di Nica FIORI
Santorini, nota per il suo eccezionale paesaggio vulcanico che si staglia sull’azzurro Egeo, è stata chiamata da Erodoto Kallistè, ovvero “la bellissima”; conosciuta con il nome di Thera fino al XIII secolo, fu ribattezzata in seguito dai veneziani con il nome della santa protettrice, Sant’Irene, poi corrotto in Santerini e Santorini. Ma, insieme col nome, l’isola ha più volte mutato aspetto per i suoi fenomeni geologici. Inizialmente circolare, con una laguna interna e un ampio cratere, ha assunto nel tempo una forma semicircolare per le eruzioni che hanno fatto collassare la caldera dal lato occidentale.
Akrotiri, l’antica città insulare, distrutta nel 1613 a.C. e riportata alla luce nel 1967, può trasmettere “le stesse percezioni che si hanno passeggiando per Pompei, anzi, in qualche modo più accentuate, per via della freschezza degli scavi”, come scrive Mauro Tozzi nella breve pubblicazione ”Eruzioni che fanno la storia”, che viene offerta in omaggio ai visitatori della mostra “Pompei Santorini. L’eternità in un giorno”, ospitata nelle Scuderie del Quirinale fino al 6 gennaio 2020.
Curata da Massimo Osanna, Direttore del Parco Archeologico di Pompei, e da Demetrios Athanasoulis, Direttore dell’Eforia delle Antichità delle Cicladi, con Luigi Gallo e Luana Toniolo, l’esposizione propone un confronto inedito tra le due antiche città, accomunate da un’identica fine e celate alla vista fino alla loro riscoperta.
Riscoperta che per Pompei risale al 1748, quando Carlo III di Borbone diede il via agli scavi di quella che sarebbe diventata la “capitale archeologica” d’Italia, anche se ritrovamenti fortuiti di monete e di alcuni resti di edifici si datano alla fine del XVI secolo.
“Di tutte le catastrofi del mondo, nessuna ha provocato tanta gioia alle generazioni seguenti, come la distruzione di Pompei”,
constatò cinicamente Goethe, che visitò gli scavi durante il suo viaggio in Italia e ne rimase profondamente colpito.
E, come lui, innumerevoli viaggiatori stranieri che compivano il Grand Tour alla ricerca di quelle intense emozioni, che puntualmente riportavano in innumerevoli diari e lettere, disegni e ricordi. L’esistenza di Pompei si è arrestata in un attimo, crudelmente, il 24 agosto del 79 d.C., eppure quell’attimo ne ha determinato l’immortalità. La coltre di cenere e lapilli con cui la ricoprì il Vesuvio fu come un sigillo calato al di sopra di case, templi, taverne, terme: uno strumento di sterminio per i suoi abitanti, ma anche un coperchio protettivo che avrebbe salvaguardato la città, permettendo la conservazione di architetture, suppellettili e arredi che altrimenti sarebbero andati perduti.
Anche per Akrotiri gli scavi hanno svelato la vita della città di 3500 anni fa, appena intaccata dalla cenere grigiastra di impalpabili frammenti vulcanici. Diversamente da Pompei, come scrive Mario Tozzi,
“Gli abitanti non sono stati sorpresi dall’evento, che doveva essere stato preannunciato quantomeno da squassanti terremoti e da colonne di ceneri: hanno fatto in tempo a fuggire, ma le dimensioni della caldera che è rimasta non lasciano dubbi sulla magnitudo dell’eruzione e sulle sue conseguenze”.
In poche ore, in effetti, cambiò tutto. Il buio durò due settimane e l’inverno vulcanico almeno due anni. Un potente tsunami colpì le coste del Mediterraneo orientale, determinando forse la fine della civiltà minoica nell’isola di Creta.
Ma gli abitanti di Thera, secondo un’ipotesi, avrebbero trovato scampo in Egitto, in una località del delta del Nilo, Tell El Daba, corrispondente all’antica Avaris. Forse, secondo un’altra suggestiva ipotesi, la storia biblica delle dieci piaghe d’Egitto, raccontata nell’Esodo, potrebbe essere stata ispirata dai cambiamenti climatici causati dalle ceneri del vulcano, tutte tranne l’ultima (la morte dei primogeniti) che, non avendo spiegazioni scientifiche, potrebbe essere puramente simbolica.
La mostra, ricca di reperti antichi e di opere moderne che si rifanno in qualche modo al ricordo storico, o anche mitico, delle eruzioni vulcaniche, accomuna le due città distrutte nella prima sala, dove troviamo una “macchina del tempo”, che copre un arco di 3500 anni. I reperti di Akrotiri della tarda età del bronzo, come il pithos (un grande vaso di terracotta) decorato con gigli bianchi e un altro con scudi a forma di otto, e un affresco con tre figure femminili, fra i più antichi esempi di pittura parietale in Europa,
dialogano con i vasi bronzei provenienti da Pompei, che portano le tracce dei lapilli vulcanici incrostati sul bordo, e con i calchi dei corpi di una coppia di pompeiani, accostati a una scultura in pietra di Finale di Arturo Martini, L’Uomo che beve (1934-35).
Proseguendo il percorso ci incantiamo davanti alla raffinatezza di architetture pompeiane, tra cui un ninfeo con nicchione mosaicato, arricchito ai lati da nicchie e da erme su pilastri, e un larario con la raffigurazione ad affresco dei Lari, protettori della casa, e di due serpenti, uno dei quali con una sorta di cresta (identificativa del maschio), che avevano la funzione apotropaica di allontanare gli spiriti maligni. Tra gli affreschi che ammiriamo ci sono quelli di Dioniso e Arianna a Nasso, Le nozze di Alessandro Magno con Rossane, Venere su una quadriga trainata da elefanti
Altri importanti reperti di area vesuviana sono la cassaforte con decorazioni applicate in bronzo, ferro, argento e rame, l’Efebo portalucerna in bronzo, vasellame d’argento, gioielli e la scultura in marmo raffigurante Ermafrodito aggredito da un satiro (da Torre Annunziata). Alberi carbonizzati rievocano l’evento insieme al gigantesco acrilico su tela Vesuvius (1985) di Andy Warhol, mentre uno straordinario rilievo in marmo ritrovato a Pompei ritrae gli effetti del precedente terremoto del 62 d.C. nel Foro di Pompei.
Al piano superiore troviamo affreschi e numerosi oggetti decorati, che testimoniano la grande ricchezza di Akrotiri, le abitudini alimentari, i miti, i rituali e le occupazioni dei suoi abitanti, come nel caso dell’affresco detto “dei Giovani Pescatori”. Sono reperti che vengono esposti per la prima volta al di fuori della Grecia con l’obiettivo di promuovere il patrimonio archeologico delle Cicladi.
Tra gli oggetti più particolari della tarda età del bronzo sono le brocche mammillate, usate a Thera nelle libagioni, il calco di un tavolo ligneo intagliato, il forno portatile tripodato con frammenti del coperchio.
Tra i decori alcuni raffigurano elaborati sfondi naturali, con fiori appartenenti a stagioni e luoghi diversi, impiegati come simbolo di fertilità.
La presenza nel decoro di una “vasca” di ramoscelli di mirto e di croco, piante sacre alla greca Afrodite, rimanda forse al culto di una dea della fecondità.
Sicuramente l’isola praticava un intenso commercio via mare con gli altri paesi dell’Egeo e del Mediterraneo, trasmettendo un carattere cosmopolita alla popolazione, ma sicuramente il legame più forte si aveva con la vicina isola di Creta.
Un ampio settore è dedicato alle copie dei calchi dei corpi di uomini, bambini e animali (come il cane incatenato) morti a Pompei: sono stati realizzati con una tecnica, ideata nel 1863 dall’allora direttore Giuseppe Fiorelli, consistente in colature di gesso liquido entro gli stampi naturali formati dalle ceneri.
Anche qui, come nella sala iniziale, il confronto è con opere di artisti del Novecento. Del resto lo sconvolgimento emotivo, che questi calchi trasmettono, ha segnato profondamente le opere di alcuni artisti, tra cui Alberto Burri, Francesco Simeti e Hans Op De Beeck. Accanto al calco di un uomo con un bambino, è esposto un piccolo ma significativo bronzo di Medardo Rosso. Si tratta del Bambino malato, realizzato tra il 1889 e il 1893, che accenna appena i tratti somatici del volto raffigurato, proprio come nei gessi pompeiani.
L’ultima parte espositiva riguarda il tema del vulcanesimo nell’arte, molto ricercato a partire dal Settecento. La riscoperta di Pompei, la cui catastrofe era stata descritta da Plinio il Giovane in una lettera allo storico Tacito (è in mostra un’edizione delle sue Epistolae del 1492), ha indubbiamente colpito diversi artisti, come pure letterati, musicisti (pensiamo al Flauto magico di Mozart, composto dal sommo musicista dopo aver visto l’Iseo di Pompei) e registi cinematografici (ad es. Sergio Leone e Mario Bonnard, che nel 1959 diressero il film Gli ultimi giorni di Pompei, basato sul romanzo del 1834 di Edward Bulwer-Lytton). In mostra sono esposte poche opere scultoree, tra cui In fuga da Pompei, un marmo del 1873 di Giovanni Maria Benzoni,
mentre sono più numerose quelle pittoriche, come la tela di Pierre-Jacques Volaire, del 1779 ca., raffigurante L’eruzione del Vesuvio,
titolo che ritroviamo anche in un acquerello di J. M. William Turner. Un grande dipinto del 1983 di Renato Guttuso raffigura invece l’Eruzione dell’Etna, con le sue colate di lava infuocata: un’eruzione ben diversa da quella catastrofica del Vesuvio che è consistita in fuoriuscita di gas, cenere e lapilli a Pompei, e fiumi di fango sul versante di Ercolano, dovuti alle ceneri bollenti che si impastarono con l’acqua di una pioggia torrenziale. Sembra alludere al mito di Atlantide (da identificare secondo alcuni con l’isola di Thera) un acquerello del 1939 di Andrej J. Beloborodov, intitolato La città sommersa, parte della serie “La grande Isola”.
Un dipinto del 1636 di Domenico Gargiulo, più conosciuto come Micco Spadaro, raffigura la Processione con le reliquie di San Gennaro ed eruzione del Vesuvio del 1631. Quell’eruzione del 16 dicembre 1631, pur terrificante, risparmiò miracolosamente la città di Napoli e da allora il 16 dicembre è considerato la “festa del patrocinio di San Gennaro”, un santo decisamente popolare nella città partenopea, anche se è stato declassato dalla Chiesa nel 1969 con grande disappunto dei suoi fedeli. Del resto questo santo, cha avrebbe subito il martirio sotto Diocleziano nel 305 nella solfatara di Pozzuoli, uno dei numerosi crateri vulcanici dei Campi Flegrei, ci appare quanto mai adatto per proteggere tutta quell’area campana dai fenomeni vulcanici e sismici che la caratterizzano.
Altri dipinti, infine, riguardano gli scavi, come quello del 1865 di Edouard Sain Fouilles à Pompéi (Scavi a Pompei) e quello di Filippo Palizzi Fanciulla pensierosa negli scavi di Pompei,
dove è raffigurato sulla destra un affresco che riaffiora dalla terra. Sono entrambe opere che simboleggiano idealmente la rinascita dalle ceneri di una città che, come l’araba fenice, diventa eterna, immortale. Sensazione evocata in mostra anche dall’incipit di una poesia di Rimbaud:
Elle est retrouvée. / Quoi? L’Eternité
“POMPEI E SANTORINI. L’eternità in un giorno”
Roma, Scuderie del Quirinale, fino al 6 gennaio 2020
Orari: da domenica a giovedì dalle 10 alle 20; venerdì e sabato dalle 10 alle 22,30. Ultima entrata un’ora prima della chiusura.
Biglietti con audioguida inclusa: intero € 15; ridotto € 13; ridottissimo € 2; gratuito per gli under 6
Sono previsti laboratori didattici e incontri culturali a tema, nelle Scuderie e nel Teatro Argentina (fino a esaurimento posti)