di Rossella VODRET
La mostra su Caravaggio a Napoli curata da Maria Cristina Terzaghi e Sylvain Bellenger in corso a Capodimonte è una preziosa occasione di studio e ricerca: da un lato fa il punto sullo stato delle conoscenze sui due soggiorni napoletani del grande pittore lombardo – purtroppo fortemente penalizzati dalla scomparsa delle carte conservate nell’Archivio di Stato di Napoli -, affrontando alcuni nodi cruciali evidenziati dalla critica, dall’altra offre una serie di stimolanti confronti (basti citare quello tra le due Salomè con la testa del Battista conservate a Londra e Madrid o i numerosi “faccia a faccia” che raccontano con chiarezza come i capolavori di Caravaggio furono recepiti dai più importanti pittori partenopei), fondamentali per l’approfondimento e lo studio di questa appassionante stagione della storia della pittura napoletana.
I tempi strettissimi non mi consentono un’analisi approfondita delle varie tematiche affrontate nella mostra, vorrei qui accennarne solo una: quella che analizza il complesso e problematico rapporto tra Caravaggio e i fiamminghi Louis Finson e Abraham Vinck, già affrontato dalla stessa Terzaghi nel 2013 e da altri studiosi come Porzio nel 2013, Papi nel 2015 e Farina nel 2018[1].
La vicenda di Louis Finson finora nota lo vede attivo a Napoli dal 1605 circa – anno in cui risulta vivere in una casa in affitto con Vinck con cui era già in società (Pacelli 1980, Porzio 2013, Terzaghi 2019) – almeno fino al 1612. Una serie di dipinti e alcuni documenti legano i due pittori fiamminghi a Caravaggio (Vinck è citato in una lettera come “amicissimo di Caravaggio”), con i quali entrò in contatto probabilmente subito dopo il suo arrivo a Napoli nell’autunno del 1606.
Di particolare importanza a questo proposito sono le due famose lettere[2] del 15 e del 25 settembre 1607 scritte rispettivamente da Ottavio Gentili (agente a Napoli del duca di Mantova Vincenzo I) e dal pittore fiammingo Frans Pourbus, attivo alla corte di Mantova e inviato dallo stesso Duca a Napoli per valutare i quadri della collezione del Principe di Conca.
Nella prima lettera Ottavio Gentili scrive a Vincenzo I Gonzaga che Pourbous:
“ Ha però visto li ritrati di alcune dame principali che ha fatto questo altro fiammingo che habbita qui et dice che sariano buoni per il camerino di V.A […] Ha visto ancora qualche cosa di buono di Michelangelo da Caravaggio che ha fatto qui e che si venderanno […]”
Nella lettera di Pourbus del 25 settembre del 1607 viene precisato che si tratta di due quadri “di mano” di Caravaggio in vendita a Napoli, verosimilmente presso la bottega di Louis Finson (“questo altro fiammingo che habbita qui”):
“..Ho visto qui doi quadri belliss(i)mi di mano di M Angelo da Caravaggio l’uno è d’un rosario et era fatto per un’ancona et è grande da 18 palmi e non vogliono manco 400 ducati; l’altro è un quadro mezzano da camera di mezze figure et è un Oliferno con Giuditta et non lo dariano a manco di 300 ducati. Non ho voluto fare alcuna proferta non sapendo l’intenzione di V[ostra] [Altezza], me hanno però promesso di non darli via sin tanto che saranno avisati del piacere di V[ostra] A[ltezza]”
Ho voluto riportare integralmente i passi delle due lettere, seppure notissime, perché contengono una serie di informazioni preziose e aprono una serie di problematici scenari.
La prima considerazione è che le due lettere sono state scritte poco dopo la partenza di Caravaggio per Malta su una delle galee comandate da Fabrizio Sforza Colonna figlio di Costanza, avvenuta verosimilmente il 25 giugno 1607 (cfr. da ultimo Sciberras 2019). Quindi, solo due mesi dopo la partenza di Michelangelo le due tele citate nella lettera la Madonna del Rosario ora a Vienna e una Giuditta e Oloferne, quadro “mezzano” da camera (si voglia o meno identificarla con il dipinto ritrovato a Tolosa) sono già in vendita presumibilmente nella bottega di Finson, il quale, insieme con Vinck, ne risulterà in seguito il proprietario. I due quadri stranamente non vengono venduti e li ritroviamo nel settembre del 1617 ad Amsterdam, citati nel testamento di Finson[3].
Come mai i due pittori fiamminghi subito dopo la partenza di Caravaggio per Malta avevano nella loro bottega due importanti quadri di Caravaggio? Come ne erano entrati in possesso?
L’ipotesi più logica è che Caravaggio stesso prima di partire abbia lasciato i suoi due quadri a Finson e Vinck nella cui bottega aveva probabilmente ottenuto spazi per lavorare, dal momento che, a oggi, non risulta che Michelangelo a Napoli avesse una bottega autonoma. La presenza un Marte, Venere e Amore dipinti da un artista nordico, forse dallo stesso Finson, sotto il David con la testa di Golia di Caravaggio, ora conservato a Vienna, può essere una conferma a questa ipotesi.
L’idea che il pittore stesso abbia lasciato ai due fiamminghi i due quadri, magari in previsione di un suo rientro a Napoli, diventa più credibile se pensiamo, come scrive Keith Sciberras nel catalogo della mostra, che la partenza di Caravaggio per Malta non venne programmata, ma fu una decisione improvvisa presa “d’impulso” dal pittore, dettata dalla speranza di cercare di ottenere il perdono papale. Una decisione presa verosimilmente dietro suggerimento di Costanza Colonna, arrivata a Napoli sulla galea del figlio il 14 giugno 1607 solo pochi giorni prima, quindi, del 25 giugno, data della partenza di Caravaggio, (Sciberras 2019). Nella partenza che immaginiamo precipitosa, anche per un uomo che ne aveva già viste di tutti i colori, la scelta più semplice e conveniente fu quella di lasciare i suoi quadri nella bottega dei due fiamminghi, dove presumibilmente li aveva dipinti e dove già si trovavano. Tra l’altro le dimensioni ragguardevoli della Madonna del rosario facilitavano questa decisione.
Qui si aprono una serie di interrogativi: chi e quando ha deciso di mettere in vendita i due quadri? Caravaggio pensava veramente di tornare a Napoli, come scrive Sciberras e come poi, dopo le note drammatiche vicende, è effettivamente avvenuto due anni più tardi? E’stato lui ad aver lasciato l’incarico di vendere i dipinti ai due fiamminghi, magari per disporre di denaro liquido per la partenza o per affrontare i primi tempi maltesi?
E poi, quanti erano questi quadri? Oltre alla Madonna del rosario – una grande e misteriosa pala d’altare che ancora non sappiamo quando fu dipinta (a Roma? a Napoli? Era in origine la pala Radulovich poi riutilizzata?), né per quale committente (probabilmente i Colonna, come sembra suggerire anche la grande colonna scanalata che chiude il quadro a sinistra[4]), né per quale chiesa domenicana, né perché fosse finita sul mercato napoletano e non sia rimasta in possesso di chi gliela aveva commissionata – e la Giuditta e Oloferne ce n’erano altri? Come per esempio il David di Vienna acquistato dopo la morte di Caravaggio dal conte di Villamediana, che arrivò a Napoli nel 1611?
E ancora, visto che Caravaggio a Napoli in quel tempo era lanciatissimo e molto richiesto, erano tutte opere già finite o ne aveva lasciato qualcuna in corso d’opera, che magari venne completata da Finson per essere venduta?
In questo contesto può forse ipotizzare[5] che l’accordo con Finson per l’utilizzo degli spazi della sua bottega da parte di Caravaggio prevedesse anche che il pittore fiammingo potesse trarre copia dai preziosi originali di Caravaggio. Questa ipotesi spiegherebbe l’esistenza di tante copie delle opere napoletane del grande pittore lombardo: non solo le tre Maddalena in estasi di Finson (due delle quali, firmate, esposte in mostra), ma anche, la copia napoletana della Giuditta e Oloferne (Napoli, Banca Intesa), la copia della Madonna del Rosario, venduta ad Amsterdam, nel febbraio del 1630 come opera di mano di Finson[6] e della Crocifissione di S. Andrea, della quale si conoscono oggi ben tre copie (Toledo, Digione ed ex Back Vega, v. Terzaghi 2013) due delle quali, quella già nella raccolta Back-Vega la tela di Digione sono ritenute opere di Finson. Alle copie citate si possono aggiungere un s. Gennaro con i simboli del martirio (Palmer Museum of Art in Pennsylvania) e la Resurrezione di Cristo possibili copie originali perduti di Caravaggio e, infine, una copia del David di Vienna, in collezione privata romana con “forti componenti finsoniane e battistelliane”, citato da Maurizio Marini[7].
Un rapporto quindi che si intuisce molto complesso e problematico su cui è necessario lavorare ancora. La presenza in mostra di tre opere di Finson, ed in particolare del monumentale Martirio di s. Sebastiano della chiesa parrocchiale di Rougiers, firmato a datato 1610 (?)[8], con vistose citazioni dalla Crocifissione di Pietro Cerasi (visto da Finson a Roma, ma quando? Prima che venisse sistemato nella cappella nel 1605 circa?) e, in controparte, di una figura dalla Crocifissione di S. Andrea di Cleveland, può aiutarci a capire meglio i rapporti di dare/avere tra il fiammingo e il grande artista lombardo.
Una mostra imperdibile, quindi, punto di arrivo di una serie importante di studi, ma anche e soprattutto punto di partenza per nuove entusiasmanti ricerche …
Rossella VODRET Roma Giungo 2019
NOTE