di Fabio OBERTELLI
È ammirabile il Ribera nell’imitazione del naturale, nella forza del chiaroscuro, nel maneggio del pennello e nel dimostrare gli accidenti del corpo, le rughe, i peli”,
così diceva Anton Raphael Mengs nelle Opere pubblicate nel 1787 a proposito del maestro spagnolo a cui ci approcciamo in questa sede. La vicenda artistica e biografica è stata opportunamente e compiutamente indagata con vigore da Alfonso Pérez Sánchez prima e da Gianni Papi e Nicola Spinosa in seguito, il quale anche una decina di anni fa pubblicò una nuova ed aggiornata versione del catalogo completo dell’artista valenzano.
Il 17 febbraio del 1591 nella chiesa di Santa Tecla in Játiva viene battezzato (come testimoniato da un documento reperito nel 1929 dal Burgos) Juan Jusepe de Ribera, figlio di Simone de Ribera e di Margherita Cuco, i cui rispettivi padri svolgevano entrambi attività di calzolaio. Delle scarne notizie in merito alla sua primigenia formazione, l’unico dato certo rimane il suo itinerante viaggio dalla Spagna alla Lombardia spagnola e da qui fino alla ducale Parma presso la corte di Ranuccio Maria Farnese; ove si attesta la presenza del Ribera attorno all’anno 1611 (data in cui venne effettuato il pagamento per la tela L’Elemosina di San Martino presso la Chiesa di San Prospero). Della sua tappa parmense parla anche Luigi Scaramuccia ne Le Finezze de’ pennelli italiani del 1674. Da qui, in seguito, il passaggio a Roma dove nel 1613 viene già citato come membro dell’Accademia di San Luca (un documento della stessa Accademia evidenzia come tale “Josefo di Riviera” venne convocato presso la “congragatione accademica in Santo Luca per concludere cosa utilissima per la nostra gesia” nella sera del 27 ottobre 1613). Inoltre in un documento relativo allo Status Animarum della parrocchia di Santa Maria del Popolo, datato aprile 1615, risulta come il pittore alloggiasse in via Margutta col fratello Jeromino e con altri spagnoli ed è proprio in questo periodo che viene prodotto il celebre ciclo pittorico de I cinque sensi che già anticipa la verve e la poetica pittorica del Ribera. Nel 1616 si rifugia a Napoli (forse per sfuggire ai creditori) e qui stabilirà la propria florida e grandiosa attività che gli permetterà di divenire uno dei maggiori interpreti del caravaggismo partenopeo e non solo.ù
Da Napoli Jusepe si spostò verso Roma per brevi soggiorni,
come testimoniato da una lettera del 1625 scritta dal Duca di Alcalà, ambasciatore di Spagna a Roma, nella quale viene detto come lo stesso pittore fosse stato impegnato per la produzione di incisioni presso lo stesso duca tra il dicembre del 1620 e il gennaio del 1621. Dello stesso periodo sono le incisioni raffiguranti San Gerolamo e San Pietro Penitente, nonché le peculiari acqueforti datate e firmate, rappresentati specifici elementi anatomici in serie ripetuti. La bravura e la qualità delle opere del valenzano furono sin da principio pubblicamente riconosciute, se si pensa che lo stesso Bernardo de Dominci nelle Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, pubblicate a Napoli tra il 1742 e il 1745, riporta che poco dopo il suo arrivo [del Ribera] nella città partenopea, dipinse una tela raffigurante
“Un San Bartolomeo scorticato, ove nella persona del Santo, espresse una divota costanza; e in quella de’ Carnefici la perfidia e la crudeltà; e facevi sopra due amoretti divini che con bellissimo scherzo recavano Corona del Martirio al Santo Apostolo. Questo quadro tirò a se gli occhi de’ dilettanti così per lo soggetto tragico ben rappresentato e come per la nuova maniera”.
L’opera in questione attirò perfino l’attenzione del Viceré di Napoli, Don Pedro Téllez Girón y Guzmán duca di Osuna (dove la tela oggi si trova), il quale non solo acquistò il dipinto in oggetto, ma nominò Ribera pittore di corte con uno stipendio di sessanta dobloni al mese e incaricandolo di sovrintendere “a tutto quello che in pittura, intagli e sculture si lavorasse per lo real palagio”.
Ho deciso di riportare questo accadimento per sottolineare la popolarità dell’arte del valenzano, una popolarità che gli permise di essere apprezzato a tal punto che le sue opere entrarono nelle più importanti collezioni internazionali. Portatore di una “nuova maniera” così come scrive il de Dominici, in grado di far assaporare le carni dei soggetti che intendeva ritrarre. E questa crudezza che apparentemente può indurre in un giudizio spregiudicato e superficiale della sua produzione artistica (celebre è il commento perentorio che Byron scrisse nel Don Juan del 1824 “imbeveva il suo pennello con il sangue di tutti i santi”) altro non è che l’espressione più alta di un intendimento caravaggesco che vedeva nella trattazione del naturale quell’immediatezza comunicativa d’intenti che trova nello spirito controriformista il suo più grande fautore. Ben sosteneva Jean-Claude Richard de Saint-Non nel suo Voyage pictoresque à Naples et en Sicile del 1781 quando così scrisse riguardo alla tecnica dello Spagnoletto (appellativo dato al Ribera che già Filippo Baldinucci riportava): “pennello maschio e vigoroso”.
Una pittura turgida dall’impasto pittorico ricco ed abbondante;
deciso nel rappresentare anche gli aspetti più nefasti del quotidiano vivere. Un volere, però, che non pare impietoso, ma che anzi denota una lettura includente e redentrice di una speranza fideistica. I volti grinzosi, i corpi raggrinziti sono i medesimi che si potevano cogliere nei tortuosi vicoli napoletani e la luce a tratti violenta che incide le membra dei raffigurati è la stessa che si divincola tra quelle strade che li ospitano. Basti pensare al poetico Sant’Andrea tuttora conservato presso la Quadreria dei Gerolamini a Napoli che si indora con il calore luminoso del Sole e che va già a preannunciare la poetica della meditazione dello Spagnoletto. Osservando, infatti, tutto il suo corpus pittorico possiamo notare come allo spettatore sia proprio richiesto uno sforzo meditativo necessario per l’interiorizzazione della vicenda inscenata. Ciò che può apparire come il più goliardico ed immediato soggetto prevede invece un’azione di analisi accurata. Se si prende, ad esempio, il Sileno Ebbro del 1626 (prima opera pittorica datata e firmata dal Ribera) custodito presso il Museo di Capodimonte si potrà notare come la scena rappresentata che si prospetta non vuole essere un semplice baccanale. Il tronfio Sileno dalle gote incolte è sì il catalizzatore ed il perno della composizione, ma il senso primigenio va ricercato nella valutazione completa della dinamica. Così come giustamente propone Prohaska, il dipinto è la rappresentazione di un fatto narrato nei Fasti di Ovidio: nel corso di un baccanale dove venne incoronato Bacco e al quale parteciparono satiri, ninfe, Pan e Sileno, Priapo tentò di far sua la ninfa Lotis, approfittando della sonnolenza altrui: solo l’asino di Sileno se ne accorse e ragliando annunciò il misfatto. Il tema è dunque l’inganno e allo spettatore è richiesto di denucleare la sequenza.
All’interno di questo specifico solco che implica la diretta compartecipazione dell’ammirante e la compenetrazione cognitiva tra lo stesso e l’opera oggetto d’ammirazione, si inserisce la tela di cui tratteremo. L’opera in questione è conservata presso la Pinacoteca del Castello Sforzesco in Milano (proveniente dalla raccolta Crivelli-Messmer) e viene appellata “Un santo eremita”, datata 1650 circa ed attribuita alla mano del maestro spagnolo (Figura 1). Innanzitutto è doveroso scandagliare il contesto biografico dell’artista negli anni in cui si propone la redazione della tela in questione. Come è noto, grazie ad una dicitura rinvenuta presso il registro dei morti della chiesa di Santa Maria della Neve a Posillipo, il Ribera ricevette “li SS. Sacramenti” e fu sepolto presso la chiesa di Santa Maria del Parto in data 3 settembre 1652. La datazione quindi della tela milanese si impone in netta prossimità della morte dello stesso pittore. È da sottolineare come lo Spagnoletto non godesse di ottima salute negli ultimi anni della sua vita; come attestano gli atti del processo iniziato il 28 luglio 1646 tra lo stesso valenzano e Cristoforo Papa (processo incentrato sul ritardo di consegna di una Natività commissionatagli nel 1641 e per la quale era già stato versato un anticipo di 150 ducati), il pittore soffrì di parziale infermità tra il 1641 e il 1646. Uno stato di salute cagionevole che gli impedì di onorare per tempo le numerose commissioni affidategli e che lo obbligò a ripiegare sulla collaborazione sempre più assidua della bottega. Ora, avendo inquadrato il momento all’interno del quale è indicato il quadro in questione, è possibile una valutazione puntuale dello stesso. Come giustamente evidenzia Spinosa, la tela in questione è stilisticamente affine al San Paolo Eremita di Ragusa della collezione Arezzo Scucces, dipinto datato e firmato (Jusepe de Ribera / español F 1652), che però ha destato dubbi in merito ad una così avanzata realizzazione. È comunque afferibile alla tarda maturità del maestro, come tale è il Santo Eremita della Pinacoteca Sforzesca. Quest’ultima, nello specifico, presenta una qualità pittorica non omogenea che giustifica le remore attributive anche dello stesso Spinosa. Personalmente ritengo che l’opera in questione sia un perfetto esempio di quella tarda produzione riberesca che vedeva nella partecipazione della bottega un leitmotiv per l’assolvimento delle tante e variegate commissioni.
Però, se da un lato alcuni dettagli lasciano presagire l’intervento di mani ancora inesperte (come evidenzia l’area dorsale del piede destro), dall’altro lato possiamo cogliere intere porzioni pittoriche dotate di un intenso e sprezzante lirismo riberesco. Soprattutto le parti anatomiche più prospicienti (Figura 2) lo spettatore sono infatti una testimonianza autografa della mano del maestro. Le mani congiunte in senso devozionale, così raggrinzite, ricordano i tanti soggetti raffigurati dallo Spagnoletto (la visione di Baldassarre della Galleria Arcivescovile di Milano e il San Giuseppe della Galleria Alberoni di Piacenza, solo per citare i più prossimi), così come l’impasto pittorico dell’area toracica, degli arti inferiori e del teschio sciorinano una qualità inconfondibile. Il lirismo che si innesca nella congiunzione tra l’osservazione del capo calvo ed ossuto del Santo e lo scrutamento del levigato ed asciutto teschio, è sintomatico di una magistrale impaginazione compositiva. La testa china dell’eremita intenta ad osservare devozionalmente lo scarno cranio affiancato ad un’appena accennata croce si rifanno a quella poetica teoria della meditazione di cui prima si diceva. Ma tralasciando gli aspetti più affini alla tecnica pittorica, è importante soffermarsi sulle questioni di carattere identificativo-iconografico. Abbiamo già detto come il soggetto venga generalmente indicato come “un santo eremita”, ma i numerosi caratteri e dettagli presenti nel dipinto non permettono una così superflua interpretazione.
Nella mappatura condotta da Spinosa edita nel 1978, alla tavola numero 422 possiamo ritrovare la tela in oggetto.
La scheda ben evidenzia una difficoltà attributiva alla mano del maestro a causa del difficile stato conservativo del dipinto (considerando questo giudizio antecedente ai lavori di restauro della fine degli anni ottanta) ma sul lato icnonografico non vengono esposte incertezze nell’identificazione del canuto soggetto con la figura di San Guglielmo Eremita. Prima di effettuare le giuste osservazioni e prima di arrivare all’attribuzione iconografica è doveroso citare altre fonti bibliografiche che conferiscono altri spunti di riflessione. Innanzitutto bisogna evidenziare come il dipinto in questione appartenesse alla collezione di Antonio Renato Borromeo (1632-1686) e che, come emerge dall’analisi esposta nel volume di Galli e Monferrini del 2012, questo venisse identificato come San Paolo Eremita. Viene anche sottolineato come lo stesso Antonio Renato avesse una predilezione per questo tipo di soggetti eremitici, dal forte taglio meditazionale. Le schede, invece, costituenti il catalogo della collezione della Pinacoteca Sforzesca espongono un dubbio identificativo (specialmente nel testo di De Marchi del 2001). In quest’ultimo si dice quanto segue: “l’opera presenta qualche dubbio sotto il profilo iconografico. Già schedata come Paolo eremita, Onofrio o Procopio”.
La successiva schedatura dell’opera presente nel volume di Basso e Natale del 2005 registra l’opera come un generico Santo eremita ed evidenzia, però, come il teschio e la corona presenti nella tela siano presenti anche in un’altra tela riberesca, ovvero il Sant’Onofrio dell’Escorial (Figura 3). Per poter definitivamente assegnare una corretta e coerente (visti gli attributi esplicitati nella raffigurazione pittorica) attribuzione iconografica è fondamentale l’analisi degli Acta Sanctorum editi per la prima volta nel 1643 dallo storico gesuita Jean Bolland (opera proseguita poi da altri padri gesuiti denominati “bollandisti”). Essendo state le prime edizioni oggetto di pesanti critiche, riletture filologiche e integrazioni, possiamo attingere alle pubblicazioni che prendono il nome di Bibliotheca Sanctorum, opera enciclopedica in 12 volumi ideata nel clima del Concilio Vaticano II in collaborazione con l’Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense. Attraverso lo studio di queste preziosissime raccolte agiografiche, è possibile giungere ad una certezza attributiva. Se infatti si analizza la voce dedicata a Onofrio eremita si possono cogliere diversi elementi che vengono esplicitati nell’iconografia plurisecolare del santo in questione. Le vicende di Onofrio sono principalmente legate alla redazione del volume Vita di Pafnuzio; un’opera strutturata sotto forma di racconto che narra dell’incontro dello stesso Pafnuzio con il santo eremita. È importante evidenziare come nella descrizione del loro primo incontro, l’autore espliciti chiaramente l’abbigliamento dell’anacoreta: nudo, coperto solo da qualche foglia e dai suoi stessi peli. Il culto dell’anacoreta fu poi soggetto a diverse interpretazioni, ma sicuramente la più influente e preminente fu quella esposta da un testo latino molto influente nella storia dell’arte occidentale (come ad esempio nel chiostro della chiesa di Sant’Onofrio a Roma), riportato negli Acta Sanctorum e riassunta nella Bibliotheca Sanctorum. Secondo questo testo
“Onofrio era figlio di un re di Persia il quale, avvertito dal demonio in vesti di pellegrino che il figlio che la regina stava per mettere al mondo era frutto di adulterio, sottopose il nuovo nato alla prova del fuoco: il bimbo ne uscì indenne, prova manifesta della sua legittimità. Il re allora è avvertito da un angelo di farlo battezzare e di dargli il nome di Onofrio. Il neonato è portato quindi in Egitto in un monastero…”.
Si chiarisce dunque l’iconografia del santo anacoreta,
nudo o vestito di un perizoma di foglie, accompagnato da una corona regale. Infatti, così come Girolamo viene raffigurato col galero gettato a terra in segno di rinuncia a certi onori, così Onofrio poggia simbolicamente una corona a terra come testimonianza di un’origine regale rinnegata. Nell’Enciclopedia dei Santi possiamo notare che come esempio iconografico del Santo Onofrio viene proposta la tela dell’Escorial (già citata da Basso e Natale). Non è però un caso questo tipo di raffigurazione all’interno della rappresentazione riberesca, basta citare il caso della tela di medesimo soggetto conservata al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo (Figura 4). Anche in questo caso la corona regale viene posizionata in primo piano quasi a fare da contraltare al corpo scarno del santo. Pur essendo già sufficienti questi aspetti per identificare l’eremita sforzesco con Sant’Onofrio è corretto analizzare anche le altre due figure proposte: il San Paolo Eremita e il San Guglielmo Eremita. Per quanto riguarda il primo, la Bibliotheca riferisce le principali fonti biografiche al testo redatto da San Girolamo, Vita Pauli. Nonostante le tante incertezze in merito all’attendibilità del racconto geronimiano, è possibile affermare che Paolo nacque nel 228, nella bassa tebaide, da una famiglia molto ricca. All’età di sedici anni perse i genitori e si trovò a gestire imponenti ricchezze. Con la persecuzione dei Cristiani ad opera di Decio nel 249, Paolo decise di ritirarsi in campagna per sfuggire ai persecutori. Il pericolo però non venne meno e optò per il rifugio presso il deserto. Ma Dio gli tramutò l’animo da fuggitivo e questa grande conversione lo portò ad una vita eremitica. A suggellare questa nuova missione di vita, gli venne concesso il miracolo di ricevere quotidianamente il pane di cui cibarsi da un corvo, così come accadde al profeta Elia. La Bibliotheca esprime come attributi iconografici: il perizoma di foglie di palma (simbolo della pianta presente presso la propria caverna, dalla quale poteva nutrirsi), il corvo (con nel becco il pane quotidiano), i leoni (che per lui scavarono la fossa nella sabbia del deserto al cospetto di Sant’Antonio abate).
Di questi tre, soprattutto i primi due sono una costante nelle rappresentazioni paoline; si pensi solamente alla tela San Paolo Eremita del Ribera al Prado (Figura 5), quella conservata a Ragusa e a quella di Palazzo Abatellis a Palermo (Figura 6), oppure all’omonima tela di Velazquez sempre nel medesimo museo madrileno (Figura 7). Per quanto riguarda l’identificazione del soggetto Sforzesco con il San Guglielmo Eremita le possibilità sono ancor meno che con il Santo Paolo di Tebe. Innanzitutto va sottolineato come questo “santo” non fu mai ufficialmente canonizzato; fu Alessandro III, su istanza del vescovo di Grosseto, che ordinò che nella detta diocesi ne fosse celebrata la solenne ufficiatura.
Successivamente Innocenzo III, l’8 maggio del 1202 rinnovò il permesso di continuare a celebrare la festa,
permesso mai revocato e cha ha portato all’inserimento nel Martirologio Romano. Di origini nobili, reduce da una vita avventurosa e all’insegna della missione militare, venne comunicato da Eugenio III il quale gli consigliò il canonico pellegrinaggio in Terra Santa per facilitare il ritrovo della pace dello spirito. Di ritorno decise di dedicarsi ad una vita ascetica, prima presso Pisa e poi presso Castiglione della Pescaia (Grosseto) dove si stabilì da eremita in una valle angusta denominata “Malavalle” per il suo squallore. Qui la leggenda lo vuole guerriero e sconfiggente il Drago simbolo del Male e la sua vicenda sembra intrecciarsi con quella di San Giorgio. L’iconografia di questo santo si basa sui seguenti elementi: il saio eremitico di colore bruno sotto il quale era solito portare il cilicio in segno di mortificazione, il drago (con cui combatté e che sconfisse), la spada (con la quale lottò).
Dopo aver passato in rassegna dettagliata tutte le iconografie che generalmente venivano attribuite al Santo Eremita della collezione del Castello Sforzesco, è possibile affermare con certezza che il soggetto rappresentato altro non è che Sant’Onofrio. La lettura delle fonti agiografiche, l’analisi degli elementi presenti nella tela (il perizoma di foglie, la corona regale (Figura 8), il teschio e l’evidente nudità del corpo) chiariscono magistralmente l’identità del santo raffigurato, che ben si inseriva all’interno della collezione borromaica del Renato, il quale conservava oltre a quest’opera almeno altri quattro dipinti di santi eremiti.
Fabio OBERTELLI Parma aprile 2019
Bibliografia:
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VV. – Istituto Giovanni XXIII Bibliotheca Sanctorum, Roma, 1967
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Basso L., Natale M. (a cura di), La Pinacoteca del Castello Sforzesco a Milano, Milano, 2005
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E. Borea ( a cura di), Caravaggio e i caravaggeschi nelle Gallerie di Firenze, catalogo della mostra, Firenze, 1970
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De Marchi A. G., in Museo d’arte Antica del Castello Sforzesco. Pinacoteca: scuole straniere, Milano, 2001
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Galli A. E., Monferrini S. I Borromeo d’Angera: collezionisti e mecenati nella Milano del Seicento, Milano, 2012
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“Ribera” collana edizione speciale “i classici dell’arte” Rizzoli, Skira, Milano 2012
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Spinosa N., L’opera completa di Jusepe de Ribera, Milano, 1978
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Papi, G., Ribera a Roma, Ediziobni del Concino, 2007, Cremona (con bilbiografia precedente)