di Gianni PAPI
La bella mostra napoletana su Caravaggio, curata da Maria Cristina Terzaghi e da Sylvain Bellenger è quanto mai stimolante per riflettere ancora su un momento (anzi due) della vita di Caravaggio, particolarmente ricco di implicazioni e ancora così dibattuto, pieno come è di lati ancora in parte oscuri. Nel suo densissimo saggio, pieno di nomi, di dati, di notizie, la Terzaghi sintetizza mirabilmente una bibliografia sterminata relativa ai due soggiorni del Merisi nella capitale partenopea. E aggiunge un elemento importante, riguardante la proposta di una possibile, iniziale collocazione della pala Radolovich in una cappella della chiesa di San Domenico, che un tempo era dedicata a San Vito, santo che – stando al contratto del 6 ottobre 1606 – sarebbe dovuto comparire nell’iconografia della pala, insieme a san Domenico e san Francesco.
Il tema della perduta pala Radolovich è già stato da me affrontato nel volume che ho dedicato alla Crocefissione Back-Vega, pubblicato nel 2016. Come è noto, la pala non è stata ancora identificata; per quanto mi riguarda ho già proposto di identificarla con la Madonna del Rosario oggi a Vienna (ha identiche misure, e propone ad evidenza un soggetto domenicano), che – forse per motivi relativi all’infedeltà di Caravaggio al progetto iconografico dettato nel contratto – venne rifiutata e probabilmente il pittore dovette restituire (almeno in parte) la somma che gli era già stata versata (duecento ducati).
Questa ipotesi di identificazione si aggancia all’altra notizia relativa alla proprietà del Rosario da parte di Louis Finson e del suo sodale Abraham Winck, che possedevano anche una Giuditta del Merisi (di certo non il quadro Costa, oggi presso la Galleria Barberini di Roma, ma un altro dipinto, che alcuni studiosi identificano con la tela ricomparsa a Tolosa nel 2014). Sappiamo di tale proprietà dal testamento di Finson, stilato il 19 settembre 1617: era infatti volontà del pittore lasciare a Winck la propria metà di comproprietà dei due dipinti citati. Con tutta probabilità i due artisti li avevano acquistati durante il loro soggiorno partenopeo e da parte mia sono convinto che essi ne fossero proprietari già nel settembre 1607, quando a Napoli i medesimi dipinti venivano offerti – per quattrocento e trecento ducati – agli emissari del Duca di Mantova, Ottavio Gentili e il pittore Frans Pourbus. Non credo cioè, che agissero per conto terzi, cioè per conto di Caravaggio, che altrimenti li avrebbe reclamati al suo ritorno nell’autunno del 1609.
La proposta di vendita non ebbe seguito e verosimilmente – almeno questa è la mia sensazione – i quadri furono ritirati dal mercato, altrimenti mi parrebbe davvero improbabile che non si fosse trovato un acquirente, considerata la ‘fame’ di dipinti di Caravaggio di cui abbiamo documentazione già nel 1610, in occasione della morte del pittore. I due pittori fiamminghi erano già soci prima dell’arrivo del Caravaggio a Napoli e – sembra ormai più che probabile – l’amicizia con quest’ultimo dovette cominciare immediatamente con il suo arrivo nell’autunno del 1606.
La proprietà di due dipinti così importanti del Merisi da parte di Finson-Winck è un evento piuttosto sorprendente e invita a qualche riflessione. Probabilmente la società dei due pittori venne in soccorso al Caravaggio che forse non era stato pagato per le due opere che gli erano state commissionate (o forse solo pagate in parte) e ne divennero i proprietari. Oppure, se il Rosario fosse davvero la pala Radolovich, è possibile che Caravaggio fosse stato costretto a restituire i duecento ducati,
Se i dipinti erano ancora in casa di Winck dieci anni dopo, si può dunque pensare che essi furono custoditi gelosamente dalla coppia di pittori ed è verosimile che fosse stato Winck a portarli in Olanda, quando lasciò Napoli nel 1610, mentre, come è noto, Finson farà una lunga peregrinazione dopo il 1612, fra Provenza, Montpellier, Tolosa e Parigi, per giungere ad Amsterdam, a casa dell’amico, intorno al 1615. Si ridimensiona molto il ruolo di spregiudicato mercante (e anche di falsario) che spesso viene assegnato a Finson, che invece a mio parere risulta essere – nel caso delle opere di Caravaggio che possedeva – un custode rispettoso e appassionato. Fino alla fine egli le detiene, insieme alla Crocefissione di sant’Andrea (per me il dipinto Back-Vega, in cui a mio avviso è da riconoscere un altro originale del Merisi), e non se ne distacca in tutti quegli anni, malgrado le innumerevoli occasioni per poterle vendere che si saranno presentate.
Un altro tema che ci aiuta a capire meglio il comportamento di Finson trova ulteriori stimoli nella mostra, dove sono esposte le due Maddalene, copie della Maddalena che Caravaggio eseguì al termine del suo secondo tempo napoletano e che portò con sé sulla feluca nel suo ultimo viaggio. Di questo dipinto si sa solo che – pochi giorni dopo la morte del Merisi – ritornò a Napoli presso il palazzo della marchesa Costanza Colonna, che dovette detenerlo provvisoriamente; poi non abbiamo più tracce antiche di esso. Delle due copie di Finson, una è conservata presso il Musée des Beaux-Arts di Marsiglia ed è firmata, l’altra, ugualmente firmata dal pittore, e anche datata (1613), si trova oggi in una collezione privata maltese.
Due sono le osservazioni importanti da formulare; la prima è di natura stilistica. Nonostante si tratti di copie, il linguaggio di Finson emerge lo stesso, cosicché – anche se non ci fossero le firme – non avremmo esitazioni a escludere una possibile autografia caravaggesca e la mano del pittore di Bruges si sarebbe forse potuta riconoscere; il punto è decisivo perché rivela come il Finson copista di Caravaggio sia ben riconoscibile e come non possano esserci dubbi sulla non autografia del Merisi. L’altra considerazione riguarda ancora una volta il comportamento dell’artista: vista la sorprendente fisionomia di Finson collezionista di dipinti del Merisi (più che mercante, come ho cercato di mostrare nel volume dedicato alla Crocefissione Back-Vega del 2016), mi pare lecito supporre che egli fosse venuto in possesso anche della Maddalena e che dunque egli l’avesse con sé, davanti ai suoi occhi, mentre ne eseguiva le copie oggi a Marsiglia e a Malta (da rilevare che sono riemerse altre anonime, copie, provenienti dalla Francia). Finson, quando redige le copie, non ha alcuna intenzione di farle passare per originali: le firma e addirittura quella di Saint Remy viene datata a tre anni dalla morte del Caravaggio. Finson non è un falsario insomma, dichiara apertamente il suo intento di copista, o, nella peggiore delle ipotesi, utilizza una creazione del Merisi spacciandola per propria, ma, per quanto mi pare di capire del suo comportamento, è la prima opzione quella più credibile, visto che verosimilmente aveva con sé l’originale e l’avrà mostrato agli appassionati. Non dimentichiamo che la leggenda vuole che in Provenza sia approdata Maddalena e nei suoi ultimi trent’anni di vita abbia dimorato nella grotta di Saint Beaume: possibile dunque che – anche in questa ottica – Finson volesse divulgare quella immagine del Caravaggio che aveva portato con sé.
Che le copie di Finson da dipinti del Caravaggio fossero dichiarate mi pare che possa dimostrarlo anche la comparsa ad Amsterdam nel 1630 di una copia della Madonna del Rosario (che Finson aveva posseduto fino alla morte, come si è visto, avendo probabilmente il tempo di copiarla, magari ad Amsterdam); l’opera viene venduta con l’expertise di tre pittori olandesi che attestano come la tela sia stata eseguita da Finson e sia una copia dal Caravaggio. L’acquirente, che paga l’opera seicento fiorini, compra il quadro come Finson e vuole conferma che esso sia lo stesso che è stato espertizzato dai tre artisti. Questo mi fa pensare (e mi pare che non ci si sia soffermati su questo punto) che l’expertise possa essere stato redatto anche molto tempo prima di tale vendita, magari più o meno nello stesso tempo dell’altro relativo alla Crocefissione di Sant’Andrea Back-Vega, cioè in anni (1617-1619) in cui – sembra abbastanza chiaro – molte opere appartenute a Finson e a Winck (che muore due anni dopo l’amico, nel 1619) dovettero essere immesse sul mercato e valutate. Lo dimostra, secondo me, la richiesta dell’acquirente (il dipinto doveva essere lo stesso al centro dell’expertise in favore di Finson), che sarebbe poco sensata se l’attribuzione fosse stata formulata in tale occasione. Logico dunque pensare che i tre esperti sapessero, per conoscenza diretta, più che per motivi stilistici, che il quadro era una copia e come tale Finson lo aveva sempre presentato.
Gianni PAPI Firenze giugno 2019