di Simone LUCCICHENTI
Dopo più di vent’anni di decadimento del movimento post moderno il filtro che compone l’ottica della nostra critica verso l’architettura classica e come essa abbia influenzato il moderno si sta lentamente schiarendo lasciando sempre più spazio a nuove influenze dell’antico nel contemporaneo.
Nel ‘600 dopo la rivoluzione del Rinascimento il testimone del classico venne accolto con un rinnovato spirito di spontaneità legato più al recupero di elasticità compositiva, che all’impostazione di regole aspetto che fu largamente approfindito per tutto il ‘500.
La materia che i maggiori progettisti del barocco da Bernini al Rainaldi hanno trattato parla di una rivoluzione di libertà che però non ha mai perso di vista le proprie radici, questi maestri si sono al contrario posti a difesa della bandiera issata in alto da Alberti e Michelangelo convincendoci che tra Rinascimento Manierismo e Barocco non esistono confini ma solo continuità.
Ci troviamo ora in un ricorso storico che potremmo definire di “maniera” in cui la lingua novecentesca del movimento moderno con tutte le sue successive diramazioni sta esaurendo la sua capacità di suggestionare facendo spazio ad un certo numero di nuove contaminazioni, gli ostacoli per innovare però sono ancora molti e spesso di carattere professionale.
Fare l’architetto oggi sul piano tecnico è sempre più impegnativo, il finissimo Brunnelleschi progettò Santa Maria del Fiore con una bottega di circa 6 o 7 collaboratori stretti, al contrario lo studio internazionale in cui lavoro tra New York e Londra non andrebbe lontano senza gli attuali 500 dipendenti; questo rende inevitabilmente il lavoro di ricerca e di approfondimento sempre più marginale nella pratica quotidiana, lasciando spazio a pericolose ignoranze e deviazioni.
La continua rincorsa al cliente e alle scadenze sempre più stringenti ha creato una condizione nella quale la domanda centrale è spesso “come fare” più del “ se fare” processo che porta a perversi risultati che sono sotto gli occhi di tutti specialmente in Asia in cui si è distrutto piu’ che costruito, si è fatto real estate più che architettura.
In molte realtà professionali come la mia dopo anni di silenzio si formano però sempre più team indipendenti dall’indirizzo di design pre costituito che troppo spesso tende all’appiattimento e ad una ideologia corporativa malsana che si autoalimenta guardando con sospetto e timore le realtà professionali più esplorative.
Recentemente mi è capitato infatti di lavorare a tipologie progettuali che solo qualche anno fa sarebbero state scartate dallo studio in quanto non allineate. Gli architetti più liberi che sono sopravvissuti alla scala delle promozioni e hanno raggiunto ruoli chiave nelle gerarchie stanno operando piccole rivoluzioni dall’interno aprendoci a nuovi orizzonti creativi e di business.
In questo processo va chiarito che concetto di libertà non si associa con quello di legegrezza, ma al contrario disegna un campo da gioco condiviso in cui precise regole comuni danno vita ad infinite possibilita’ di espressione ed impegno.
In questo contesto esplorativo il ruolo della conoscenza storica si delinea sempre più come un asset indispensabile dell’architetto del futuro che guarda con intelligenza il passato non piu’ come una soffitta piena di vecchi ricordi impolverati ma come un prezioso archivio in cui trovare soluzioni spesso gia’ risolte ed utilizzabili.
Un uso sempre maggiore di riferimenti storici viene fatto a sostegno di progetti contemporanei, posso citare l’esempio in cui nello sviluppo di un masterplan per un facoltoso cliente in Cina si è considerato tra i precedenti di reiferimento tanto la griglia urbanistica della Città proibita di Pechino quanto gli snodi e le cerniere organiche della Villa di Adriano a Tivoli.
Si innescano cosi contaminazioni inattese che portano spesso a risultati sorprendenti.
E’ da giovane architetto e non da critico, che ho ritenuto utile sottolineare che nella sua dimensione quotidiana questa professione sta subendo alcuni cambiamenti in positivo, il maggiore uso storiografico è solo uno degli elementi, emerge anche una chiara e salubre tendenza a tornare al solido alla roccia, alla terracotta, lasciando le immagini scintillanti di uno stanco star system alle spalle che troppo a lungo ha citato se stesso violando contesti e paesaggi intatti e realizzando tombe dell’estetica dalle quali non si resuscita in nessun modo.
Molte attività di architettura anche se ancora in modo disorganico stanno quindi remando in una direzione alternativa che fa ben speare, quella di percorsi ed interrogativi nuovi dove intelligneza teorica e pratica si combinano con le radici ed il territorio esaltando cultura e logica della tecnica più della tecnologia.
di Simone LUCCICHENTI luglio 2017