di Nica FIORI
Viterbo, la città dell’alto Lazio che nel periodo del suo massimo splendore ha visto transitare tra le sue mura papi e imperatori, ha come patrona Santa Rosa, morta nel 1251 a soli 18 anni.
La sua festa culmina la sera del 3 settembre con il trasporto della “macchina di Santa Rosa”, un altissimo pinnacolo luminoso che viene portato a spalle da 100 facchini vestiti di una tunica bianca fasciata di rosso. Il suo trasporto vuole rievocare la traslazione del corpo della santa da parte di papa Alessandro IV (nel 1258) nel monastero delle Clarisse, ma già prima papa Innocenzo IV, al quale Rosa era apparsa in sogno, l’aveva fatta riesumare dalla sua prima sepoltura per portarla nella chiesa del monastero e ne aveva avviato la canonizzazione.
Nel Monastero di Santa Rosa, i cui ambienti da poco restaurati accolgono reliquie e interessanti ex–voto con la raffigurazione di numerosi miracoli della santa, si è inaugurata, pochi giorni prima della sua festa, la mostra “Tessere la speranza. Il culto della Madonna vestita nella Tuscia”, un’esposizione che ci parla di devozione popolare attraverso i preziosi vestiti sette-ottocenteschi delle Madonne e del Bambinello e della riscoperta e dei restauri di Madonne e di abiti dimenticati.
La mostra, realizzata dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale, diretta da Margherita Eichberg, è curata dalla stessa Eichberg e da Luisa Caporossi e Marcello Arduini. È l’ultima edizione del progetto espositivo “Tessere la speranza”, ideato nel 2016 dall’allora soprintendente Alfonsina Russo, in seguito al recupero, effettuato dalla Soprintendenza, della Madonna del Rosario (inizi del XVIII secolo) conservata nella Chiesa di S. Andrea Apostolo a Vallerano (Viterbo), danneggiata dal sisma del 30 ottobre 2016.
L’intento è stato quello di illustrare per la prima volta le creazioni artistico-artigianali realizzate da donne e monache per vestire i simulacri mariani presenti sugli altari e nelle sacrestie di molte chiese, in particolare del centro e del meridione d’Italia, nel segno emblematico della “speranza”, perché la tessitura, con i suoi gesti ripetitivi, può essere considerata una metafora della preghiera, e quindi della richiesta che si rivolge speranzosi alla Madre di Dio per ottenere una grazia.
Il vestito, inoltre, ha sempre avuto una valenza altamente simbolica e richiama lo status e la predisposizione interiore del fedele a compiere un’azione: basti pensare all’abito nuziale o a quello del penitente. Santa Rosa, che era povera e malata, è stata più volte raffigurata con un saio da penitente, ma nel polittico quattrocentesco di Francesco d’Antonio Zacchi detto il Balletta, nella chiesa di Santa Rosa, indossa invece un prezioso abito e una corona di rose, come per unirsi in matrimonio con Cristo.
Gli abiti delle Madonne vestite sono quasi sempre preziosi, principeschi, perché Maria deve splendere come una regina, ma, quando è raffigurata come Addolorata, è per lo più vestita di nero.
I nomi sotto i quali è venerata la Madonna nel Lazio sono innumerevoli: basti pensare alla Madonna Immacolata, all’Assunta, all’Annunziata, alla Madonna della Pietà, all’Addolorata, alla Madonna delle Grazie, alla Madonna del Buon Consiglio, alla Madonna del Rosario, come pure a quella della Misericordia, del Parto, del Latte, di Loreto e del Carmine. Nella mostra viterbese possiamo ammirare i vestiti della Madonna della Stella di Oriolo Romano (VT) che vanta un corredo di oltre 23 abiti, donati nel passato per lo più dalle principesse Altieri: vestiti che tuttora vengono fatti indossare a turno al simulacro che viene esposto sull’altare dal 14 agosto all’8 settembre. Un altro titolo che ci colpisce è quello della cosiddetta Madonna di Maggio (Refugium Peccatorum) di Canepina (VT), il cui manichino (con testa, mani e piedi in cartapesta dipinta) è seduto, con accanto il Bambino, e indossa un vestito settecentesco di seta color avorio con ricami e merletti in oro. Ma le Madonne più presenti sono sicuramente quelle del Rosario e le Addolorate. Ricordiamo che l’invenzione del rosario venne attribuita a San Domenico (1170-1221) dai primi storici dell’ordine da lui fondato, ma l’istituzione della festa è legata a Pio V in seguito alla vittoria dei cristiani contro i turchi a Lepanto il 7 ottobre del 1571. L’Addolorata si ricollega invece all’istituzione della festa dei Sette Dolori da parte di Innocenzo XI (1688).
La mostra si articola in una prima sezione dedicata ai culti attivi nel viterbese. Ammiriamo tra le altre la Madonna delle Grazie di Capranica, quelle del Rosario di Vignanello (dove di solito è occultata dietro un quadro) e di Vetralla, che ci colpisce anche per la bella acconciatura che ricorda quella della Korai greche, e l’Assunta di Vitorchiano con la sua macchina processionale.
Sono esposte pure le Addolorate di Valentano, di Vasanello e quella di Gallese con sette spade. La massima diffusione del culto delle Madonne vestite si ha tra il XVIII e il XIX secolo, mentre nel XX secolo incontra l’opposizione più o meno esplicita di alcuni vescovi.
Una seconda sezione è dedicata ai simulacri dimenticati e abbandonati, delle quali la comunità si è riappropriata dopo il ritrovamento, adoperandosi per il restauro. Nei casi in cui il simulacro ha perso la sua sacralità è possibile ammirare anche i manichini, per lo più settecenteschi, talvolta molto semplici e talvolta invece dotati di elaborati congegni che consentono il movimento di braccia e gambe. Oltre ai vestiti veri e propri, sono esposti anche bustini e scarpine che rispecchiano la moda della loro epoca. La Madonna ha sempre un volto bellissimo che esprime dolcezza, grazia e, nel caso delle Addolorate, sereno dolore.
Chiude la mostra una sezione dedicata ai culti domestici: statue di proprietà privata, o anche di una chiesa date in custodia temporanea, e talvolta permanente, a una famiglia. Sono esempi che testimoniano la complessità di un culto intimo e di un rapporto diretto col divino.
Nel viterbese ricerche pionieristiche sull’argomento della Madonne vestite sono iniziate più di venti anni fa e hanno consentito la catalogazione e lo studio di un centinaio di esemplari con i rituali ad essi connessi.
Le sale che accolgono la mostra sono note come Sala delle Colonne e Sala del Quattrocento. In quest’ultima tra lo stupore di tutti, durante i lavori di restauro, è apparsa una Santa filatrice, un dipinto del Quattrocento con una minuta figura che tiene un fuso, forse Santa Filomena o Santa Panacea, ma potrebbe anche trattarsi di Maria bambina che fila la porpora nel tempio: un’immagine che sembra quanto mai emblematica di quella amorosa tessitura che ha portato alla creazione di celestiali preziosi tessuti per adornare la Madre di Dio.
Nica FIORI, Viterbo settembre 2019
“Tessere la speranza. Il culto della Madonna vestita nella Tuscia”
Monastero di Santa Rosa, via di Santa Rosa, Viterbo. Dal 31 agosto al 26 ottobre 2019
Orari: 9,30 – 12,30, 15,30 – 18, 30