di Giulia SANTORO
Giulia Santoro (Roma, 1991) si è laureata a Roma presso l’Università la Sapienza con una tesi sperimentale su una serie di arazzi seicenteschi di manifattura inglese incentrati sulle storie del Don Chisciotte. Durante la sua carriera universitaria si è specializzata in Iconografia ed Iconologia del Cinquecento e Seicento, con un particolare focus sull’interscambio culturale e stilistico tra arte italiana ed arte fiamminga; ha trascorso un semestre a Gand presso l’Universiteit Gent (Università di Gand) dove ha svolto esami ed approfondimenti sull’arte fiamminga tra il 14° e 17° secolo. Dopo la laurea ha trascorso 5 mesi ad Oxford dove ha catalogato e digitalizzato circa 300 disegni cinquecenteschi e seicenteschi dell’Ashmolean Museum. A dicembre del 2018 risulta tra i vincitori di borsa di studio per un master sul management delle risorse artistiche e culturali presso la Libera Univerità di Lingue e Comunicazione IULM. Attualmente è impegnata presso la casa d’aste Finarte di Roma, nel dipartimento di dipinti e disegni antichi; collabora con la piattaforma online Lot-Art al servizio di consulenza sugli acquisti e investimenti in opere d’arte; ha pubblicato vari articoli incentrati sugli Old Masters e sul mercato dell’arte. Con questo articolo inzia la sua collaborazione con About Art
Psicomachie neoplatoniche nell’arte rinascimentale.
Nel corso del Quattrocento, i dipinti a soggetto mitologico, tratti per lo più dalle Metamorfosi di Ovidio, divennero i principali portatori della speculazione neoplatonica, testimoniando l’importanza che ricoprì questa corrente filosofica nelle arti figurative.
Marsilio Ficino, patriarca della famosa Accademia platonica di Careggi, elaborò un sistema filosofico volto principalmente ad armonizzare la teologia cristiana con la filosofia pagana di matrice platonica. Questo ambiente erudito divenne un vero e proprio centro dell’allegoresi rinascimentale, dove i miti antichi acquisirono nuovi significati edificanti e gli dèi divennero paradigma di vizi e virtù.
Una delle opere più celebri dove sono riscontrabili chiari rimandi al Neoplatonismo è il dipinto di Botticelli Pallade che doma il Centauro conservato nella Galleria degli Uffizi (fig. 1). L’ artista era vissuto proprio in quel clima letterario e artistico della Firenze di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, il quale non solo rappresentava una delle personalità più influenti della cerchia neoplatonica, ma ne divenne uno dei più emblematici protagonisti. Il Gombrich ha inoltre dimostrato con ampiezza di argomenti che nelle iconografie botticelliane vi sia un chiaro rimando ad un vero e proprio programma elaborato da Marsilio Ficino, mentore spirituale dello stesso Lorenzo de’ Medici.
Uno dei temi che emerge dall’ opera di Ficino è quella della posizione dell’uomo tra il bruto e Dio. Mentre le parti inferiori dell’anima si ricollegano al mondo del corpo e dei suoi sensi (Anima Inferiore), la regione più nobile dell’anima partecipa al divino (Mens), e la ragione umana (Ratio), che è la prerogativa essenziale dell’uomo, sta nel mezzo. Sulla base di ciò, l’anima di ogni uomo è ritenuta dai neoplatonici in costante lotta tra i moti inquieti dell’istinto animale e irrazionale e le nobili aspirazioni della ragione.
Il significato dell’opera di Botticelli presa in analisi si presta perfettamente ad un’interpretazione in chiave neoplatonica: la contrapposizione tra l’essere mitico metà uomo e metà animale e la bellissima dea rappresenterebbero un’allegoria della Mente che contrasta gli istinti incontrollati dell’anima. Il centauro è, infatti, armato di arco e frecce, emblemi degli impulsi animali, e Minerva-Mens, nata dal sommo della testa di Giove creatore, afferra l’anima alla sua testa.[1]
Il paesaggio sullo sfondo, con le vistose rocce scheggiate da una parte ed il limpido paesaggio lagunare dall’ altra, non sembra un comune fondale decorativo, ma rimanda piuttosto all’ espediente del “paysage moralisè” comune in scene allegoriche del tipo Ercole al bivio e, psichomachie che vedono in lotta due opposte tendenze.
Il dipinto del Botticelli rappresenterebbe così una vera e propria psychomachia di tipo neoplatonico, ma più che una lotta tra Minerva e il Centauro, è un conflitto che avviene all’ interno del mostro. Se si guarda l’opera in questa luce, è possibile comprendere anche l’espressione afflitta del Centauro e lo sguardo che egli fissa su Minerva, incarnazione della Sapienza divina. Essa gentilmente lo afferra per il capo per calmare il suo animo inquieto e per guidarlo sulla via della virtus.[2]
Un’ altra opera incentrata sul contrasto tra virtus e voluptas è un pannello da cassone di Gherardo di Giovanni di Miniato intitolata Combattimento tra Amore e Castità, oggi alla National Gallery di Londra (fig. 2).
Il ristretto, ma qualitativamente rilevante catalogo delle opere a lui ascrivibili lo rivela una figura di una certa importanza nel panorama della Firenze medicea. Esso fu, infatti, protagonista di commissioni da parte di eminenti personaggi fiorentini e fu in stretto contatto con la cerchia del Magnifico.[3]
Il presente dipinto faceva parte di un ciclo pittorico unitario teso ad illustrare il tema petrarchesco del Trionfo della Castità. Esso, infatti, oltre al combattimento tra Amore e Castità, comprendeva le scene raffiguranti il carro di Amore, la sconfitta di Amore e il Trionfo della Castità. Furono il Fahy e Federico Zeri a mettere in evidenza l’unità tematica e stilistica del pannello raffigurante il Trionfo della Castità della Galleria Sabauda a Torino con quello della National Gallery.[4]
Solitamente, nei cicli rappresentanti i Trionfi di Petrarca non veniva raffigurato il momento agonale, mentre nel caso dei pannelli del Gherardo il Combattimento tra Amore e Castità acquista una certa prominenza, rappresentando così uno dei rari esempi in cui il motivo della psychomachia è connesso al tema dei Trionfi. Nel dipinto vi sono raffigurati, sullo sfondo di un paesaggio campestre e verdeggiante, Amore nell’ iconografia di un cupido adolescente, che tende il suo arco contro la nemica Castità, la quale viene rappresentata come una fanciulla drappeggiata e armata di uno scudo decorato con gemme e di una catena che usa come frusta, in attinenza ai versi del Petrarca.[5] Quest’ importanza conferita al motivo del combattimento è probabile che debba ricollegarsi al tema neoplatonico della lotta tra un principio superiore e uno inferiore; infatti, Gherardo di Giovanni era un artista abbastanza inserito nella corte medicea, dunque non è da escludere che egli avesse attinto la sua figurazione da istanze neoplatoniche.
Un altro mito che riveste un’importanza fondamentale nelle figurazioni rinascimentali per la sua reinterpretazione in chiave neoplatonica è quello delle dodici fatiche di Ercole. Secondo l’interpretazione del Neoplatonismo quattrocentesco, che trova le sue radici già nella definizione di Cornuto (I secolo d.C.), il quale riconosce in Ercole una personificazione della “ratio in omnia diffusa”, l’ eroe superando le prove e le difficoltà imposte dalla condizione umana, rappresenterebbe il superamento della natura umana nella divina. Esso è, dunque, simbolo della lotta tra la ratio e l’ anima inferiore, secondo l’idea neoplatonica di una continua tensione dell’animo umano, sospeso tra vizi e virtù.
Quest’interpretazione in chiave neoplatonica del mito di Ercole è ravvisabile nelle celebri tele con Ercole e l’Idra e con Ercole e Anteo di Antonio del Pollaiolo, il quale entrò in stretta relazione con i Medici (figg. 3 e 4). Queste erano infatti state commissionate da Piero de’ Medici o dal figlio Lorenzo de’ Medici e furono portate nel 1495 a Palazzo Vecchio. I due dipinti, andati misteriosamente perduti, sono oggi conosciuti attraverso le piccole repliche conservate agli Uffizi, grazie alle incisioni del Robetta e alla testimonianza particolareggiata del Vasari.
Nel dipinto con l’Ercole e Anteo vi è rappresentata la drammatica lotta tra queste due figure mitologiche (fig. 3). I loro corpi inarcati in direzioni opposte e la marcata e nervosa linea di contorno conferiscono un forte dinamismo e tensione alla scena. Oggi del Pollaiolo ci rimane il bronzo del Museo Nazionale del Bargello a Firenze ricalcante lo stesso tema .
Nel dipinto con l’Ercole e l’Idra (fig. 4), lo statuario eroe dall’ accentuata muscolatura è inarcato con forza verso il mostro, del quale tiene saldamente con la mano una delle teste, mentre con l’altra solleva la clava per colpirla. Le spire dell’Idra avvolgono ancora la caviglia sinistra di Ercole, ma ormai il mostro, già privato di una testa, è sul punto di soccombere alla forza dell’eroe. La marcata linea di contorno, tesa ed elastica, sembra cogliere tutto lo sforzo prorompente dello slancio e conferisce una forte tensione alla rappresentazione.
È lecito pensare che a questi due piccoli dipinti potesse affiancarsene un terzo con l’episodio dell’uccisione del leone di Nemea; le scene con l’ Idra, Anteo e il leone sono, infatti, le uniche tre che Marsilio Ficino ricordò in una lettera scritta il 1477, in cui Ercole simboleggia la ratio che uccide Anteo sollevandolo in alto lontano dall’ influenza negativa, supera il leone che è, come sempre, simbolo dell’ iracondia, e, infine, sconfigge l’Idra, simbolo del desiderio e della passione irrazionale.[6]
Il significato delle fatiche di Ercole può dunque essere interpretato come una progressiva emancipazione dell’uomo dall’ arbitrio degli dèi e dalle passioni più violente che dominano il suo animo.
Giulia SANTORO Roma 18 ottobre 2019
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