chiesa di Santa Maria del Parto), sulla volta troviamo raffigurato San Michele Arcangelo. Ma la cosa più interessante è che nel vestibolo quadrato che precede il luogo sacro, e che in origine doveva accogliere gli aspiranti ai misteri di Mitra, troviamo nella parete di accesso alla chiesa degli affreschi medievali con al centro una scena che mette in relazione il mitreo con l’arcangelo Michele (foto 15).
Vi è raffigurata la prima apparizione dell’arcangelo nella grotta di Monte Sant’Angelo, sul Gargano, secondo quanto racconta Iacopo da Varazze nella sua Legenda Aurea.
Egli racconta che in Puglia
“nella città di Siponto c’era un uomo di nome Gargano, che secondo alcuni aveva preso nome dal monte, oppure era stato il monte a prendere nome da lui”.
Mentre Gargano stava pascendo il suo bestiame sulle pendici del monte, un toro si allontanò e salì verso la sommità. Dopo essere stato a lungo cercato, il toro fu trovato in cima al monte all’ingresso di un antro. Il proprietario, esasperato dal fatto che quell’animale “tendeva a sbandarsi, gli scagliò contro una freccia avvelenata, ma la freccia come colpita dal vento, si rivolse contro di lui”.
Il fatto portentoso fu poi spiegato da un’apparizione dell’Arcangelo Michele al vescovo di Siponto. Queste sarebbero state le sue parole:
“Sappiate, gente, che quell’uomo è stato colpito dalla sua stessa freccia per mia volontà. Io infatti sono l’arcangelo Michele, e ho stabilito di abitare questo luogo e di proteggerlo, divenendo suo vigile e custode, e dandone segno evidente con questo prodigio”.
Il vescovo e i cittadini andarono poi in processione fino alla grotta, ma timorosi rimasero al di fuori, pregando sulla soglia.
Tutto questo è raffigurato con una certa grazia narrativa dal pittore medievale e a noi viene spontaneo collegare in qualche modo il toro raffigurato nella scena all’ingresso della grotta del Gargano, con il gruppo della tauroctonia mitraica, che presumibilmente può essere stato allontanato da questo mitreo (databile al III secolo) nel momento della sua consacrazione all’Arcangelo Michele, non oltre il VII secolo, mentre la trasformazione in chiesa è riferibile al XIII-XIV secolo, quando divenne un luogo di transito e di sosta per i pellegrini della via Francigena.
Le grotte o chiese rupestri dedicate a San Michele, nate sul ricordo della prima apparizione garganica, sono diffuse soprattutto nell’Italia centro meridionale. In Puglia, dove il suo culto è particolarmente sentito, si ricordano San Michele delle Grotte a Gravina e la Grotta in Monte Laureto presso Putignano. Quest’ultima è stata consacrata, un secolo dopo rispetto a quella del Gargano, da San Gregorio Magno, lo stesso pontefice cui era apparso l’arcangelo a Roma e che apparteneva all’importante famiglia degli Anici, proprietaria delle terre di Monte Laureto.
I pastori abruzzesi e molisani che per secoli si sono recati in Puglia per l’annuale transumanza hanno proclamato San Michele patrono e protettore delle loro greggi, al posto di Ercole, la divinità precedentemente prediletta in ambito agricolo-pastorale. La sovrapposizione tra le due figure era favorita da affinità iconografiche (alla clava di Ercole si sostituì la spada di S. Michele e alla leontè il mantello), oltre che mitologiche: così come Ercole uccideva la mostruosa idra di Lerna, Michele sconfiggeva il demonio.
Altre volte si è sostituito ad altre divinità, anche femminili. Nel Lazio la Grotta di San Michele a Monte Tancia (in provincia di Rieti) doveva essere originariamente sede di un culto pagano, quello della dea sabina Vacuna, protettrice delle acque e dei boschi. Sarebbe stata poi consacrata a San Michele da papa Silvestro I (314-335), che, proprio come l’arcangelo, ha legato il suo nome alla leggendaria sconfitta di un drago, simbolo del Demonio. Il papa avrebbe visto la lotta tra San Michele e il drago dal Monte Soratte, dove si trovava in eremitaggio, prima di recarsi a Roma a “guarire” Costantino dalla lebbra (foto 16 e 17).
Sempre in relazione alla sconfitta di un drago da parte di San Michele, e quindi al simbolico prevalere della luce sulle tenebre, ci appare la grotta di San Michele a Montorio in Valle di Pozzaglia Sabina, in provincia di Rieti (foto 18).
Sul Colle Mandrile, situato al di sopra della grotta, vi era, infatti, un diabolico drago, ricordato in un canto locale che inizia con
“Evviva San Michele / celeste campione / al drago fellone / la guerra intimò”
e termina con
“A Colle Mandrile / c’è un drago ferale / su quel brutto animale / Michele trionfò. / Evviva San Michele / che è grande che è forte / sul mostro di morte / lui sempre trionfò”.
Mentre in Italia si parla di via micaelica per indicare il percorso che da Roma arriva a Monte Sant’Angelo (via Francigena del Sud), toccando numerosi luoghi di culto sacri all’Arcangelo, anche nel resto dell’Europa e del Mediterraneo è presente una linea dell’Angelo. Guardando la carta geografica, è evidente che i sette santuari più importanti dedicati a San Michele si trovano tutti su una linea retta virtuale, che parte dall’Irlanda per arrivare in Israele.
Secondo una leggenda, la linea rappresenta il colpo di spada che l’arcangelo avrebbe inflitto a Satana per rimandarlo all’inferno. Tra i sette santuari voglio ricordare, oltre ai già citati Mont Saint-Michel e Monte Sant’Angelo, la Sacra di San Michele in Val di Susa (Torino), che ha ispirato Umberto Eco per Il nome della Rosa.
Nica FIORI Roma 27 settembre 2020