“Giocondolatria e Giocondoclastia”? Leonardo e “il quadro più famoso del mondo” dal ‘500 ad oggi

di Mario URSINO

A proposito di Leonardo.

Per la Gioconda si può delirar  

Sarà anche vero, come ha scritto recentemente Vittorio Sgarbi che “Diversamente da ogni altra opera, la Gioconda è vista prima in riproduzione, in una fotografia di un libro…”, poi semmai si andrà a vederla al Louvre. È innegabile: la vedemmo a scuola nei manuali di storia dell’arte.

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Personalmente questo ritratto mi è apparso sempre indifferente; poi al Louvre, quando lo vidi, avvertii di nuovo la mancanza di qualsiasi emozione, oltre al senso di fastidio per tutti quei giapponesi (e non solo) adoranti che, come affermò Berenson, entrano nel museo docili al comando delle guide, corrono davanti al capolavoro, si inchinano davanti ad esso ed escono felici senza aver capito nulla. Ancora oggi è così, anzi di più, con i loro selfies [fig. 1]. E va aggiunto che oltre a costoro, anche altri visitatori presenti ignoravano i bellissimi dipinti del Rinascimento veneziano (i Tiziano, i Tintoretto…) esposti lungo le pareti laterali, e soprattutto passavano indifferenti di fronte a quel grande capolavoro del Veronese, Le nozze di Cana (sottratto illecitamente da Napoleone per punire Venezia che si era schierata a favore dell’Austria), che copre tutta la parete opposta al “ritratto più famoso del mondo” di Leonardo (1452-1519) nella Salle des États [figg- 2-3].

Del Vinci quest’anno sono appena iniziate ufficiali (e retoriche) celebrazioni, alle Scuderie del Quirinale, Leonardo da Vinci. La scienza prima della scienza (dove non ci sono file di visitatori), e a Torino nella Galleria Sabauda, per il cinquecentesimo centenario della morte, con la mostra appena inaugurata, Leonardo da Vinci. Disegnare il futuro. Titolo un po’ enigmatico, in verità, per una esposizione che, già nel programma, appare ibridata dalla sezione scientifica con il Codice sul volo degli uccelli, e maggiormente dalla presenza di opere contemporanee, di Ontani, Salvo e Savinio, sul tema dell’autoritratto (cosa centrano questi artisti con Leonardo, e perché solo loro?). Non ho visto la mostra, e non ne comprendo il senso, e, del resto non ne sono particolarmente incuriosito. Non è la prima volta che avverso l’esagerata leonardolatria, e più ancora la giocondolatria (pari solo all’attuale caravaggiolatria, e alle inutili, ripetitive mostre sugli impressionisti che da anni si fanno in Italia).

A costo di apparire un eretico dell’arte leonardesca, riferisco un episodio di alcuni anni fa, quando il presidente di un Comitato Nazionale per la valorizzazione dei beni storici culturali e ambientali, ideato da un personaggio della politica (e scrittore), tale Silvano Vinceti, si fece promotore per una campagna di una raccolta di firme per il rientro, e la restituzione all’Italia della Gioconda! addirittura minacciando  “lo sciopero della Fame”! Un delirio vero e proprio!  (si veda al riguardo la mia lettera pubblicata  su “Il Giornale”, del 14 settembre 2012 sulla  sbalorditiva notizia). Per fortuna, l’ottimo Antonio Natali, allora direttore degli Uffizi, aveva già gettato, alcuni mesi prima (cfr. “Il Giornale”, 24 novembre 2011), acqua sul fuoco di paglia suscitato dalla insensata iniziativa del Vinceti, affermando perentoriamente:

Non la voglio, neppure per un’esposizione di pochi giorni. È un’opera simbolo dell’arte, che non va mossa dal Louvre…”.
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Appunto, è un simbolo. Sì ma del Louvre, il suo logo, l’etichetta che permette al museo francese di contare tra i sei e gli otto milioni di visitatori all’anno. Ma è davvero un capolavoro codesto ritratto? mi sono sempre chiesto. E allora quegli affascinanti ritratti femminili di Leonardo, la Ginevra Benci, 1474-78, Wahington, National Gallery of Art [fig. 4],  la Belle Ferronière  1490-95, Parigi, Louvre [fig. 5], che raffigurano donne bellissime, perché non sono altrettanto famosi come la meno attraente figura della Gioconda?  E poi è davvero la moglie di Francesco del Giocondo? Dispute annose e rimaste sempre irrisolte, anche se continua a prevalere la famosa descrizione che ne dà Giorgio Vasari (1511-1574) nelle Vite, del 1550, laddove si dice che il ritratto è di Lisa Gherardini (1479-1542), la moglie di Francesco del Giocondo (1465-1538). Vasari, come sappiamo, ha scritto sulla base di resoconti altrui, e di sue fantasiose aggiunte, specialmente laddove afferma: “…essendo Monna Lisa bellissima (mah:? n.d.a.), teneva mentre che la ritraeva, chi sonasse e cantasse, e di continuo buffoni che la facessimo diventar allegra… (a me, non pare che quegli ipotetici concertisti e buffoni  siano riusciti a far diventare allegra la donna in effige, poiché quel suo famoso sorriso non è altro che un “ghigno tanto piacevole”, secondo le parole dello stesso Vasari; ma può un ghigno essere piacevole? Insomma Leonardo si fa beffe di noi, come convincentemente ha scritto il linguista Mario Alinei nel suo Il sorriso della Gioconda, Bologna 2006, inquietante analisi freudiana dell’espressione facciale  della donna leonardesca che, secondo l’autore, non è altro che il sorriso di una morta. Del resto è noto che il genio di Vinci studiava l’anatomia e sezionava i cadaveri (cfr. Alinei, ibid. pp. 67-69). E difatti, il corpo umano è l’oggetto della terza mostra celebrativa nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia, Leonardo da Vinci. L’uomo modello del mondo, che presenta 25 fogli autografi di Leonardo con disegni di studi del corpo umano, dove è esposto il famosissimo Uomo vitruviano (altro logo leonardesco come la Gioconda,  riprodotto persino sulla telina per pulire gli occhiali fornitami dall’ottico, n.d.a.), insieme ad altri disegni di natura scientifica. E a Vinci sarà inaugurata la mostra Leonardo Vive, il 2 maggio p.v.

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Ma tornando al Vasari, come è noto, si ricorda che il famoso biografo degli artisti non era ancora nato quando Leonardo dipinse la Gioconda, e che il ritratto, seppure iniziato a Firenze nel 1503, rimase incompiuto, e mai lo consegnò all’ipotetico committente, Francesco del Giocondo; il Vinci lo portò con sé in Francia alla corte di Francesco I nel 1516, quando il Vasari aveva appena otto anni. Dunque il celebre autore delle Vite non ha mai visto la famosa opera, e l’identità dell’effigiata rimane tuttora un mistero. Difatti, stando agli studi più recenti del secondo millennio, alcuni anni fa (2009), sul Venerdì di Repubblica, lo studioso Roberto Zapperi sosteneva che il ritratto non è Monna Lisa, ma sarebbe l’adultera Pacifica Brandani, l’amante segreta di Giuliano de’ Medici, poi ribadito nel suo libro Monna Lisa addio del 2012, sulla scorta di analoga precedente ricerca nel 1957 del noto esperto di Leonardo, Carlo Petretti (1928-2018). Una notizia ancora diversa perviene invece da una studiosa tedesca, Magdalena Soest, che nel suo libro, Caterina Sforza ist Mona Lisa, del 2011, ha scritto una sorta di biografia dell’effigiata per dimostrare, anche con documenti (comunque da interpretare) e indizi iconografici, l’identità della donna ritratta; per esempio, si veda la bordatura del décolleté della  Gioconda con i ricami di anelli e gigli, segno dei casati dei Medici e degli Sforza,  come una delle prove che il ritratto sarebbe quello di Tiziana Caterina Sforza (1463-1509), figlia illegittima del duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza (1444-1476). Inoltre, sempre in base ad un raffronto iconografico, la studiosa sostiene che la Gioconda al Louvre è sovrapponibile al Ritratto di Caterina Sforza, detto anche La dama dei gelsomini, 1482-83 [fig. 6], di Lorenzo di Credi (si veda la copertina del libro della Soest, fig. 7);

lo stupendo ritratto della bellissima, intraprendente nobildonna, detta anche “La Tigressa dgli Sforza”, si trova a Forlì, nella Pinacoteca Civica (ma quanti lo conoscono?). L’ultra nota Gioconda al Louvre, quindi, sarebbe sempre lei, secondo la Soest, certo meno attraente come la giovanissima Caterina Sforza, perché invecchiata, dato che Leonardo l’avrebbe presumibilmente ritratta tra il 1503-1507, secondo la vulgata. Il ritratto di Caterina Sforza a Forlì, invece, come si è detto più sopra, fu eseguito, quando Caterina avrebbe avuto al massimo sedici anni, dal pittore fiorentino Lorenzo di Credi (1459-1537), che era stato condiscepolo di Leonardo nella bottega del Verrocchio (cfr. anche, Danilo Traino, Il rebus Monna Lisa: “È la Tigressa degli Sforza”, Corriere della Sera, 17 ottobre 2009; e Giorgio De Rienzo, La Gioconda? Lasciateci sognare. Non vogliamo sapere chi è, Corriere della Sera, 18 ottobre 2009). Un ultimo volume, L’enigma svelato (edito da Il Campano, 2018) firmato dallo studioso pisano Franco Paliaga, rinuncia invece al tentativo di definire a chi appartenesse quel volto, perchè il personaggio raffigurato sarebbe invece una donna immaginaria, accostabile alla figura classica di Sophia, simbolo di eccellenza della sapienza e della conoscenza. Una concezione filosofica in parte diffusa dal pensiero del beato Amadeo da Silva, del quale Leonardo risentì l’influenza anche per la realizzazione di due altre famose opere, la Vergine delle rocce e il San Giovanni Battista.

 

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Sinceramente io non desidero sognare la Gioconda, penso ci sia di meglio, e neanche ci appassiona tanto sapere chi è, a differenza di infaticabili giocondolatri. A complicare le cose, ci sono poi altre versioni (escludendo le innumerevoli copie antiche cinque-secentesche, di cui è impossibile dare conto) della Gioconda: la cosiddetta Mona Lisa di Islelworth, 1503-1506 [fig. 8], Ginevra, attribuita a Leonardo, ma rappresenta, secondo la critica, una Lisa più giovanile; un’altra versione, altrettanto giovanile, è una Gioconda, 1503-1516, al Prado [fig. 9], proveniente dalle collezioni reali spagnole; in quest’ultima, dopo un accurato restauro del 2012, è stato rimosso tutto il fondo nero che copriva interamente uno splendido paesaggio, molto simile a quello della Gioconda, e si presenta ora dipinta, con colori assai brillanti, verosimilmente eseguita  da un allievo leonardesco non bene identificato; ancora una terza versione antica si troverebbe a San Pietroburgo, in una collezione privata, secondo notizie apparse sulla stampa nel 2015, fornite dal sunnominato giocondolatra, Vinceti. E, ancora sulla giocondolatria, nel 2009 si tenne una singolare mostra al Museo ideale di Leonardo, a Vinci, dal titolo, Joconde. Da Monna Lisa alla Gioconda nuda. Anche qui le ipotesi attributive sulle Gioconde nude, derivate da un disegno a carboncino, conservato a Chantilly, Museo Condé [fig. 10], sono piuttosto controverse, dato che questi nudi hanno fattezze androgine [figg. 11-12],

come è stato osservato a giudicare dalla muscolatura delle braccia e dal sorriso ambiguo, riferito ad  uno dei giovani allievi più amato da Leonardo, il bellissimo Gian Giacomo Caprotti (1480-1524), detto il Salaì [fig. 13];

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ma l’aspetto più curioso di questa mostra fu l’esposizione di cinquanta “pezzi” (non saprei definirli altrimenti), selezionati dalla sterminata collezione di un idrogeologo francese, Jean Margat [fig. 14], che nella sua vita ha raccolto (incredibile a dirsi!), ben undicimila riproduzioni, oggetti di varia fattura, umoristici o dissacranti, derivati dalla mitologia di massa del quadro più “famoso del mondo”. Il collezionista ha poi donato al Louvre tutta questa bizzarra raccolta. E il Louvre l’ha accettata!

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Giocondolatria e Giocondoclastia

I due termini non sono antitetici, come logica vorrebbe, convivono entrambi nell’inconscio collettivo degli artisti dai primi del Novecento ai nostri giorni, per intenderci, mi riferisco al primo iconoclasta del secolo XX, Marcel Duchamp, con il suo ready-made dadaista, la Gioconda con baffi e pizzo, del 1919 [fig. 15], con il dissacrante acronimo, L.H.O.O.Q. [fig. 16] (giusto cento anni fa), Parigi Centro George Pompidou, ai più noti pop-artisti, Warhol, Raushenberg, Johns, Lichtenstein, ai pop-graffitari, Keith Haring [fig. 17] e Jean-Michel Basquiat, con la sua Gioconda del 1983 [fig. 18], ma questa è solo un parabola minimale, poiché  basta andare in rete, e una valanga di immagini precipita sui nostri schermi a demitizzare il “quadro più famoso del mondo”.

Secondo lo storico David Sassoon, ci sarebbero oltre centomila pagine sul web dedicate alla Gioconda. Il suo libro, Il mistero della Gioconda, Milano 2006, è ben fatto, e ottimamente illustrato, ma contiene una non lieve inesattezza laddove cita l’autore delle Vite: “Quando Vasari scrisse il suo commento al dipinto, tanto Francesco quanto Lisa erano ancora in vita…” (p. 109). Vasari, come noto, pubblicò il suo commento su Leonardo nella prima edizione delle Vite nel 1550, e anche considerando di averlo scritto alcuni anni prima, si suppone attorno al 1547 (cfr. Sassoon, p. 108), i due coniugi fiorentini erano da tempo scomparsi, Francesco nel 1538, e Lisa nel 1542.

Ma, a parte tale svista, lo storico ci accompagna nello snodarsi della vicenda sulla fenomenale notorietà del “quadro più famoso del mondo”. L’autore non mette tanto in discussione la veridicità del racconto vasariano, né di altre testimonianze più o meno attendibili sull’identità dell’effigiata (per esempio, la prima fu quella di Antonio de Beatis in visita a Leonardo nel castello di  Cloux nel 1517; poi circa un secolo dopo, Cassiano del Pozzo vide il quadro a Fontainebleau, e, nel suo Diario del 1625,  denominò per primo l’opera “ritratto di una tal Gioconda”) ; ma  Sassoon ci ricorda che le origini del successo di quest’opera di Leonardo già circolava tra gli artisti suoi contemporanei, in primis Raffaello, con i famosi ritratti delle sue dame che echeggiano la postura di Monna Lisa; e tale fortuna proseguì con le numerose copie del ritratto eseguite nel corso del XVI-XVII secolo. Durante il Settecento, invece, la Gioconda fu pressoché ignorata, per essere riconsiderata verso la fine della Rivoluzione francese, quando le collezioni reali vennero rese pubbliche e trasferite da Versailles al Louvre; ma da qui Napoleone volle il ritratto leonardesco per qualche tempo nella sua camera da letto alle Tuileries, per restituirla in seguito nuovamente al Louvre. Ma fu soprattutto la Francia del secondo Ottocento, positivista e laica, ad esaltare il genio di Leonardo, prima come scienziato per i disegni delle sue macchine e degli studi del corpo umano, poi come pittore, acquistando per il Louvre molte opere del Vinci, suscitate anche dalla produzione romantica poetica e letteraria sulla Gioconda, da Théophile Gautier a George Sand, a Baudelaire, che avevano, nella loro immaginazione, addirittura individuato nella Gioconda il prototipo della femme fatale!

Una letteratura prolificata anche tra autori stranieri fino al nostro D’Annunzio (cfr. in Sassoon, op. cit. pp. 160-167).  Esaltate parole le troviamo in Walter Pater, con declamazioni che oggi possono apparire, a mio giudizio, persino ridicole; ecco alcune espressioni dal suo saggio del 1869 Leonardo da Vinci, in Pater, ed. it, a cura di Mario Praz, Milano 1942, p. 35:

Ella è più antica delle rocce tra le quali siede; come il vampiro, fu più volte morta e ha conosciuto i segreti della tomba”.

Saranno anche queste parole che avranno ispirato il singolare studio più sopra indicato di Mario Alinei? il quale nelle pagine conclusive del suo libro afferma:

Nella mia ipotesi, invece, Leonardo non avrebbe mai potuto divulgare la vera identità della sua modella, perché non la conosceva neanche lui, o comunque non voleva rivelarlaE la donna morta l’avrebbe disegnata, se così si può dire, in questo caso, “dal vivo”, con i capelli sciolti e dimessamente vestitaPer cui a me sembra molto più realistico pensare che Leonardo, per fare questo quadro, non avesse più bisogno di una modella reale…” (Alinei, op. cit. pp. 110-111).

Alla luce di questo saggio, dunque, potremmo concludere che la Gioconda è un “falso”, non nel senso della qualità pittorica e della autografia leonardesca (che è fuori discussione), ma perché ammalia e inganna nello stesso tempo, ed è questa la ragione per cui lo respingiamo, sia inconsciamente, che coscientemente con l’iconoclastia, la derisione, l’utilizzo furbesco della pubblicità oltre ogni limite che assilla il globalismo mediatico, contro il quale non c’è alcun rimedio. Ma solo un fatto è certo: che della Gioconda non esistono documenti, studi preparatori, a parte un probabile richiamo al disegno, Ritratto di Isabella d’Este, 1500, al Louvre, che attestino una reale committenza, e la sicurezza che la donna rappresentata sia davvero esistita, e da qui, a partire dallo sventurato e clamoroso furto del 1911, è nato purtroppo il facile mito del “quadro più famoso del mondo” (a molti, e a me insopportabile), che certamente è destinato a durare.

Mario URSINO  Roma  aprile 2019