3 Febbraio: San Biagio di Sebaste. Il santo martire protettore della gola

di Nica FIORI

Il barbato / il frecciato / il mitrato / il freddo è andato”.

Questo noto proverbio stagionale allude ai più importanti santi dell’inverno, intendendo con il barbato Sant’Antonio Abate (17 gennaio), col frecciato San Sebastiano (20 gennaio) e col mitrato il vescovo San Biagio (3 febbraio).

Pittore fiorentino XV sec. San Biagio, Musei Capitolini

Nei primi giorni di febbraio, in effetti, si ha la sensazione che la natura cominci a risvegliarsi e, al tiepido sole quasi primaverile, sbocciano i primi fiori. Il passaggio dall’inverno alla primavera era contrassegnato nei tempi antichi da cerimonie di purificazione degli uomini, degli animali e dei campi. Basti pensare che lo stesso termine “febbraio” deriva dal latino “februare” che significa “purificare” o “espiare”.

La festa di San Biagio ha ereditato in parte questa funzione, condivisa con quella della Candelora (2 febbraio).

Fino a non molto tempo fa in diversi paesi il 3 febbraio si portavano in chiesa chicchi di cereali che, dopo essere stati benedetti, venivano mescolati a quelli della semina per propiziare un abbondante raccolto.

M.Benefial (attrib.), Miracolo di San Biagio

Ma a Roma e in molte altre città è sicuramente più noto il patronato di San Biagio sulla gola, acquisito grazie a un episodio che sarebbe avvenuto mentre il santo veniva portato a Sebaste per subirvi il martirio. Secondo una leggenda, una donna gli porse il figlio che stava per soffocare per una lisca in gola e il santo lo benedì, salvandolo miracolosamente dalla morte.

Sebaste (ora Sivas, in Turchia), da non confondere con la Sebaste della Samaria, era allora un’importante città dell’Armenia minore. Sebbene si ignori molto sulla vita di San Biagio, perché le cronache che lo riguardano sono tardive e leggendarie, sappiamo che egli era probabilmente medico e filosofo, prima di diventare vescovo di Sebaste. Il suo martirio sarebbe avvenuto intorno all’anno 316, al tempo dell’imperatore Licinio; dopo essere stato straziato con verghe e pettini uncinati di ferro, sarebbe stato decapitato, ma prima di morire pregò il Signore di concedere la salute a chiunque lo invocasse per un’infermità. Da qui la sua fama di taumaturgo, e non solo per le malattie della gola, tanto che è uno dei 14 “Santi ausiliatori”.

Monte San Biagio, Busto argenteo di S. Biagio

I materassai e i cardatori ne hanno fatto il loro patrono per via della somiglianza degli strumenti del loro lavoro con quelli della sua tortura, e viene ricordato pure come protettore degli animali perché nell’ultima parte della sua vita, mentre viveva da eremita in una grotta, gli uccelli e altri animali erano soliti portargli il cibo e ogni sera si radunavano davanti a lui per essere benedetti. Questa sua permanenza nella grotta va intesa non come paura della morte, cui prima o poi sarebbe andato incontro, ma perché doveva guidare da lì i suoi fedeli durante la persecuzione liciniana.

La sua dimestichezza con gli animali lo avvicina a Sant’Antonio Abate, tanto che nell’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso (Torino) gli è stata dedicata una cappella dove, in un affresco tardo gotico di Giacomo Jaquerio (post 1410), è raffigurato San Biagio indenne tra gli animali feroci,

G. Jaquerio, S. Biagio indenne tra gli animali feroci

mentre Sano di Pietro, che ha inserito alcuni episodi relativi alla vita del santo nel Polittico di Scrofiano (1449, Pinacoteca Nazionale, Siena), ha raffigurato San Biagio nutrito dagli uccelli.

Sano di Pietro, San Biagio nutrito dagli uccelli, Siena

Fu proprio nella grotta che venne catturato e, mentre veniva portato a Sebaste, oltre all’episodio della benedizione della gola del bambino che rischiava di morire per una lisca di pesce, si racconta anche dell’incontro con una donna disperata perché un lupo gli aveva preso il suo maiale, l’unico bene che possedeva. Il santo la rassicurò dicendole che avrebbe riavuto presto la sua bestia e immediatamente comparve il lupo, che restituì il maiale,

Sano di Pietro, San Biagio con il lupo, Siena
Miniatura con S. Biagio e il lupo che restituisce il maiale, Biblioteca Naz. Torino

episodio questo raccontato da Jacopo da Varazze nella sua Legenda Aurea e raffigurato in una miniatura (inizi del XIV secolo) del manoscritto I, II, 17 della Biblioteca Nazionale di Torino, e in seguito da Sano di Pietro nel già citato Polittico di Scrofiano.

La sua iconografia più diffusa è quella di vescovo, con la mitria in testa, spesso con due candele incrociate che simboleggiano la protezione sulla gola, a volte mentre benedice il bambino che aveva la lisca in gola, altre volte con simboli del suo supplizio.

Michelangelo, Giudizio universale (part.) San Biagio e S. Caterina

Alcuni artisti hanno raffigurato il suo martirio, o la sua gloria in cielo, come nella Cappella Sistina, dove Michelangelo lo ha inserito tra i santi del Paradiso, con in mano un pettine di ferro da cardatore.

In Italia il suo culto è particolarmente diffuso a Maratea (Potenza), perché lì nel 732 sarebbe naufragata una nave, che trasportava alcune sue reliquie (il torace, un femore e altre parti) provenienti da Sebaste, che divennero subito oggetto di devozione, ma in molti altri paesi il santo è festeggiato con solenni processioni e riti folcloristici.

Nel Lazio, dove è patrono di ben 13 comuni (tra cui Anguillara Sabazia, Marano Equo, Palombara Sabina, Vivaro Romano nella provincia di Roma) sopravvivono alcune usanze legate alla festa del santo, come la cerimonia dell’unzione della gola ai bambini in chiesa e la benedizione con due ceri accesi e incrociati. A Fiuggi (provincia di Frosinone), alla vigilia della festa (che prevede anche una versione estiva) si accendono dei grandi falò, chiamati “stuzze”, per commemorare il salvataggio della cittadina da parte del santo che, secondo una leggenda, avrebbe allontanato ignoti invasori (forse saraceni), facendo apparire grandi fiamme. In realtà i fuochi potrebbero essere il ricordo di antiche cerimonie di purificazione dei campi che segnavano il passaggio dall’anno vecchio al nuovo.

A Monte San Biagio, in provincia di Latina, la sera del 2 febbraio, giorno della Candelora, si benedice non solo l’olio d’oliva con il quale il giorno successivo verranno unte le gole, ma anche un tipico pane fatto a forma di dita. L’usanza di distribuire pani benedetti si ritrova in molte altre cittadine italiane, mentre a Milano si mangia in questo giorno il panettone avanzato a Natale, nella convinzione che preservi dal mal di gola.

Oltre a Maratea, moltissime città europee vantano il possesso di reliquie di San Biagio, probabilmente condotte in Occidente a seguito della lotta iconoclasta, cosicché si conoscono quattro improbabili teste, otto braccia e decine di dita, denti e piedi. Ma la tanto venerata gola si trova proprio a Roma nel Tesoro di San Pietro, da dove ogni anno, in occasione della festa del santo, viene portata nella chiesa di San Biagio in via Giulia, sua prima sede.

Chiesa di San Biagio della Pagnotta

Questa chiesa aveva un tempo lo strano appellativode Cantu secuta” forse dovuto alla vicinanza alla sponda del Tevere (“seccuta” era la sponda del fiume); a partire dal 1836 è diventata San Biagio degli Armeni perché officiata dal clero di quella nazione, ma per tutti è San Biagio della Pagnotta, per la tradizionale distribuzione del 3 febbraio dei piccoli pani benedetti, cui vengono attribuite virtù terapeutiche. L’origine della chiesa è precedente al X secolo, ma è ricordata per la prima volta in un’epigrafe conservata al suo interno, datata al 1072, che ricorda come l’abate Domenico del monastero annesso (non più funzionante) riedificò la chiesa sotto il pontificato di Alessandro II. L’odierna facciata è opera di Giovanni Antonio Perfetti, cui si deve anche il rifacimento settecentesco dell’edificio. Sulla facciata si conserva un affresco raffigurante il Santo titolare.

Una potente raffigurazione del Martirio di San Biagio (1678, olio su tela, m 4 x 2,2), opera di Giacinto Brandi, la troviamo nella chiesa romana di San Carlo ai Catinari (in piazza Benedetto Cairoli), il cui nome completo è Santi Biagio e Carlo ai Catinari,

San Carlo ai Catinari, interno

in ricordo di una chiesetta del XII secolo, dedicata a San Biagio, che sorgeva nello stesso luogo, mentre i “catinari” ricordano i fabbricanti di catini che lavoravano nei paraggi. Si tratta di una chiesa barocca monumentale (la sua cupola è la terza di Roma, dopo San Pietro e Sant’Andrea della Valle) e centralissima, ma purtroppo chiusa da più di tre anni, in seguito alle lesioni dovute al terremoto del 2016, per la quale ci auguriamo che possano cominciare al più presto i lavori di restauro da tempo promessi.

Il dipinto di Brandi, collocato nella seconda cappella a destra, raffigura il santo seminudo (con la barba bianca ma ancora vigoroso), che viene torturato, mentre in alto gli appare San Sebastiano, con in mano le sue simboliche frecce.

G. Brandi, Martirio di San Biagio, Roma

L’abbinamento di questi due santi martiri, voluto dal committente della tela, l’abate Giuseppe Absalon, potrebbe avere un preciso significato. Mi piace pensare che in questa scelta del martire Sebastiano, come portavoce della protezione celeste, si sia voluto richiamare il nome della città di Sebaste, dove avvenne il martirio di San Biagio. Nel dipinto, in basso a sinistra, è raffigurata anche la madre del bambino salvato dal santo, con accanto lo stesso bambino, che rischiava di morire per una lisca di pesce che gli si era conficcata nella gola. Si sa che il grande dipinto venne collocato nell’altare la sera del 2 febbraio del 1678, e si sa anche che venne eseguito da Giacinto Brandi in gran fretta, perché Carlo Maratta stava eseguendo lo stesso soggetto per la stessa chiesa, avendo avuto la stessa commissione dagli eredi dell’abate Absalon, dopo la sua morte. Il dipinto di Maratta, anche questo con l’apparizione di San Sebastiano in cielo, si trova attualmente a Genova, nella chiesa di Santa Maria di Carignano.

Carlo Maratta, Martirio di S. Biagio, 1680 ca; Genova

Sebaste –o, più esattamente, Sebastia– era in epoca romana una città importante, che per i cristiani è diventata tristemente famosa anche per essere stato il luogo del martirio di Aussenzio, Oreste, Eustrazio, Eugenio e Mardario, giustiziati intorno all’anno 300 sotto Diocleziano, e dei cosiddetti Quaranta martiri di Sebaste, il cui culto è tutt’oggi molto sentito sia in Oriente che in Occidente (a Roma ricordiamo un oratorio con il loro nome nei pressi della rampa imperiale del Palatino ed è intitolata a loro, e congiuntamente a S. Pasquale Baylon, una chiesa di Trastevere).

L’uccisione dei Santi Quaranta martiri di Sebaste (tutti soldati cristiani appartenenti alla XII LegioneFulminata”, così detta perché nelle sue insegne aveva un fulmine) avvenne su uno stagno gelato nel 320, per ordine del governatore locale, e può essere accomunata al martirio di San Biagio del 316, perché queste condanne a morte furono eseguite, sotto l’imperatore Licinio, dopo leditto di tolleranza di Milano del 313, che avrebbe dovuto porre fine alle persecuzioni religiose.

Questo apparente anacronismo può essere spiegato nell’ambito della complessa storia di quel periodo, caratterizzato dalla divisione del potere in seguito alla tetrarchia, inaugurata da Diocleziano con l’istituzione di due Augusti e due Cesari.

Benedizione di San Biagio, XVIII sec., Chiesa di S. Biagio Valff (Francia)

Licinio (Valerio Liciniano Licinio), che è stato imperatore romano dal 308 al 324, nel 311 divise l’impero d’Oriente con Massimino Daia, regnando sulla Tracia e la penisola balcanica, e due anni dopo si recò a Milano per incontrare Costantino, divenuto l’unico imperatore d’Occidente, col quale strinse un’alleanza contro lo stesso Massimino Daia, suggellata dal matrimonio di Licinio con la sorella di Costantino, Costanza. I due imperatori Costantino e Licinio promulgarono insieme l’Editto di Milano, che proclamava ufficialmente la tolleranza dell’impero nei confronti di ogni fede (l’unica versione dell’editto che ci è pervenuta è proprio quella di Licinio). Tuttavia Licinio, sconfitto Massimino Daia e diventato unico imperatore della parte orientale, cominciò a perseguitare i cristiani considerandoli amici di Costantino, che, a dispetto dell’alleanza e della parentela acquisita, era pur sempre un suo rivale. Alla fine Licinio, dopo essere stato sconfitto dal cognato nel 316 e nel 324-325, fu costretto all’abdicazione e poi fatto uccidere l’anno dopo dallo stesso Costantino.

Indubbiamente Licinio fu sleale nel perseguitare i cristiani dopo aver firmato l’editto di tolleranza, ma anche Costantino non fu un uomo misericordioso. Anche se favorì il cristianesimo, fu implacabile nel perseguire i suoi scopi e si macchiò di diversi delitti, come le uccisioni del suocero Massimiano (che era stato “Cesare” nella tetrarchia ed era il padre di Massenzio e di Fausta, la seconda moglie di Costantino), di Fausta e del figlio Crispo, avuto dalla prima moglie.

Nica FIORI   Roma 1 febbraio 2020