di Antonio E.M. GIORDANO
Chiusa il 4 Giugno la mostra di Lucilla Catania, “InMateriale” a cura di Luca Barreca, Museo Carlo Bilotti, Aranciera di Villa Borghese.
“La relazione tra materia e forma può essere casuale o causale, dolorosa o gioiosa, semplice o complessa, acuta od ottusa(…) reale o immaginaria”, secondo le parole del curatore.
Davanti al Museo Bilotti il monumentale “Sofficino” lapideo -che sembrava aver scavalcato la strada attraversando Villa Borghese- appariva come un gigantesco invertebrato (degno di Hans Arp), in barba o in polemica al traffico metropolitano.
Sinuosi e quasi ironici amplessi evocavano le “Viti stanche” in travertino di Tivoli, del 2016/17, dai giganteschi volumi acuminati
Ed i “Frangiflutti” del 2016, attorno a una colonna circondata da 72 elementi tubolari, apparivano come onde marine pietrificate, in una tricromia di candido travertino, bigio peperino e rosso di Verona.
“Scatole e scarpe con maniglie” del 2013/2017, in terracotta refrattaria, ossido di ferro e vinavil, è un’articolazione “site specific”, nata dalla riflessione nello spazio museale e sembrava voler rappresentare onde straripanti dal ninfeo dell’Aranciera.
L’artista come il demiurgo egizio Ptah, che plasma l’argilla del nun/pantano primordiale, modella onde di argilla e piega la materia al ritmo dell’acqua.
Se in “Viti stanche” conferisce monumentalità alla forma dell’oggetto minuto (rammentandomi Louise Bourgeois), Lucilla Catania tornisce volumi affusolati, scavando superfici concave (evocandomi Louise Nevelson) come in “Lapis” del 2012, a matita e grafite su carta, che assume l’aura sacrale di un totem, una meta/obelisco o un idolo.
Da un suo maestro dell’Accademia di Belle Arti, Emilio Greco, l’artista ha ereditato invece la sensualità della forma, mai rigida ma sempre flessuosa e seducente (al pari dell’opera di un Alberto Viani).
La sua è una metafora lirica ma al contempo costituisce un faticoso processo catartico: la metamorfosi dell’inanimato che prende vita e diventa dinamico. Se a Michelangelo era bastato ruotare di qualche grado la testa nel busto di Cecchin Salviati all’Aracoeli per animare il gelido marmo, a Lucilla basta torcere le viti, stanche (dell’infinita rotazione? O forse metafora del lavoro dell’uomo o dello scultore e cariche di spirito ludico?).
Con titoli onomatopeici, in “Rollo” del 2016 trasforma la superficie statica in dinamica, conferendo al calcareo travertino la sensazione di leggerezza e di duttilità della carta o della stoffa; “Foglio” in marmo nero Marquinia, del 2016/17, sembra librarsi in volo senza peso per il levarsi del vento o come il fluttuare di una manta sott’acqua; “Spicchio” del 2017 riesce a conferire al peperino di Vitorchiano il senso di dinamismo plastico di una vela.
Catania usa ossido di ferro rosso, matita, grafite e vinavil per i suoi “Vortici” del 2017, che riportano sul piano bidimensionale del grande foglio di cartone il movimento spiraliforme del tratto, come un tornado, in un’ascesa verticale e quasi catartica dalla Terra verso il Cielo e forse dalla materia allo spirito, nella fragilità del supporto opposta alla lunga durata della pietra; proseguendo la ricerca che dalla colonna tortile salomonica e dall’elica di Leonardo continua nel serpentinato manierista, nell’Apollo e Dafne berniniano per sfociare nelle opere di Anton Pevsner e del fratello Naum Gabo.
Salendo al piano superiore è possibile ammirare i disegni e i bozzetti fittili, che documentano il processo creativo, dall’invenzione sulla carta, fissata dal lapis con le linee di forza nello spazio, alla realizzazione in dimensioni ridotte, con tanto di impronte sulla terracotta.
“Ho la netta sensazione di lavorare sulla stessa forma idea da una vita” afferma Catania.
La sua scultura – come scrive Luca Barreca – è aniconica ma non astratta, classica ma non neoclassica, in equilibrio crociano tra forma e contenuto.
Le opere di Lucilla Catania, un ossimoro plastico di pietra dinamica, meritano dignità di dialogo con i maestri della grande scultura.
Antonio E.M. Giordano