di Nica FIORI
La Madòn de la Neve è una Madonna / diverza assai da la Madòn de Monti, / da quell’antra vicina a Tor de Conti / e da quella der Zasso a la Ritonna.
Con questi versi Giuseppe Gioachino Belli inizia il suo sonetto dedicato allo straordinario episodio della nevicata del 5 agosto a Roma, dove, sempre secondo il Belli
nevigò in zimetria su lo sterrato / fra Villa Strozzi e ‘r Palazzo Caserta. / E intanto un Papa s’inzognò un sprennore; / e «Va’», s’intese dì: «dov’ha fioccato / fa’ frabbicà Santa Maria Maggiore».
Narra la leggenda che la nevicata fu preannunciata in sogno dalla Madonna. Non dobbiamo stupirci più di tanto perché l’idea del sogno come fonte di rivelazione divina è sempre stata presente in tutte le civiltà. La ritroviamo nell’Odissea, nella Bibbia e perfino in una stele egizia posta da Tutmosi IV tra le zampe della Sfinge di Gizah.
Lo stesso cristianesimo si impose nel mondo romano grazie al sogno di Costantino prima della battaglia contro Massenzio a ponte Milvio, nel 312, quando gli apparve una croce con la scritta in greco en touto nika (corrispondente al latino in hoc signo vinces). Costantino adottò il simbolo di Cristo come suo vessillo e da allora la religione di Cristo continuò a prosperare e a diffondersi con l’aiuto di altri sogni.
Tra i più poetici è sicuramente quello all’origine della fondazione della basilica di Santa Maria Maggiore. La tradizione narra che, nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 358, il patrizio Giovanni vide in sogno la Vergine Maria, che gli ordinava di erigerle una casa nel luogo in cui l’indomani avrebbe trovato della neve.
La cosa straordinaria fu che papa Liberio (352-366) nella stessa notte ebbe la stessa visione.
Il giorno dopo la punta più alta dell’Esquilino era ricoperta da una candida coltre di neve, e allora Liberio fece tracciare su di essa il disegno della basilica, che il ricco patrizio finanziò. E fu così che il colle Esquilino, che nell’antichità era stato a lungo malfamato, venne consacrato alla Madonna, ergendosi al tempo stesso come baluardo contro l’eresia ariana e in seguito contro quella nestoriana.
La primitiva basilica Liberiana venne poi sostituita, al tempo di Sisto III (432-440), da una più grande basilica intitolata alla Madre di Dio, per festeggiare la proclamazione della maternità divina al concilio di Efeso del 431.
Santa Maria Maggiore è una delle quattro basiliche giubilari ed è considerata la madre di tutte le chiese mariane di Roma e del mondo. In realtà altri due edifici sacri romani le contendono questo primato: Santa Maria in Trastevere e Santa Maria Antiqua. Quest’ultima, scoperta nel 1900 sulle pendici del Palatino, è sicuramente posteriore alla basilica esquilina, essendo stata fondata nel VI secolo all’interno di un quadriportico del palazzo imperiale, ma vantava la più antica icona della Vergine, poi trasferita a Santa Maria Nova (basilica attualmente dedicata a Santa Francesca Romana), dopo l’abbandono dell’Antiqua a seguito del terremoto dell’847.
Santa Maria in Trastevere, invece, è anteriore come edificio di culto, e probabilmente anche come dedicazione a Maria. Qualche dubbio è legato al fatto che si chiamava un tempo titulus Iulii, perché fu fatta costruire da papa Giulio I (336-352), su una precedente domus ecclesia risalente al tempo di Callisto I. Ma anche Santa Maria Maggiore era designata inizialmente come basilica Liberiana.
Solo un secolo dopo venne intitolata alla Madre di Dio e a partire dal VII secolo è attestata nei documenti come S. Maria Maggiore, o anche Sancta Maria ad Praesepe, perché vi sono conservate le reliquie della grotta di Gesù, in particolare la mangiatoia (intorno alla quale sarà poi realizzato il presepe di Arnolfo di Cambio). Un altro appellativo è quello di S. Maria ad Nives, con l’evidente riferimento alla miracolosa nevicata estiva.
Nella basilica, all’interno della cappella Paolina, così detta perché fatta costruire da Paolo V Borghese, si venera l’icona mariana forse più nota della città, la Salus populi Romani (cioè “Salvezza dei Romani”). Portata probabilmente dall’Oriente per essere sottratta agli iconoclasti, essa fu subito considerata come la principale patrona della città. La sua datazione è però incerta (IX-XII secolo). Una leggenda vuole che fosse stata portata in processione da San Gregorio Magno, durante la pestilenza del 590 (ma si trattava più probabilmente di quella più antica conservata nella basilica di Santa Francesca Romana, databile al VI secolo); in quell’occasione sarebbe apparso l’arcangelo Michele sul mausoleo di Adriano. La stessa immagine, tenuta da papa Leone IV (847-855), avrebbe domato quell’incendio di Borgo che Raffaello dipinse nelle Stanze Vaticane ispirandosi all’incendio di Troia descritto nell’Eneide. Un altro miracolo che le si attribuisce è la liberazione da un’epidemia di colera nel 1837.
Innumerevoli sono i pregi artistici della basilica esquilina, che non stiamo ad elencare, e gli aneddoti che la riguardano. Ricordiamo solo che qui è sepolto Gian Lorenzo Bernini, che vi lavorò insieme al padre Pietro, e che il soffitto della navata centrale è rivestito con il primo oro portato in Europa dopo la scoperta dell’America e donato dai reali spagnoli. La sua architettura maestosa emerge inconfondibile nel panorama urbano con le sue due cupole e il campanile più alto di Roma. Ma per il popolo essa è rimasta legata soprattutto al leggendario miracolo della neve, che viene rievocato durante la messa del 5 agosto con una cascata di petali bianchi e dal 1983 anche con una nevicata artificiale nella piazza antistante la basilica.
Lo straordinario evento venne raffigurato alla fine del XIII secolo, sotto Nicolò IV, nei mosaici che i cardinali Giacomo e Pietro Colonna fecero eseguire a ornamento della facciata, in parte coperti dalla loggia delle benedizioni voluta da Benedetto XIV nel 1743 (opera di Ferdinando Fuga).
Si accede alla loggia, solo con visita guidata, dal portico che si apre nella facciata del Fuga, attraverso la scala sulla sinistra. Quattro angeli settecenteschi in marmo e bronzo dorato, di Pietro Bracci, inquadrano le due porte di accesso: coronavano un tempo il baldacchino nella chiesa e sono stati portati nella loggia nel 1932, in seguito ai restauri promossi da Pio XI per consentire una migliore visione del mosaico absidale.
I mosaici della facciata, pur molto restaurati, ci colpiscono per la ricchezza cromatica e la finezza miniaturistica, sia nelle figure umane sia nelle complesse architetture che vi sono raffigurate. Superiormente in un clipeo con fondo azzurro stellato è raffigurato Cristo in trono con la mano benedicente e con il vangelo di Giovanni aperto, dove si legge EGO SVM LVX MVNDI QVI.
Il clipeo è sorretto da angeli ed è affiancato a sinistra dalla Vergine e dai santi Paolo e Giacomo, a destra dai santi Giovanni Battista, Pietro e Andrea. Il tutto è scandito da tre archi della balconata, che tagliano la composizione e nascondono i santi collocati alle due estremità, Girolamo e Mattia.
Lo stile, di impostazione tradizionale, è vicino a quello dell’Incoronazione della Vergine del catino absidale (XIII secolo) della basilica, che è opera di Jacopo Torriti.
L’autore di questi mosaici è Filippo Rusuti, che si è firmato sotto il Cristo con le parole PHILIPP. RVSVTI FECIT HOC OPVS. Rusuti è uno dei grandi protagonisti della scuola romana tra Duecento e Trecento, insieme a Torriti e a Pietro Cavallini, ed è salito di recente all’onore della cronaca, perché a lui è stata attribuita l’icona della Madonna col Bambino di Santa Maria del Popolo, nel corso del restauro del 2018.
Nel registro inferiore della parete mosaicata, dove si aprono delle finestre circolari, sono illustrati gli episodi relativi al miracolo della neve: andando da sinistra a destra troviamo quattro riquadri, ognuno con didascalia musiva, che raffigurano la Visione di Papa Liberio, la Visione del patrizio Giovanni, Il patrizio Giovanni davanti a Papa Liberio, Papa Liberio traccia le fondamenta della basilica. In quest’ultima scena si vede sulla destra la nevicata sull’Esquilino.
Ed è proprio la Vergine con il Bambino a stendere un drappo con il disegno di tanti fiocchi di neve. Un altro particolare che ci colpisce è il prezioso vestito azzurro, decorato a crocette, che il patrizio Giovanni indossa sia quando dorme nel suo letto, sia quando si trova davanti al pontefice. Ma anche Liberio ha lo stesso vestito che ricorda il cielo stellato in tutte le scene in cui appare, anche se coperto nelle ultime due da un mantello verde.
Le quattro scene sono inquadrate da una finta architettura a mensole su pilastri in scorcio, che sembra implicare la conoscenza dell’analoga soluzione giottesca ad Assisi. Suggestiva è la resa della chiesa gotica dove avviene l’incontro tra i due. Alcuni storici dell’arte ritengono che il registro inferiore del mosaico sia da ritenersi un intervento successivo di qualche anno a quello superiore e attribuibile a seguaci del Rusuti che lo realizzarono sui suoi disegni, ma in assenza del maestro. Si potrebbe forse anche dare credito a Giorgio Vasari, quando riferisce che Gaddo Gaddi fu chiamato nel 1308 a Roma, dove tra le altre cose avrebbe lavorato “aiutando a finire alcune storie che sono nella facciata di S. Maria Maggiore di musaico”. Ma potrebbe anche essere che Filippo Rusuti, dopo aver interrotto il lavoro per recarsi in Francia, al servizio di Filippo il Bello, lo avesse proseguito al suo rientro con uno stile più moderno.
Ulteriori riferimenti all’evento miracoloso presenti nella basilica sono il rilievo dorato di Stefano Maderno sul frontespizio dell’altare della Cappella Paolina, raffigurante Papa Liberio che traccia il perimetro della basilica e nell’altare Patrizi (il primo a destra entrando in chiesa, prima della cappella con il Battistero), una tela secentesca di Giuseppe Puglia, detto il Bastaro, che raffigura Il sogno del patrizio Giovanni, il “patrizio” da cui discenderebbe la nobile famiglia romana.
Niva FIORI Roma Agosto 2019