di Michele CUPPONE*
*Il presente articolo è un’anticipazione del seminario che l’autore terrà mercoledì 15 maggio presso l’Università di Palermo
Il recente, ma non per questo fresco articolo di John T. Spike
(cfr. https://www.aboutartonline.com/la-nativita-di-caravaggio-ma-il-significato-e-completamente-diverso-john-t-spike-capovolge-il-senso-del-capolavoro-caravaggesco-perduto-with-english-original-text/ ) riedizione appunto di un testo datato 2001, è occasione per tornare tra l’altro su alcuni aspetti iconografici del quadro in oggetto, disperso dal 1969 [fig. 1].
Quest’ultimo, come noto, fu dipinto per essere destinato ab origine al palermitano oratorio di San Lorenzo nel quartiere della Kalsa (il toponimo straniero, di origine araba, tradisce l’autore, che parla impropriamente di un «Greek quarter»). Il piccolo edificio religioso era allora amministrato da una confraternita di laici, la Compagnia di San Francesco – e non dai francescani della chiesa e convento adiacenti (con cui comunque vi era un certo legame), come ci informa inesattamente lo storico dell’arte statunitense; il quale fa riferimento peraltro al ramo francescano degli Osservanti, quando invece si trattava dei Conventuali.
Forse, la Compagnia di San Francesco attendeva di ricevere la tela in tempo per la festività del santo diacono (10 agosto, ma Spike riferisce erroneamente all’11 agosto), nell’anno 1609, secondo lo studioso; il quale pertanto non dà peso al progresso degli studi, che assegnano il dipinto al periodo romano e più puntualmente al 1600 (sulla base di documenti vecchi e nuovi, fonti trascurate e altre rilette criticamente, confronti iconografici e, non ultimo, oggettivi dati diagnostici). L’articolo, dunque, non aggiunge in sostanza nulla di nuovo, oggi, rispetto a quanto noto nel 2001, per cui Maurizio Calvesi vi figura ancora come sostenitore di una indimostrabile pista che porterebbe al prelato Giannettino Doria. Sappiamo comunque che così non è: lo studioso romano anzi ha avuto il merito nel 2011 di rilanciare il ruolo giocato nella committenza dal mercante Fabio Nuti, ipotesi che fu del compianto Alfred Moir (1982). Ma non è sulla questione cronologica che qui si intende soffermarsi, e per la quale si rimanda al contributo attualmente più aggiornato e completo sul tema, che lo scrivente ha pubblicato sul fascicolo 9-2017 di “Valori Tattili”: https://caravaggio400.blogspot.com/2018/12/disponibile-online-larticolo-la.html. Potendo mettere da parte imprecisioni e suggestioni, sarà bene a questo punto passare al cuore dello scritto, che riguarda più l’iconografia.
Risulta apprezzabile e convincente in tal senso l’osservazione sul realismo di una Vergine immortalata nella fatica post partum. E la messa in discussione dell’identificazione di san Giuseppe – non più l’uomo seduto e di spalle come narrava Giovan Pietro Bellori, ma a detta di Spike quello in piedi appoggiato a un bastone –, pone una questione, spesso congedata sbrigativamente, ma che vale la pena approfondire. Benché le conclusioni del professore non siano pienamente condivisibili. Si osservi anzitutto che, rispetto all’icona ortodossa che viene portata ad esempio, guarda caso in essa Giuseppe è proprio l’uomo seduto a terra, e che pure non guarda a Maria e al Bambino, ma a un uomo (chiaramente un pastore) in piedi con il bastone [fig. 2].
Per cui tale precedente iconografico sarebbe più a supporto della tesi tradizionale, piuttosto che elemento utile per rimescolare le carte. Forse, insomma, non proprio un esempio calzante. Ma c’è di più. A far propendere per il san Giuseppe ‘belloriano’, vi è la vicinanza con gli attrezzi propri del suo mestiere di falegname. E le cromie adottate, verde per la veste e giallo per il manto, rientrano nell’iconografia del santo: l’esempio più illustre in tal senso è forse nel raffaellesco Sposalizio della Vergine [fig. 3].
Tali vivaci colori peraltro ben si accordano a quelli della sua sposa, in particolare al rosso del corpetto, e la coppia è unita e contraddistinta anche da un abbigliamento per così dire feriale, rispetto ai più funzionali sai o alla ricca dalmatica laurenziana.
Restando sulla tavolozza impiegata, dice bene Spike sul «white-haired» san Giuseppe (per lui forse un pastore), punto sul quale invece a confondersi stavolta era stato Calvesi, il quale parlava di un «giovane-vecchio» (per lo stesso personaggio, Ferdinando Bologna indicò singolarmente uno «stalliere canuto (o biondastro?)»). Ma canuta la capigliatura era stata registrata ante furto direttamente dall’opera, da studiosi come il suo storico custode don Filippo Meli («folti e irti capelli bianchi»), o Roberto Longhi (memorabile quel suo «grande ritrosa della lustra canizie»). Inoltre già nel 1627-1628 Paolo Geraci senza indugi la ricopiava brizzolata, e con una certa stempiatura [fig. 4].
Senza contare che è il tono di base giallastro di certe riproduzioni, che ha fatto pensare a una varietà di biondo (queste e altre osservazioni di carattere iconografico erano pubblicate dallo scrivente nell’annata 2017 di “ArtItalies”: https://caravaggio400.blogspot.com/2018/03/disponibile-online-la-recensione.html).
Sulla figura del pastore con bastone, molte supposizioni sono state fatte, oltre quella di identificazione con il padre putativo di Gesù. Sempre ai titoli prima citati si rimanda, per scartare l’isolata ipotesi di un san Giacomo, il cui culto nell’oratorio di San Lorenzo non è documentato tanto da apparire, permettendo un gioco di parole, fuori luogo. Mentre altrettanto immotivato è pensare che sia fra Leone, presenza non strettamente necessaria e specie in tale contesto, al vicino santo assisiate (ammesso che sia quest’ultimo il personaggio a mani giunte in preghiera: più di un dubbio è stato avanzato a riguardo). Perché allora non tornare a pensare più semplicemente, per il vecchio che chiude la scena a destra, a un pastore, presenza strettamente legata al tradizionale annuncio ai pastori che ne fa l’angelo con cartiglio («GLORIA IN ECCELSIS DEO») ? Per di più il copricapo è elemento tipico di chi, lavorando all’aperto e specie nel mese di dicembre in cui avviene la Nascita del Signore, deve proteggersi da ogni sorta di intemperie; non avrebbe avuto alcun senso farlo indossare a Giuseppe che è già nella più calda stalla (tanto da potersi togliere il mantello, e con il Figlio che resta nudo a terra), e non di passaggio dall’esterno (cfr. un’analoga considerazione di S. Magister, Caravaggio. Il vero Matteo, Roma 2018, p. 50).
Certo resta l’interrogativo sulle gambe piuttosto «sode» e dunque dall’aspetto giovanile di Giuseppe, cui si può guardare come una delle ‘incongruenze’ tipiche della pittura di Caravaggio. Si può anche immaginare un’aderenza al modello per un qualche motivo (forse legato alla committenza) prescelto, se è verosimile, come è stato ipotizzato in virtù dei volti caratterizzati, che egli abbia inserito nel quadro più “ritratti”. Comunque l’artista non aveva rinunciato a raffigurare gambe ben tornite su corpi di uomini anziani: forse non è l’esempio più pertinente, ma si noti san Pietro nel Cristo nell’Orto degli ulivi, anch’esso disperso – che piace ricordare anche perché è curioso come, in tal caso basandosi su una sola foto in bianco e nero e senza nessun altro supporto (che invece si è visto come abbondino nel caso del quadro Nuti-Natività), diversi studiosi si siano qui lasciati andare con disinvoltura a collocare cronologicamente il dipinto in un anno solare esatto (per lo più il 1605).
Infine, alcune precisazioni si rendono necessarie rispetto alle copie conosciute del quadro disperso. Nella sua fondamentale monografia Spike confondeva la tela realizzata dal succitato Geraci e ora a Catania, come una copia dell’Adorazione dei pastori di Messina (ed. 2010, CD-ROM, p. 364). Salvo, nella scheda del dipinto di Palermo, citare la stessa copia una seconda volta, ma ritenerla perduta (ivi, p. 379). Sempre nella stessa sede, è individuata nella collezione di Juan Alfonso Enríquez de Cabrera una copia del dipinto già in San Lorenzo: niente di più fuorviante però, visto che il riferimento è a un’Adorazione dei Magi («Una lamina de adoracion de Reyes con su marco dorado de Mano del caravacho», cfr. Getty Provenance Index).
Quanto visto sin qui, in definitiva, dimostra ancora una volta come la Natività, a mezzo secolo dalla sua scomparsa e probabilmente proprio a causa di tale assenza, continui a riservare sorprese e più in generale a stimolare fruttuose riflessioni da parte di specialisti e cultori del maestro lombardo.
Per i continui e stimolanti scambi attorno alla Natività e i suoi tanti ‘enigmi’, con tutta la passione che ci unisce, ringrazio Francesco Comparone, segretario della commissione parlamentare antimafia della XVII legislatura.