di Mario URSINO
Tenerezza e dramma nella vita e nelle opere di Archile Gorky
E’ in corso a Venezia, fino al 22 settembre 2019, a Ca’Pesaro, una notevole retrospettiva di Archile Gorky 1904 – 1948 [fig. 1], a cura di Gabriella Belli, Direttore dei Musei Civici, e di Edith Devaney della Royal Academy di Londra. L’importante rassegna allinea 80 opere, fra dipinti e disegni, selezionati dal 1927 al 1948, data della scomparsa dell’artista. Per quanto incisiva sia stata la sua personalità nell’evoluzione della pittura americana nel secondo dopoguerra, i suoi lavori non hanno mai superato in notorietà la figura di Jackson Pollock, sul quale Gorky ebbe un sicuro influsso nella sua formazione di action painter. Non che la critica abbia mai messo in dubbio l’importanza della presenza in America del giovane emigrato armeno (naturalizzato poi negli States) tra gli anni Trenta e Quaranta, resta tuttavia ancora oggi problematica la definizione del suo percorso artistico, ostinatamente articolato nel ricomporre, meglio forse dire, nel ricreare, gli stili desunti sia dai maestri antichi e moderni (a partire soprattutto da Cèzanne e Picasso, Braque, de Chirico e altri protagonisti delle avanguardie europee primo novecentesche), almeno fino agli inizi degli anni Quaranta; per cui molto spesso si è parlato della sua opera come stile “imitativo”.
Ma così non è, come ha dimostrato Harold Rosenberg nel suo illuminante saggio, Archile Gorky, apparso in America nel 1962, e immediatamente tradotto in Italia dalla Rizzoli [fig. 2]. E da queste premesse, come spiega Gabriella Belli nel suo denso e puntuale saggio in catalogo, viene appunto realizzata questa rassegna che definisce con molta chiarezza la singolare personalità di Gorky; la Belli ripercorre con esemplare rigore la fortuna critica dell’artista in Italia, a partire dalla storica Biennale di Venezia nel 1948 [fig. 3], dove Gorky era presente nel Padiglione degli Stati Uniti insieme ad altri esponenti dell’espressionismo astratto, come Rothko e Baziotes, non ancora divenuti delle celebrità. Gorky sarà esposto a Venezia anche nelle successive Biennali del 1950, 1962 e 1968.
In quella del 1962 [fig. 4] l’artista emergerà con la presentazione di Umbro Apollonio (1911-1981), critico di fama internazionale. La singolarità del pensiero artistico di Gorky, come si diceva più sopra, dello “stile imitativo”, risiedeva nel fatto che l’artista dichiarava sempre, e senza mezzi termini, ai suoi allievi (ha insegnato giovanissimo dal 1926 al 1931 alla Grand Central School di New York), e ad artisti suoi contemporanei di rinunciare ad essere “originali”. Ha chiarito questa posizione Harold Rosenbeg: “Egli riaffermò questa premessa nella forma più drammatica: “il rifiuto dell’originalità”. Stuart Davis (che Gorky aveva conosciuto nel 1929, n.d.A.) attesta la profonda originalità di questo atteggiamento in un brano notevole per nettezza lapidaria e forza di sentimento: “Quando io frequentavo Gorky, il suo lavoro era fortemente influenzato da certi stili di Picasso. Era evidente agli occhi di chiunque, e si tendeva a criticarlo come imitatore ingenuo. Io assunsi una posizione differente, e difesi sempre la sua opera”. Ha ribadito ancora Rosenberg:
“Nei dipinti e negli innumerevoli disegni di quel periodo Gorky non tanto imita le tele di Picasso quanto impersona l’atteggiamento di Picasso davanti al cavalletto o al tavolo da disegno. Lo scopo era di riuscire a scambiarsi con Picasso, in modo da riuscire, spontaneamente, a «fare un Picasso» che fosse un’opera nuova”.
Sembra un sofisma, ma non lo è, sebbene sia stato un concetto difficile ad essere compreso e accettato, ma che per lui era l’unico modo di creare davvero nuova arte. Ed è proprio l’attraversamento degli stili, che lo condurrà persino ad accettare le idee del più giovane surrealista cileno Roberto Sebastiàn Matta (1911-2002), sulla stesura liquida del colore, che in Gorky diviene strumentale nelle ultime sue opere fluide, composizioni miste di elementi astratti e figurativi, come nei tenerissimi dipinti, The limit, 1947, il citato Soft night, 1947, o l’altrettanto suggestivo Dark green painting, 1948, del Philadelphia Museum of Art, tra le opere presenti in questa significativa mostra antologica veneziana.
Va ricordato, inoltre, che Gorky non solo fu presente, come già detto, nel Padiglione degli Stati Uniti nel 1948 (ma all’epoca nessuno si ricordò che l’artista era appena scomparso), ma figurò anche con il grande dipinto Senza titolo, Estate, 1944, un olio su tela, cm.167×178,2 [fig. 5], un’opera ancora appartenente al periodo felice del pittore, che Peggy Guggenheim aveva acquistato direttamente dall’artista in America e inclusa nella sua collezione alla quale fu riservato lo spazio del Padiglione della Grecia, nazione assente nella Biennale di Venezia del 1948. L’importante opera è tuttora esposta nella sede della Peggy Guggenheim Collection nello storico Palazzo Venier de’ Leoni.
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Ci sono due opere, a mio avviso, che racchiudono tutto l’arco temporale della breve e intensa vita artistica di Archile Gorky:
il Ritratto con la madre, nelle due versioni del 1926 [figg. 6-7], e Soft night, 1947 [fig. 8],
titolo tradotto da Giulio Carlo Argan (1909-1992) in Tenera notte, nel 1992, nel recensire una mostra (in “Il Messaggero” 18 luglio, 1962) di Archile Gorky alla Biennale di Venezia del 1962; il famoso storico e critico d’arte alludeva naturalmente alla celebre opera di Francis Scott Fitzgerald, Tender is the night, pubblicata a New York nel 1934:
“Dei suoi dipinti, uno s’intitola «Tenera notte», dal romanzo di Scott Fitzgerald. Con lo scrittore, Gorky ebbe in comune la vocazione intellettuale, certe qualità dello stile preciso e libero, incisivo e librato, ma soprattutto il senso fisico dello spazio e del tempo della vita americana tra il ’30 e il ’40 (…). Come Fitzegerald, Gorky discopre tremando, sotto la bella maschera del volto, lo smarrimento della schizofrenia; ma non è un incubo, un’immagine piena d’orrore, è soltanto una «tenera notte»”.
Gorky infatti, in quegli anni era già attivo nella vivace società artistica degli States, come ricorda sua nipote Saskia Spender nel bel saggio nel catalogo della mostra in oggetto:
“Nell’atmosfera febbrile della New York della Depressione molti artisti furono attratti dai movimenti organizzati. Gorky partecipò con gioia agli aspetti festosi della «Artists’ Union», e nel 1934 creò per un corteo di protesta uno stravagante carro allegorico”.
Storie diverse, è ovvio, ma provenienti da una medesima cultura americana, Gorky, come in Fitzgerald, cercava la propria autonomia, anche al di là delle radici europee; fu questa la lotta per l’arte senza tregua del giovane armeno, Vosdanig Manoog Adoian (questo il suo vero nome), emigrato in America nel 1920, per sfuggire agli stenti e alle persecuzioni turche in Anatolia. Egli era nato a Khorkom, nella provincia armena di Van, tra il 1902-1904 (così le fonti più recenti), e si tolse la vita a soli quarantun anni nella sua fattoria a Sherman, nel Connecticut, nel luglio del 1948. Drammatico dunque l’inizio della sua vita, di cui il Ritratto con la madre è l’emblema (desunto da un’antica foto del 1910, fig. 9), e anche della sua storia d’artista; altrettanto drammatica è stata la sua precoce fine, minato da un male incurabile, da un grave incidente automobilistico, in cui si frattura il collo, e resta anche con la mano paralizzata, e infine per l’abbandono dall’amata moglie, Clara Agnes Magruder, detta “Moughouch” (My only love, My precious love, egli le scriveva nel luglio del 1947, un anno prima del suicidio), e le due figlie, Maro e Natasha, a causa del suo stato mentale dovuto sia alla grave malattia, che all’incidente che aveva menomato la sua attività artistica. Sua moglie Moughouch (il grazioso diminutivo Gorky l’aveva precedentemente coniato per il suo gatto, ricorda sua nipote Saskia Spender; il termine in lingua armena vuol dire: little might one), disperata, scrive nel luglio del 1948 agli amici Ethel e Wolf Schwabacher:
“Gorky’s mental condition is serious (…). You know I have loved him and tried to fill his need – but now I cannot”*.
Tra il dramma di questi suoi ultimi due anni, 1947-1948, e la precedente, tenera e felice esperienza coniugale e filiale, dagli inizi degli anni Quaranta [fig. 10], rimane quindi l’importanza della sua notevole opera nella pittura americana nella prima metà del sec. XX; una ricerca pittorica costante e ossessivamente controllata intellettualmente, per il culto del disegno, nel quale eccelleva, e l’assimilazione, meglio dire, l’attraversamento degli stili delle opere dai maestri antichi, da Paolo Uccello ad Ingres (si vedano certi finissimi disegni di ritratti alla maniera di Ingres), fino ai postimpressionisti e cubisti.
Partendo nei suoi primi lavori derivati da Cèzanne [fig. 11] poi dal primo Picasso [figg. 12-13], de Chirico [figg. 14-15], il post-cubismo e i surrealisti, e infine gli astrattisti (Kandisky); ancora Rosenberg precisa:
“Gorky appartiene a tutte le fasi della nuova arte astratta americana, prefigurata da Kandisky, più che a un surrealismo dell’ultima ora. Il rapporto con Kandisky è assai evidente nei dipinti del 1943-44, come La cascata [fig. 16] e Il fegato è la cresta del gallo [fig. 17], con quei margini fluenti delle forme”.
Egli è divenuto il precursore, come vuole la critica, dell’espressionismo astratto americano
(De Kooning [fig. 18], Rothko, Pollock, Kline), e ha ispirato persino alcuni dei nostri maggiori protagonisti dell’astrattismo italiano nel secondo dopoguerra, in particolare Afro e Toti Scialoja, che negli anni Cinquanta visitarono l’America. Afro, nel 1957, presenta una mostra di Archile Gorky nella famosa “Galleria dell’Obelisco” a Roma.
Scrive Afro
“Quando sono andato la prima volta in America ho visto molti quadri di Gorky. Immediatamente ho avuto la sensazione di essere di fronte a un grande artista e di scoprire un mondo di immagini inedito e caratterizzato al massimo. Una fantasia, un colore, un sogno febbrile che sono di Gorky soltanto. Fu l’esperienza più importante di quel mio primo viaggio. Capii in seguito quanto gli doveva la migliore avanguardia di New York. È stato il primo pittore “americano”, il primo artista cioè che ha espresso una situazione di cultura, un atteggiamento morale, un processo di fantasia assolutamente nuovo”.
E quanto per Afro fu determinante questo incontro, basta osservare qualche sua opera astratta, per esempio, Summer in the Orchard, 1955, Estate nel frutteto [fig. 19]
da confrontare con il sopra citato Soft night, 1947 di Gorky. Sempre nel 1957 anche Toti Scialoja e Ethel Schwabacher dedicarono i loro scritti in “Arti Visive”, Archile Gorky, Roma, n. 6-7. Scialoja, tra l’altro, scrive
“Gorky ebbe la grazia di esprimere prima di tutti e più acutamente una idea comune e segreta, pagando nel modo più amaro il suo privilegio. Solo comprendendo questa posizione carica di cultura e al tempo stessa arcaica, composita e ardente, si può intendere il suo messaggio…”.
E Scialoja difatti lo aveva compreso precocemente, se l’anno precedente, nel 1956, aveva già esposto un gruppo di sue opere alla Viviano Gallery di New York, in evidente consonanza con gli espressionisti astratti americani (si veda il suo folgorante Alle cinque della sera, 1957, fig. 20).
Afro e Scialoja, perciò, non solo avevano colto in pieno il formalismo espressivo del colore di Archile Gorky, ma ne avevano anche desunto il sentimento, l’emozione dell’artista di fronte ai fenomeni della natura, che nel caso del pittore armeno, deriva anche da nostalgici e potenti ricordi della sua infanzia nella terra natia, se osserviamo le numerose versioni dei suoi dipinti, Giardino in Sochi, o Frutteto di mele, 1944 [fig. 21], come affiorano dalla lontana Armenia nella sua mente : “A circa sessanta metri dalla nostra casa verso la fonte, mio padre aveva un giardinetto con pochi alberi di melo che non davano più frutti”. (in “Arti Visive”, op.cit.). Andrè Breton che considerava, eccessivamente, Gorky un surrealista, aveva però colto nel segno l’essenza della sua pittura:
“Per la prima volta la natura è trattata come un crittogramma sul quale le impronte sensibili anteriori all’artista vengono a porre la loro grata, alla scoperta del ritmo della vita…”. (Presentazione alla Julien Levy Gallery, New York, 1945).
Non c’è dubbio però che il surrealismo, in certo qual modo, abbia svolto il suo ruolo nella elaborazione di codeste opere: il riferimento all’automatismo dei segni alla Masson e di Mirò sono, in certo qual modo, evidenti, ma il segno-disegno di Gorky è più netto, e sempre sotto controllo. E Palma Bucarelli, quando presentò nel 1967 una mostra nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di 54 disegni di Gorky [fig. 22] ebbe a sottolineare
“Automatismo controllato è una contraddizione in termini; questa è la causa dell’insicurezza di Gorky. Ma soltanto in questa contraddizione si coglie il senso della sua pittura… Il suo scopo è di cogliere il segno allo stato nascente, di recuperare la pura sostanza segnica, il reticolo della comunicazione indipendentemente dalle cose da comunicare”.
Egli però derivò da surrealismo solo la libertà di seguire fluidamente i suoi paesaggi mentali, e soprattutto nelle ultime opere possiamo scorgere le tracce segniche e di colore di matrice kandiskiana, come detto più sopra, ma sono per di più cariche di un’emozione soggettiva e psicologica di un inquieto stato d’animo, sia pure attraverso una sorta di fisiologia della natura. Ne trarranno pertanto ampia lezione negli anni Sessanta-Settanta anche i nostri Cy Twombly (1928-2011) e Gastone Novelli (1925-1968), con le loro opere fatte di segni assai mobili, cui aggiungono cancellature e parole (Twobly) e brani di scrittura visiva (Novelli).
Mario URSINO Venezia Giugno 2019
*Tutta la corrispondenza di Archile Gorky con familiari, amici, pittori, direttori di musei, critici d’arte, personaggi femminili corteggiati, e soprattutto con la moglie Mougouch (fig 23)
e una delle piccole figlie, Maro è stata recentemente pubblicata a cura di Matthew Spender con il titolo The Plow and the song. A life in letters and documents, Hauser & Wirth Publishers, 2018 [fig. 24]. Significativamente è stato per il volume il titolo di due suoi noti e splendidi dipinti del 1946-47, rispettivamente conservati al Allen Memorial Art Museum, Ohio, e al The Art Institute of Chicago [figg. 25-26] The Plow and the Song (L’aratro e la canzone),
ancora una volta stanno ad evocare il mondo arcaico contadino, impresso nella memoria del piccolo giovane armeno Vosdanig Manoog Adoian (Gorky).