di Massimo PULINI
Premessa
Non è la prima volta che due ricercatori storici si trovano a studiare in contemporanea un medesimo dipinto e per sentieri differenti finiscono per attribuirgli un identico nome. Misterioso e affascinante è l’atto di riconoscere lo stile[i], tanto più quando un quadro esula dagli schemi conosciuti aprendo nuove piste alle indagini. Se lo sguardo di più conoscitori converge per dinamiche indipendenti è un fatto da salutare come una maturità degli studi e va a comporre una prima conferma alle ricerche. Di recente lo storico dell’arte Francesco Gatta ha pubblicato un bellissimo dipinto inedito di Guido Reni che da alcuni mesi era transitato sul mercato antiquario milanese senza essere stato compreso[ii]. Qualche tempo prima della giornata d’asta, mi ero accorto anche io che quella teletta, assegnata alla ‘Scuola di Francesco Albani’, era una eccelsa prova giovanile di Guido e la segnalai a un amico antiquario che infine riuscì ad aggiudicarsela[iii](Foto 1 – 4).
Altre volte mi è capitato di venir bruciato sul filo di lana di una indagine e in quelle occasioni feci un passo indietro, rinunciando a pubblicare il saggio che già stavo scrivendo, mentre in questa ho deciso di procedere e di rendere note le riflessioni che mi avevano spinto a una conclusione storica che non si esaurisce nell’evocazione del nome di un artista, ma si articola su varie altre implicazioni. L’importanza del dipinto in oggetto d’altro canto lo merita e anzi, sono certo, si sommeranno futuri interventi, magari lo studio approfondito di iconologi e di specialisti del paesaggio d’Arcadia, perché davvero ritengo ci si trovi di fronte a una scoperta che offre nuove chiavi interpretative per quel trafficato snodo pittorico che si creò nella Roma di inizio Seicento. Spostare poi, anche solo di qualche anno in avanti o indietro, un dipinto di questo tipo significa modificare gli assetti inventivi di un vasto gruppo di pittori che operavano nella medesima koinè artistica. Sicché la mia scelta è stata di lasciare tutta la prima parte di questo saggio per come l’avevo scritta quando non sapevo che anche altri ci stessero lavorando.
Guido Reni e i giochi d’Amore
Quattordici amori bambini affollano l’aperto scenario, uno scorcio di natura umido, ricco di arbusti e alberi, saturo di verdi muschiati in primo piano per giungere cristallino all’orizzonte, dove si assottigliano i dislivelli del terreno in un’azzurra e profondissima prospettiva. Alcuni degli spiritelli divini stanno sopra a una nobile zattera costruita a forma di ricciolo d’oro e uno dei quattro giovani naviganti, si è alzato in piedi, per lanciare la sua freccia in cielo, all’indirizzo di una coppia di uccelli bianchi che già vola lontano. Dallo spalto di un costone e grazie a una lunga fune, altri due putti alati trascinano il cocchio sul pelo di un’acqua che pare incantata e ferma, come fosse uno specchio del cielo.
Intanto, dallo stesso sollevato terrapieno e con ostentata noncuranza, un biondino sta urinando bellamente sulla testa di un compagno. Più sopra, tra le nuvole, due angioletti non battezzati si rincorrono brandendo frecce e fiaccole infuocate, mentre altri più tranquilli osservano le baruffe e si divertono a commentare tra loro. L’unico amore adulto, di cui questa squadra olimpica di piccoli bulli non pare troppo accorgersi, è quello che si sta compiendo a sinistra dell’inquadratura, tra le frasche degli alberi, dove un satiro è intento ad ammaliare una ninfa, suonandole una musica soffiata da un flauto a siringa.
L’incantevole dipinto parla di un attimo infinito che dispiega diversi eventi simultanei, nessuno dei quali vanta un dominio sugli altri, anche se tutti gli episodi formano un insieme simbolico. Ogni accadimento è iscritto in un presente antico, fissato nell’eterno, nel tempo immutabile del mito e nell’ambra trasparente della pittura.
Incornicia questa allegoria paratattica un armonico contesto naturale, aperto alla visione attraverso una postazione rialzata dell’osservatore, dalla quale si succedono quinte di verzura e piante di varia specie, promontori rocciosi e anse di fiume, declinati sia in scala di profondità che di elevazione.
Lo stile pittorico è a dir poco impeccabile, si adatta alle materie e alle forme senza dimostrare fatica e senza imporre alcun peso, nella limpidezza dei toni cromatici e nell’eloquio narrativo, facendo convergere questa bucolica messa in scena in un mirabile accordo sinfonico.
L’amore gioca scherzi mancini e si fa beffa dell’amore, questo sembra suggerirci la visione. I piccoli Eros dunque non si accorgono dell’amore adulto, quando sono impegnati a divertirsi con altri giovani amori, a inventare dispetti e ad approntare inseguimenti.
È allora il tema complessivo dei Giochi d’Amore ad emergere da questa gemma pittorica e la sua identificazione stilistica ci restituisce ulteriori preziosità, scoprendosi primizia di un genio e, in buona misura, anche di un genere.
Il genere è quello dei giardini d’Arcadia, scenari di festini e accoppiamenti divini, di favolose metamorfosi osservate a campo lungo, attraverso un sipario allargato che ci allontana da quel passato per noi irraggiungibile almeno quanto risulti immutabile.
Alla prima uscita pubblica del dipinto qualcuno ha pensato alla cosa più ovvia, a Francesco Albani o alla sua scuola e di certo sappiamo che il pittore bolognese figura quale depositario del marchio di fabbrica per questo genere paradisiaco, avendo insistito con infinite varianti su racconti che cucirono un abito sartoriale alla natura e trasformarono le presenze mitologiche in aggraziate bomboniere, ma il caso di cui si parla appartiene ad altri livelli di pensiero e di stile.
La raffinatissima mano è, io credo, quella di Guido Reni, una mano attenta e fluida, capace di scendere in dettagli botanici e di mantenere un registro cromatico algido, terso; di muovere tutte le virtuosità dell’orchestra pittorica senza perdere nemmeno per un attimo l’armonia dell’insieme.
La luce tradotta in smalto, che nel dipinto si avvale di stratificazioni seriche fino a sorvolare terre di ghiaccio, ha un’anima di lapislazzulo polverizzato e i corpi affusolati dei biondi amorini mostrano fattezze che si ritrovano solo in alcuni tra i primissimi dipinti conosciuti di Reni, come è negli angioletti della pala di Sant’Eustachio[iv] (Foto 5), nell’Assunzione di Maria[v] (Foto 6), eseguite entrambe nel 1596 o nell’altro ramino con la Sacra Famiglia servita da un angelo della collezione Coombs[vi] (Foto 7), nel quale si scorge anche un paesaggio di analoga perfezione.
Quelle fisionomie di bambino nordico, che fanno pensare a viziati principini ariani, inizieranno un loro processo di mutazione nelle due Incoronazioni della Vergine, quella del Prado (Foto 8) che è del 1602 e nell’altra della National Gallery di Londra (Foto 9), eseguita intorno al 1607[vii], fino a giungere a più tornite misure di classicità che poi resteranno stabili per tutto il resto della parabola di Guido.
Le figure reniane di bimbo rimangono ancora asciutte e filiformi solo in qualche rame dei primi del secolo, come la Sacra Famiglia e San Francesco transitata da Sotheby a Londra il 10 dicembre 2015 (Foto 10), a cui accosto un disegno conservato al Louvre (Foto 11)[viii].
Così pure la temperatura luminosa, che ritroviamo nelle due versioni della Madonna della Neve con le sante Lucia e Maddalena[ix] (Foto 12). Tra il 1605 e il 1607 si colloca il meraviglioso David che taglia la testa a Golia, della Fondazione Rau di Marsiglia (Foto 13), nel quale si apprezza un’analoga profondità di orizzonte e il medesimo nitore azzurro del cielo.
L’atto di comprensione attributiva, spesso frutto di un fulmineo passaggio dai recessi dell’archiviazione mentale, talvolta trascina con sé un corollario di considerazioni di più lento rilascio, non meno esaltante dell’adrenalinica risoluzione di un enigma.
Giungere a comprendere la paternità di Reni non ferma allora il processo cognitivo, semmai ne innesca ulteriori diramazioni, innanzi tutto di ordine cronologico, come ho appena detto, ma giunge a investire tutto il sistema di rapporti con altri artisti e con diversi luoghi che possono aver favorito alla gestazione dell’opera.
Non poteva che essere giovane Guido quando portò a finitezza questa piccola e superba tela ed è curioso che l’indicazione anagrafica ci venga offerta proprio dalle fisionomie infantili e dal gesticolare degli angioletti pagani, mentre un paesaggio di tale intonsa natura, fosse stato privo delle figure, ci avrebbe forse tratto in inganno almeno sulla data, perché il sommo pittore lo avrebbe potuto eseguire anche da anziano. Va detto anzi, che senza quei putti impertinenti sarebbe stata assai più difficile la sola intuizione attributiva. Ma una volta giunti a questo punto, a condurci è lo stesso tragitto evolutivo dell’artista, almeno nella parte fino ad ora ricostruita e forse torna utile riassumerne le prime tappe.
Dopo essere uscito, nel 1594, dai vincoli manieristi della bottega di Denis Calvaert, Guido Reni ventenne si apre a un respiro nuovo entrando nella libera scuola degli Incamminati e per qualche anno, almeno sino all’indipendenza definitiva del 1598, il suo punto di riferimento sarà la pittura di Annibale. Per un talento in crescita e della portata di Guido, frequentare i tre geniali Carracci, in anni rivoluzionari per l’arte bolognese, vale a dire italiana, europea, significava ricevere stimoli che avrebbero potuto fiorire in ogni direzione. Filtrata la retorica muscolosa di Agostino e la componente troppo ruvida di Ludovico, ad ammaliare il giovane non poteva che essere l’anima prensile e poliedrica di Annibale, già disposta alla metamorfosi classicista.
Sappiamo quanto il più talentuoso dei Carracci stesse riflettendo nello stesso periodo sulla rifondazione del paesaggio moderno fino a raggiungere, al debutto del nuovo secolo, l’apice delle Lunette Aldobrandini, che subito si attestarono a modello imprescindibile per ogni successivo cimento sul tema naturale.
Da quelle visioni di Annibale si ricava un’idea armonica e misurata, accompagnata dal languore e da una sottile malinconia, che restituisce dimensione morale e filosofica allo stesso paesaggio, che dunque non risulta mai disgiunto dai sentimenti; la temperatura del Gioco d’Amorini è invece fresca e tagliente come una sorgente di montagna, stagliata nel chiarore, priva del pur minimo pulviscolo atmosferico e proprio in virtù di questo appare invalicabile, separata da ogni possibile immedesimazione emotiva.
Vedute di natura il Carracci ne doveva aver realizzate già a Bologna e forse anche Guido compì questo piccolo miracolo pittorico quando si trovava ancora nella città felsinea, magari a ridosso del viaggio romano, che i documenti vorrebbero intrapreso nel 1601, guarda caso assieme a Francesco Albani.
Quanto allo stesso Albani va chiarito subito che dovette essere un fratello minore di Reni sin dai tempi del comune alunnato presso il Calvaert e, da quel medesimo maestro fiammingo, Guido era stato incaricato d’impartire a Francesco i primi rudimenti pittorici. Questo non solo rese sodali i due, ma i pochi anni di differenza, il più visibile divario di maturità e quel primo accompagnamento in bottega fecero divenire Reni un punto di riferimento assoluto per gli sviluppi stilistici di Albani.
Il riemergere di questa tela rafforza tale assunto, ma cambia di colpo lo svolgimento dei fatti fino ad ora immaginati dai manuali di storia dell’arte paesaggistica, perché Francesco Albani iniziò solo molti anni dopo a eseguire opere analoghe, per impostazione compositiva e tematica.
Sul finire del Cinquecento o nei primi mesi del nuovo secolo Guido Reni riuscì a compiere i Giochi d’Amore e con esso qualche altro dipinto che gli sarebbe servito a misurare i possibili obiettivi verso cui indirizzare le tante frecce artistiche che aveva in faretra.
Alcune di queste, pur avendo centrato difficili bersagli, le abbandonò per strada e non tornò più a cercarle, sicché, passati dodici o quindici anni, Francesco Albani ebbe forse il tacito consenso che gli permise di far fiorire quel terreno non più coltivato dall’amico.
Solo di recente è stato ritrovato un altro gioiello, giustamente riferito a quella fase transitoria di Guido Reni, a quel suo fondamentale frangente di ricerca.
Sono state filologicamente ricostruite, da Patrick Matthiesen, le vicende relative alla genesi del bellissimo e affollato Ballo campestre (Londra, Matthiesen Gallery)[x] (Foto 14 – 17).
Un piccolo dipinto che mette in campo le medesime relazioni tra ambientazione agreste e figure, la stessa visione limpida e satura di una natura che accoglie un racconto bucolico, questa volta addirittura villico, dunque ancora più inaspettato in un artista aulico come il Reni.
Incanta e sorprende in ogni dettaglio il registro tenero attraverso il quale venne concepito questo incunabolo popolaresco. Un sapore di cronaca intima e collettiva insieme si ricava dalle relazioni tra le figure e perfino da un certo impaccio di movimenti che traspare in alcuni personaggi, quasi fosse una timidezza contadina, di chi si sente inadeguato alle dinamiche cortesi del ballo.
Un cerchio di persone vestite a festa, con le donne sedute sulle panche mentre gli uomini, perlopiù armati di fucile e quasi pronti a una battuta di caccia, sembrano vigilare sulla serenità del momento. L’attimo sul quale il dipinto si sofferma è singolare e induce anche a qualche domanda. La dama più nobile delle altre è in piedi, al centro dello spiazzo, e pare aver concesso un ballo a un giovane di più modesti costumi che con la destra le ha preso la mano, mentre nell’altra tiene ancora il suo cappello stropicciato, sicché la scena resta sospesa a metà strada tra la supplica e la danza.
La musica, che nell’immagine muta si palesa grazie al violinista posto a metà del quadro, spinge decisamente a questa seconda soluzione, anche se resta l’anomalia delle differenti classi sociali unite in un ballo precocemente democratico.
Un altro musico impugna il liuto, ma è in pausa e si appresta a raccogliere dalla riva del fiume un fiasco di vino tenuto in fresco. Qualcuno dorme appoggiato a un sedile di legno e una giovane dama ostenta la propria indifferenza con la testa appoggiata al braccio e con lo sguardo distolto, mentre quasi tutti gli altri osservano curiosi. Come spesso succede in questi frangenti, le nonne badano i bambini e altre figurine sono distribuite nella profondità di un paesaggio che ha la stessa luce e un fraseggio naturale analogo al dipinto degli amorini che ho appena presentato.
Forse allora quel che vediamo nel Ballo campestre si spiega in altro modo: i tanti uomini in armi potrebbero costituire la scorta di un drappello di dame, quelle che sfoggiano indicativi colli a ventaglio (vale a dire la nobile in piedi al centro e le due giovani sedute a sinistra). Un terzetto femminile in viaggio da un castello a un altro, e questo corteo di palazzo, imbattutosi in una festa di villaggio si è fermato per volere della signora, decisa a non perdersi la spensierata occasione.
In fondo anche per il nobile destino di Guido Reni questo dipinto rappresenta un’occasionale sosta di viaggio, un diversivo momentaneo nel programmato e inarrestabile tragitto aristocratico verso la più aulica classicità che lo fece divenire campione della propaganda fide.
Anche Guido dunque si è concesso un ballo popolare, forse incuriosito da esempi di analogo soggetto, seppur di ben differente stile, offerti da Giovanni Andrea Donducci detto il Mastelletta.
Nel lucido e determinato teorema poetico di Reni, indirizzato a una sublimazione dei sentimenti, questo ritrovamento equivale a quella che per Guercino fu la scoperta della Fiera sul Reno vecchio (recuperata anonima da chi scrive nei depositi dei Musei Vaticani nel 1999 e ora esposta nelle sale museali)[xi].
Ma mentre il Barbieri, quantomeno nel riservato e intimo terreno del disegno, continuò a frequentare la cronaca di paese, sconfinando sovente nella bonaria caricatura del volgo, per Guido Reni questo Ballo campestre resta, al momento, una pura eccezione.
Un precedente, che dovette servire da paragone all’idea di rappresentare una festa nella radura di un giardino boscoso, fu di certo un’altra tela che oggi è conservata a Marsiglia, più volte dibattuta circa l’autografia, tra la mano di Agostino e quella di Annibale Carracci. Certo prevalgono in quell’opera caratteri cortigiani e asprezze cinquecentesche. Il nano in primo piano, il bambino che sorride e altre figurine, che sembrano estratte dal repertorio manierista che sta ai limiti del grottesco, fanno propendere per Agostino, ma certi brani di natura sembrano usciti dal pennello del fratello più giovane. In questa occasione poco conta dirimere la disputa e forse anche agli occhi di Guido valeva di più la risposta che i Carracci erano soliti dare, negli anni che precedono il valico del secolo: “l’abbiamo fatta tutti noi”[xii].
Quel primo pronome plurale, per lungo tempo condiviso anche dal cugino Ludovico, dovette impressionare più di ogni esempio pratico, anche per un giovane destinato a un percorso solitario, che tuttavia diverrà guida di una vera e propria industria pittorica.
Le due nuove tele di Guido segnano tuttavia un ampio distacco di gusto e di pensiero anche rispetto agli illuminanti esempi carracceschi. Lo scarto generazionale, che sembra lasciarsi indietro con un balzo anche i retaggi grotteschi e pauperistici, è ancora più evidente nei Giochi d’Amore.
Tornando a trattare in particolare dell’ultima scoperta ricordo che anche Francesco Gatta è giunto ad attribuire l’opera alla mano di Guido Reni, attraverso un percorso indipendente e diverso rispetto a quello seguito da chi scrive[xiii].
Una via documentaria ha portato lo studioso a collegare il nuovo dipinto con un passaggio presente nell’inventario del palazzo romano di Odoardo Farnese, datato 1644, nel quale viene citato “Un quadro in tela con cornice grossa dorata, dentro dipinto un Paese con gioco di Amorini, mano di Guido Reni, et dentro d’esso quadro è racchiuso un ritratto d’una dama”[xiv].
Quest’ultimo passo dedicato al Ritratto di dama non deve trarre in inganno perché si riferisce a un’altra piccola pittura che veniva celata dalla tela con i Giochi d’Amore.
Da un accurato confronto di queste carte con altri elenchi della medesima collezione, si identifica infatti in Scipione Pulzone l’autore a cui è riferito il Ritratto di dama che, grazie a un sistema di cerniere, veniva ricoperto a sportello dalla teletta di Reni.
Al momento non si è riusciti a dare un volto a questa seconda opera che Odoardo aveva posto in relazione simbolica coi Giochi d’Amore, il piccolo rame di otto centimetri di diametro, firmato Scipio Gaetanus F. conservato presso la Galleria Nazionale di Parma e proveniente dalle raccolte Farnese, non sembra adattarsi alla macchina allegorica che l’unione tra le due opere doveva allestire.
La raccolta romana di Odoardo Farnese è stata indagata soprattutto in relazione alla quantità e alla qualità delle pitture di paesaggio che il nobile cardinale emiliano aveva messo insieme agli inizi del Seicento. Gli allievi di Annibale, in particolare Domenichino e la sua florida bottega, formano il nucleo centrale e ciò che è stato finora identificato restituisce un preciso e precoce gusto per il genere di natura e per racconti agresti anche quando si presentavano privi di un contenuto morale, di un rimando biblico o mitologico.
Spetta a Guido, al medesimo scorcio di secolo e alla sua prima presa di posizione romana anche un dipinto incompiuto che nei Musei Capitolini è classificato come opera di Anonimo pittore emiliano[xv](Foto 18).
Già in un’altra occasione ebbi modo di riferirlo alla fase giovanile di Reni, vicino a quei dipinti eseguiti per Osimo e per conto del cardinale Antonio Maria Gallo[xvi] ma torna di qualche interesse ritrovarlo qui, accanto ai Giochi d’Amore, perché anche il tema trattato in quel bellissimo abbozzo è un’Allegoria d’Amore e apparteneva all’altrettanto importante collezione Sacchetti, che fu all’origine della raccolta capitolina.
Si potrebbe addirittura specificare come Allegoria dell’Amore rifiutato, dato che il giovane uomo vestito all’antica sta spezzando col ginocchio la freccia che l’Amorino in volo gli ha scagliato. Al centro della scena si vede seduta una ragazza, in posa malinconica, quasi fosse suo il sentimento così platealmente rigettato. Più misteriosa e quasi frutto di un poema bucolico è la figura del vecchio pastore che, posto di profilo, osserva dappresso questo teatrino simbolico. Volendo cercare, nei poemi latini, l’episodio più famoso legato al tema dell’abbandono amoroso dovremmo risalire al IV libro dell’Eneide di Virgilio e al passo in cui Enea lascia la sconsolata Didone, chiamato dal fato e da Giove al suo destino di fondatore di Roma.
Se fosse questo il tema dell’incompiuto reniano il vecchio pastore potrebbe dimostrarsi lo stesso poeta Virgilio, ma non può essere escluso che la scena si riferisca al passaggio di Enea nel regno dei morti, dove questi incontra Didone riunita al suo primo marito Sicheo. Qualunque sia la chiave letteraria che scioglie la cifra del soggetto resta indubbio l’ambito erotico e poetico nel quale si manifesta, così come la prestigiosa e precoce committenza romana ci informa, assieme al ritrovamento dei Giochi d’Amore, di una disponibilità del giovane Guido a trattare tematiche classiche sin dal suo primo soggiorno nell’Urbe.
Si colgono parentele, di stile e di datazione, con una pala realizzata a Roma su richiesta del cardinale marchigiano Gallo e conservata tuttora a Osimo, nella quale la figura di un San Vittore torna del tutto simile al giovane del dipinto capitolino (Foto 19).
La medesima veste da antico condottiero la ritroviamo nella Visione di Sant’Eustachio (Foto 20) della raccolta genovese Durazzo Pallavicini, che in origine si trovava nella chiesa sotterranea di San Michele in Bosco, a Bologna.
Proprio al centro di quest’ultimo quadro si apre un profondissimo paesaggio che, dai monti sui quali si svolge la caccia che diede luogo al miracolo, scende fino all’orizzonte, seguendo una valle non lontana da quella in cui giocano i nostri nuovi amorini.
La datazione precocissima del dipinto genovese, documentato secondo Pepper al 1596, è confortata anche dalle fattezze degli angioletti che, come si diceva, fino ai primissimi anni del Seicento restano affusolate ed esili.
Solo qualche tempo dopo, ma ancora nel primo periodo romano, le figure di Guido iniziano a cercare una rotondità che credo venga dalla più vasta conoscenza della statuaria antica. La pala d’altare con il Martirio di Santa Cecilia conservata presso il Museo della Certosa di Pavia[xvii] (Foto 21 – 22),
quasi dimenticata dagli studi, va invece considerata un punto di svolta nel percorso di Reni e tenuta in stretta relazione coi lavori eseguiti per il cardinal Sfondrato (Foto 23)[xviii] e con la pala di Albenga (Foto 24)[xix]. Ma alle ben più note opere ‘ceciliane’ di Guido, quella di Pavia sembra aggiunge una dedica ad Agostino Carracci, la cui improvvisa e prematura morte lo spinse a tornare momentaneamente a Bologna, nel 1602, per assistere al suo funerale.
A quel preciso e singolare momento di Guido Reni credo appartenga una bellissima Susanna e i vecchioni di collezione privata (Foto 25 – 26), che non a caso figura come opera di Agostino nella fototeca di Federico Zeri[xx].
La nobile impostazione della scena, quasi concepita come un bassorilievo, evoca molto più la classicità greca che non l’antico testamento ebraico, ma raffinatissime sono le connessioni neo raffaellesche che lo stesso Agostino promuoveva. Anche su questa precoce opera di Guido meriterà riflettere, magari quando uscirà dall’ombra della collezione privata e se ne potranno apprezzare i colori e la stesura, ora solo immaginata dalla fotografia in bianco e nero.
Tutto questo articolato dispiegarsi del giovane genio bolognese, nel suo primo soggiorno romano, lascia ancora oscure molte parti, mentre altre già incasellate da Stephen Pepper all’inizio della sua monografia andrebbero, a mio avviso, riconsiderate. Penso alla copia della Santa Cecilia e santi che Guido Reni trasse dal Raffaello conservato a Bologna (Foto 27) e che lo studioso americano identifica col dipinto posizionato a San Luigi dei Francesi, nella cappella Polet[xxi], anche se sappiamo che il dipinto venne richiesto nel 1600 dal cardinal Sfrondato per la chiesa di Santa Cecilia in Trastevere. Secondo la ricostruzione di Pepper intorno al 1614 l’opera passò nella cappella Polet in San Luigi, ma solo dal 1674 le guide della chiesa riportano il nome di Reni come esecutore della copia.
La scarsa qualità del dipinto non trova minima comparazione con lo stile di Reni e ho sempre pensato che la versione reniana della pala di Raffaello vada identificata con un’opera che oggi si trova a Dublino, nella National Gallery of Ireland (Foto 28) e che porta una tradizionale attribuzione a Domenichino[xxii].
Buona parte delle opere di cui ho parlato, seppur in modi differenti e complementari, hanno relazione con tematiche amorose. Un argomento che si penserebbe lontano dalle inclinazioni e dagli interessi di Guido Reni, da quel Guido giovane che si crede di conoscere e che invece risulta ancora ineffabile.
Corteggiamenti e giochi, bisticci e danze, struggimenti e insidie, ma in fondo anche lo stoicismo dei martiri ha a che fare con quel sentimento che, per certe geniali personalità, resta il più recondito, segreto.
Postfazione
Colgo l’occasione di questo saggio sulla prima stagione di Guido per segnalare un’opera che invece credo appartenga alla sua piena maturità. Nel museo di New Orleans, sotto il nome del suo migliore allievo Simone Cantarini, si trova una Madonna col Bambino (Foto 29) dipinta in ovale, che ritengo vada riferita a Reni, nella sua fase più calda e intima, espressa tra il 1635 e il 1638.
Capita molto più spesso il contrario, che dipinti compiuti da Simone si trovino assegnati a Guido in molti musei internazionali. A guidare l’errore deve aver contribuito la gamma calda dei colori e l’intimità sentimentale che questa Vergine pensierosa trasmette, mentre lascia giocare il figlio con un cardellino legato a un filo.
Il volto della Vergine è lo stesso usato anni prima nella Madonna della sedia del Prado (Foto 30),
ma la pennellata vibrante e il pathos della tela americana sono più vicini al Gesù dormiente vegliato da due angeli, di collezione privata genovese (Foto 31).
Penso che queste opere siano state concepite in una fase in cui il maestro avvertiva il fascino inventivo ed energico esercitato nella sua bottega proprio dal suo allievo ribelle Simone Cantarini.
Massimo Pulini Bologna 2019