di Mario URSINO
Una nuova monografia su Giorgio de Chirico
Ha il formato, la misura e il peso (due chili e mezzo circa!) di un dizionario il volume che Fabio Benzi ha dedicato a Giorgio de Chirico. La vita e l’opera [fig. 1], edito recentemente per i tipi dell’editrice “La nave di Teseo”. Il ponderoso libro conta complessivamente 555 pagine, di cui un gran numero è costituito dalle oltre 360 foto (l’elenco non è numerato nell’indice), quasi tutte a piena pagina, che corredano il testo; altre 31 pagine l’autore le dedica alle note, mentre è completamente assente la bibliografia, e qualsiasi scheda biblio-informativa sulle opere (molte in collezioni private), e delle più note si dà solo la sede museale ove sono conservate.
Benzi ha ragione:
è talmente immensa la bibliografia sul grande maestro, inventore della pittura metafisica, che ci sarebbe voluto, parole sue, un intero volume per riportala. Per carità! Meno male che non lo ha fatto. Dunque che cosa vuol essere codesto studio? Un catalogo secondo Benzi? Un’antologia delle opere più note? (in parte sembra esserlo). No, secondo lo studioso è una monografia, come egli scrive nella sua Premessa.
“Perché oggi una monografia su Giorgio de Chirico?… perché non ha mai avuto il privilegio di una monografia approfondita (sic!) … questa monografia costituisce dunque – nella misura di un libro fondamentalmente essenziale, sintetico, che tralascia di riportare interamente documentazioni fluviali (per fortuna!, n.d.A) comunque prese in considerazione…” .
Va bene così, ne prendiamo atto. E poi, chi l’ha detto che un autore non possa recensire se stesso? Non si sa mai, potrebbero nascere gravi diatribe ermeneutiche, meglio dire subito che qui si sta trattando di un “libro fondamentalmente essenziale”. Vogliamo scherzare! e chi si potrebbe permettere di affermare il contrario! Benzi quindi nelle rimanenti pagine, dedotte foto, qualche documento, la formale, compiaciuta presentazione del Presidente della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, l’indice dei nomi, etc., articola in 31 capitoli e capitoletti il lungo percorso formativo del geniale “pictor optimus”, da “L’educazione in Grecia”, a quella a Monaco, e a Milano, “Il periodo fiorentino”, e ovviamente la nascita della pittura metafisica nel 1910, per (ri)passare all’esame (semmai ce ne fosse il bisogno) quegli ultra famosi dipinti del primo periodo metafisico: L’enigma di un pomeriggio d’autunno, L’enigma dell’oracolo, L’enigma dell’ora; poi si parla dell’importanza di Nietzsche e de “l’eterno ritorno”; nonché il (ri)esame delle fonti e documenti. A questo proposito, Ada Masoero, nella sua elogiativa recensione apparsa su “Il Sole-24 Ore” del 9 giugno 2019, Giorgio de Chirico tra sorprese e novità, scrive
“Il volume regala parecchie scoperte. Tra le altre, la fonte primaria della figura seduta delle Muse inquietanti, 1918 individuata in una statua arcaica di Artemide del Museo Nazionale di Atene: un blocco massiccio e acefalo (la” musa seduta di de Chirico”, altrettanto massiccia, ha la testa poggiata ai suoi piedi), sul cui basamento si legge l’iscrizione “omega” che, nota Benzi, letta come un palindromo, evoca la parola “egemone”, padrona dunque”.
Ci vuole però, a mio avviso, una buona dose di fantasia in questa interpretazione, certamente lecita, ci mancherebbe. Ma dimentica Benzi che una precedente fonte iconografica, accettata dalla critica e più plausibile, fu individuata molti anni fa, nella scultura sumerica Gudea seduto, diorite, h. 46 cm. conservata al Louvre che si presenta con le mani incrociate sul grembo, esattamente come nella musa seduta di de Chirico. Il maestro, come è noto, ha dipinto la prima versione de’ Le muse inquietanti nel 1918 [fig. 2], e nel suo andirivieni tra Francia e Italia, il museo del Louvre a Parigi era una delle sue mete preferite, e non può essergli sfuggita la curiosa iconografia del Gudea seduto [fig. 3], trasfigurato nella sua musa seduta.
Le sculture arcaiche di Artemide nel Museo nazionale di Atene [figg. 4-5], che Benzi ipotizza essere le fonti delle Muse Inquietanti dechirichiane, possono anche essere state viste dal giovane de Chirico quando era studente al Politecnico di Atene, ma siamo tra il 1903 e il 1906: troppi anni erano passati quando l’artista dipinge il famoso quadro; de Chirico si era già formato a Parigi al tempo delle avanguardie, ed è qui, al Louvre, che ha trovato molte delle sue fonti, come detto più sopra. È vero che Artemide rappresenta la dea della verginità, e il primo titolo delle Muse inquietanti sarebbe infatti Le Vergini inquietanti, come già aveva individuato Maurizio Fagiolo nel riportare la lettera di Giorgio de Chirico a Carlo Carrà del 1918: “Io lavoro sempre; ho finito un quadro: Le vergini inquietanti…” (in: L’opera completa di de Chirico, 1908-1924, Milano 1984). A questo proposito va ricordato anche Maurizio Calvesi che sottolinea come i sostantivi “verginità-musa” siano pressoché sinonimi, in quanto: “la verginità è condizione necessaria all’esercizio della divinazione e le muse sono come sacerdotesse oracolari che annunciano all’artista il suo destino di immortalità” (in cat. Mostra De Chirico nel Centenario della nascita, Museo Correr, Venezia, 1988).
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Scorrendo la “monografia”, ci si imbatte poi nella fondamentale amicizia di de Chirico con Apollinaire e il famoso ritratto di quest’ultimo.
Non trascura Benzi gli importanti anni di Ferrara (1915-1917), il sodalizio con Carrà, e via discorrendo attraverso le successive fasi della pittura dechirichiana, certamente non meno importanti (come il sottoscritto ha sempre sostenuto sin dagli inizi degli anni Novanta), come l’esordio del classicismo, il periodo romantico, e il rapporto, questo sì fondamentale, di Giorgio de Chirico con gli antichi maestri (di cui il sottoscritto dette ampio conto con la grande mostra De Chirico e il museo [fig. 6] nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna, tra il 2008-2009, con opere della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, e della Galleria stessa. Ma Benzi non se ne ricorda, Pas mal. Così come sorvola sull’importante mostra di Ferrara, appunto, De Chirico a Ferrara. Metafisica e Avanguardie [fig. 7], a cura di Paolo Baldacci e Gerd Roos, nel Palazzo dei Diamanti nel 2016, che è forse tra le più originali e significative di quei tre anni (1915-1917) della pittura metafisica ferrarese, effettuata nell’ultimo decennio in Italia (ne ho parlato su altra rivista [15 giugno 2016] quando visitai la mostra a Ferrara in quell’anno). Ricordo tale circostanza, non per una particolare simpatia per i due autori, tant’è vero che col primo, il Baldacci, ho avuto difficili scontri di giudizi in tribunale su opere false, da lui accreditate come autentiche, come sa bene il Presidente della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, e la cosa per me è finita lì. Ma non per la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico e il suo Presidente, le cui annose, interminabili polemiche non hanno avuto mai tregua, e Benzi ce ne ragguaglia ancora una volta con dovizia (però che noia!, dato che la rivista della Fondazione, Metafisica, ha in più occasioni trattato codesto argomento).
Non posso infine che fare alcune osservazioni in merito ad alcuni dipinti che mi erano assolutamente sconosciuti.
Il primo: Interno metafisico. L’après midi d’été [fig. 8],
che si dice datato al 1926, e conservato alla Yale University Art Center, New Haven (dipinto nel quale si legge solo a firma, a sx verso il centro, quando nella maggior parte delle opere di de Chirico, 1925-1926, ricorre, posso dire quasi sempre, firma e data); ma non è solo questo dettaglio a farmi considerare tale opera particolarmente strana, ma anche per l’inclusione nel quadro di un brano di un quadro Caccia ai trichechi, 1900c. [fig. 9] di un pittore austriaco non particolarmente conosciuto, Theodor Breidswieser (1847-1930). Non mi pare che codesto autore possa in qualche modo aver suscitato la fantasia e la curiosità del maestro, né mai appare citato nei suoi scritti. Posso sbagliarmi, eppure è questa la mia impressione.
Un altro dipinto, invece, mi lascia assolutamente sconcertato, si tratta del The lovers, 1925 [fig. 10], della Yale University Art Gallery di New York,
opera di una bruttezza inconcepibile nella grammatica dechirichiana, con una incertezza di disegno e approssimata stesura di colore, da considerare un dipinto impossibile per de Chirico. Un altro ancora che presenta incongruità tali, è il Vendredì Saint, datato inverno 1915? [fig. 11], che de Chirico aveva dichiarato falso nel 1962,
e che presenta la firma stramente posizionata trasversalmente al dipinto (e se posso esprimere la mia opinione mi sentirei di affermare che sia opera del pittore Oscar Dominguez, già autore di qualche accertato come falso dallo stesso de Chirico); e del resto a proposito del Vendredì Saint lo stesso Benzi scrive: “…dipinto comunque di ambigua datazione e collocazione…” (e allora era proprio necessario, caro Benzi, includerlo nella tua “monografia”?). E con questa domanda chiudo qui questa mia perplessa nota sul volume in oggetto con una domanda all’autore su un problema che mi è stato e mi è ancora particolarmente a cuore:
Mario URSINO Roma giugno 2019