Maria Barbara Guerrieri Borsoi ricostruisce la storia di una eccezionale quadreria nella Roma di Papa Clemente XI

P d L

LA QUADRERIA ALBANI A ROMA AL TEMPO DI CLEMENTE XI

di Maria Barbara Guerrieri Borsoi

Il volume di Maria Barbara Guerrieri Borsoi –pur definito dalla autrice nella Prefazione, come “una messa a fuoco che consentirà più specifici approfondimenti”-  è uno di quelli che s’impongono all’attenzione degli studiosi ed anche di quanti, amanti dell’arte, si appassionano a scoprire quanto il lavoro di ricerca, di ricomposizione e raccordo di dati estratti da inventari ed archivi, può far riemergere dal passato. La studiosa peraltro mostra di conoscere molto bene anche l’arte di come attrarre l’interesse del lettore, come dimostra la sicurezza con cui argomenta i vari passaggi del suo volume, a partire dalla breve ma efficace ricognizione – nel primo capitolo del libro- concernente i componenti della famiglia Albani e la costituzione della loro quadreria (cfr. Gli Albani e la Quadreria), per poi passare alle Opere e agli Artefici, un capitolo ricchissimo di novità ed approfondimenti, dove le scuole e i nomi dei principali artisti vengono passati in rassegna secolo per secolo, genere per genere, per terminare con una parte non meno importante intitolata Strumenti a Corredo, di grande rilievo documentario. Il libro insomma seppure, ed è ovvio, non sia l’unico con questa impostazione e che appare in questo precipuo ambito di studi, però certamente è uno di quelli che segna un traguardo di rilievo per una pubblicistica che concepisce la ricerca come una sorta di inchiesta e di ricognizione analitica, arrivando nel nostro caso a tratteggiare uno scenario originale e non di rado, come vedremo, piuttosto sorprendente.

Va considerato che la Guerrieri Borsoi è già piuttosto nota per le sue indagini e per le scoperte riguardanti in particolare la vita e l’attività artistica romana del XVIII secolo, tematiche portate in evidenza – un fatto che non va trascurato- anche grazie alle meritorie iniziative e pubblicazioni curate da Elisa Debenedetti, che proprio sul Settecento tiene tuttora aperta una finestra di straordinario rilievo scientifico su cui la stessa Guerrieri Borsoi è intervenuta molto spesso, seguendo una impostazione che studia il collezionismo  ancorandolo strettamente alla storia dell’arte.

Per rendersene conto basta vedere il modo in cui la nostra autrice ha saputo ricostruire e dare alla fine la giusta valenza ad una quadreria, quella della famiglia Albani, che dopo essere stata una delle più imponenti ed importanti tra quante esistevano nel corso del XVIII secolo, finì smembrata e in larga misura dispersa a seguito dell’arrivo a  Roma delle truppe napoleoniche. Ma quello che a  nostro parere occorre ancor più rimarcare, è il fatto che nel suo certosino lavoro di recuperi, valutazioni e classificazioni, l’autrice è apparsa sempre molto attenta a rimanere all’interno di una curvatura molto ben calibrata e, se possiamo dire così, assolutamente onesta, cioè senza tralasciare  ma neppure sovradimensionare il dato attribuzionistico da un lato e dall’altro non avventurandosi oltre modo in particolari letture formali, che molto spesso, nell’un caso come nell’altro, finiscono per far disperdere –appunto- le vere ragioni e le mete della ricerca storico artistica.

Sulla base di questa impeccabile impostazione, l’autrice ci dà la possibilità di individuare molte delle opere già di collezione Albani, di ripercorrerne il tragitto, di risalire alle attuali collocazioni, pubbliche e private, come se in qualche modo fossimo dinanzi alla fantastica quadreria che rimase sostanzialmente integra almeno, come dicevamo, fin quando “la situazione tracollò in modo drammatico con l’arrivo dei Francesi” che misero a sacco il palazzo alle Quattro Fontane, la villa sulla Salaria ed anche la dimora di Urbino e tutte le altre proprietà degli Albani. Al punto che nel testamento stilato nel 1815, il principe Carlo Francesco Albani (Roma, 1749 –  Modena, 1817) denunciava amaramente quella che si presentava come “una autentica devastazione dei beni della casata”.

Pier Leon Ghezzi, Ritratto di Annibale Albani, Coll. privata
Pier Leone Ghezzi, Ritratto di Carlo Albani, Stuttgart, Staatgalerie, inv. 3341

Il volume della Guerrieri Borsoi, frutto di una ricerca durata svariati anni, trae spunto “da un analitico documento redatto alla morte del Principe Carlo (il nonno del Carlo Francesco citato in precedenza, ndA) avvenuta nel 1724”, prima che la proprietà famigliare fosse implementata dai due fratelli cardinali”, cioè i due fratelli di Carlo, Alessandro e Annibale.

E’ per questo che la studiosa fa riferimento a due inventari, l’Inventario A (tra il 1710 e il 1714) e l’Inventario B (1724); in questo secondo elenco sono riportati “circa 1200 oggetti” quasi tutti dipinti e disegni, tra cui veri e propri capolavori rinascimentali ed eccezionali dipinti sei e settecenteschi, dove però non mancano anche lavori trascritti malamente come originali ed ora ricondotti da una precisa ed attenta analisi a copie ed opere di seconda mano.

Ad iniziare la collezione era stato Carlo Albani, padre del Pontefice Clemente XI, descritto come “uomo colto con un evidente interesse anche per l’arte … il quale considerava i quadri beni importanti da salvaguardare con cura”. Quadri che poi, insieme con “denari, arredi, mobili posseduti a Roma”, finirono per eredità al primo figlio, Giovanni Francesco (Urbino, 1649 – Roma 1721), “il cui destino –come scrive l’autrice- appariva già chiaramente segnato”: un destino da papa, appunto, che si concretizzò con la  salita al soglio pontificio nel 1700. Il cardinalato gli era stato conferito da Alessandro VIII Ottoboni in maniera piuttosto curiosa, a seguire il racconto di von Pastor, secondo il quale allorquando si arrivò a dover completare la lista dei nuovi dodici ‘creati’, dopo il nome dell’undicesimo parve che il pontefice avesse delle remore e comunque ulteriori momenti di riflessione, finché, rivolto all’Albani, che era allora segretario dei brevi nonché cardinale diacono, disse “Scriva dunque il dodicesimo”, e l’altro ”Ma chi, di grazia?” “Come ? –replicò il papa– non sapete nemmeno scrivere il vostro proprio nome?”

La vicenda –ammettendo che si sia svolta davvero così- ci fa capire comunque in modo piuttosto preciso quale fosse il carattere del futuro pontefice, alieno dal nepotismo (che era stata invece una delle tare più evidenti del pontificato Ottoboni), uomo generoso, ma anche assai discreto e modesto, se non si vuol dire schivo e timoroso, che certamente avrebbe preferito un pontificato pacifico e tranquillo -al contrario di quello cui dovette far fronte- o che addirittura non lo avrebbe preferito affatto, fosse stato per lui. Scrive ancora il Pastor che al momento della ascesa al soglio di Pietro “si rifiutava di accettare la nomina”, al punto che pare arrivasse a interpellare alcuni teologi romani sulla questione “se un cardinale che non si sentisse pari alla dignità del pontificato potesse con tranquilla coscienza respingere una elezione unanime”. E solo quando gli venne chiarito che “doveva accettare perché altrimenti si opporrebbe alla volontà di Dio in essa espressa” si decise a lasciare ogni remora. Era il 23 novembre 1700, giorno in cui la chiesa celebrava la festa del santo papa e martire Clemente, da qui il nome di Clemente XI. E tuttavia c’è da credere che “subito all’inizio del suo pontificato –come scrive ancora Pastor- dovette avere la sensazione che la tiara sarebbe diventata per lui una corona di spine”.

Sarà in effetti proprio così, e il primo segnale -o la prima “spina”, per dirla col Pastor- di un pontificato che sarebbe stato tutt’altro che tranquillo, fu il terremoto che sconvolse Roma appena due mesi dopo l’elezione dell’Albani, nel gennaio del 1701, un terremoto così violento che  “tutti scapparono” mentre – come raccontano le cronache del tempo-  “le campane delle chiese suonarono da sé” e  perfino “il campanello  sul tavolo del papa”.  E se pensiamo agli altri terribili eventi che si susseguirono nel corso di questo sfortunato pontificato, quali furono la sanguinosa guerra dei Sette Anni, o il sempre incombente pericolo turco (la cui minaccia si prospettò varie volte sulle coste mediterranee, perfino dinanzi al porto di Fiumicino, e con sanguinose razzie a Senigallia e Recanati), o le difficoltà politiche di ogni tipo anche con i governanti  italiani del tempo legate a questioni giurisdizionali, o ancora le calamità naturali quali pestilenze e carestie che colpirono lo stato della chiesa, per non dire delle insorgenze religiose anti o acattoliche (vedi il risorgente giansenismo in Francia dopo la morte di Luigi XIV, cui il papa reagì con una nuova scomunica che però diede vita ad una vera rivolta assecondata dall’arcivescovo di Parigi), resta difficile capire come Clemente XI abbia potuto anche solo avere il tempo per interessarsi –e neppure in maniera episodica- di questioni all’apparenza secondarie, come costituire una poderosa pinacoteca, cosa che poi continuarono a fare i suoi eredi.

Sarà pur vero, come specifica la Guerrieri Borsoi, che “il mecenatismo e il collezionismo artistico erano un obbligo sociale per qualunque grande famiglia nobile” e furono certamente utili e necessari agli Albani “per acquisire visibilità”. E tuttavia resta l’interrogativo di come il pontefice riuscisse a conciliare la ricerca e l’acquisizione di eccezionali beni artistici a fronte di situazioni come quelle poc’anzi accennate, che misero a forte rischio perfino la stessa integrità territoriale della Santa Sede, ratificandone peraltro la già conclamata inconsistenza sul piano delle relazioni internazionali. Un interrogativo cui può forse essere data risposta se si considera quella che la critica concordemente sostiene essere stata la grande passione per l’arte e la cultura del pontefice Albani  (“splendido e fastoso amatore d’arte” lo definisce Ludovico Paolo Lemme, in Personaggi della Roma colta del Settecento, edizioni Ter, 1993, p. 30) e che fu nonostante tutto sempre al centro dei suoi interessi  e della sua famiglia: non a caso Claudio Strinati ne parla come di “un formidabile esponente anche della cultura arcade” che orientò il suo pontificato “verso una esplicita e concreta ascesa al Monte della Virtù dottrinale” (cfr C. Strinati, Il Settecento, catalogo della mostra, Roma , Palazzo Venezia, 2006, p. 18) e il giudizio positivo si spinge fino a mostrarcelo assai abile “determinato a nel voler porre la città al centro di un grande programma di rinnovamento teorico-religioso ed artistico” . Vero è che riuscì  raccogliere intorno a sé “i migliori ingegni del tempo”,  al punto da generare un vero e proprio “stile”, come sostiene Maria Celeste Cola, secondo la quale lo “stile Albani” per l’appunto  “divenne nel giro di pochissimi anni una vera e propria tendenza artistica che indirizzò le arti figurative” al punto di dar vita ad “un vasto fenomeno di emulazione imposto dal Pontefice” perfino come “indispensabile strumento politico”. Uno “stile” che certo non a caso manifestò i suoi effetti  “anche tra i membri del Collegio Cardinalizio che replicarono il modello delle raccolte Albani seguendo anch’essi le tendenze classiciste teorizzate da Bellori e Maratta … nate sotto l’influenza della cultura barberiniana”. (Cfr.,  M.C. Cola, La quadreria del cardinale Qurzio Origo, mecenate e collezionista nella Roma di Papa Albani, in F. Parrilla, a cura di, Collezioni romane dal Quattrocento al Settecento, protagonisti  comprimari, Roma, 2013, pp. 129 e s.)

Si tratta di un punto molto importante per capire la logica che tutta la famiglia adottò in materia di scelte collezionistiche (e che, come si è visto, fece numerosi proseliti tra i cardinali molti dei quali non disdegnarono affatto di omaggiare il pontefice con dipinti ritenuti di suo gradimento). Qui in effetti è a nostro parere il cuore della ricerca, vale a dire nella dimostrazione che “l’interesse per l’arte e l’acquisizione di opere da parte dei vari membri della famiglia”, si svolse sempre dentro la suggestione di determinate coordinate classiche, cui fu tutt’altro che estraneo il Cardinale Origoil principale consigliere artistico del papa” ( cfr., M.C. Cola, cit, p 129), e il cui massimo interprete, come vedremo, sarà Carlo Maratti.

Prima di arrivare all’artista di Camerano però naturalmente il libro passa in rassegna gli altri ambiti e i generi oltre che gli artisti autori della grande quantità di opere che entrarono a far parte della collezione, quasi a volerne sottolineare i motivi ispiratori. Ecco dunque comparire nelle pagine dedicate agli Artisti del Rinascimento i nomi di Raffaello, dei grandi pittori veneti del Cinquecento e poi degli Autori del Cinquecento dell’Italia centrale, per finire questo primo blocco con il Barocci.

Raffaello e aiuti, Madonna del Passeggio, National Gallery of Scotland, Edimburgo

Conviene concentrarsi, per quanto possibile in questa sede, sulle pagine dedicate ad alcuni lavori proprio di Raffello, perché se da un lato ci fanno capire a quali fonti si richiamassero gli Albani per le loro acquisizioni (che si concretizzeranno, non è inutile ripeterlo, con la preferenza accordata soprattutto agli artisti di tendenza classica), dall’altro rivelano la maestria con cui la Guerrieri Borsoi ne ha ricostruito e svelato i retroscena, a volte sorprendenti. Del grande urbinate effettivamente gli Albani cercarono in ogni modo di procurarsi dei dipinti ed in effetti alcuni suoi lavori compaiono negli inventari dei quadri da loro posseduti. Tra questi quello raffigurante la cosiddetta Madonna del Passeggio, oggi ad Edimburgo, che attualmente si crede realizzato in collaborazione con Giovan Francesco Penni, ma che a suo tempo era considerato “la perla” della collezione. La studiosa ricostruisce nel dettaglio il macchinoso tragitto che l’opera dovette compiere per giungere nel palazzo di famiglia, lasciando peraltro intravedere la possibilità  –considerato che i Ludovisi a cui era appartenuto ne fecero eseguire delle copie- che “quella Albani fosse una derivazione” anche se “in questo caso si sarebbe addirittura truffato il pontefice”. Dubbi si addensano peraltro anche sul secondo dipinto inventariato come Raffaello, quello raffigurante la Madonna e il bambino su un cuscino bianco con in mano dei fiori, stimato “l’enorme valore di 1500 scudi”; negli inventari si parla infatti di un dipinto su rame “un supporto non adeguato per un’opera dell’inizio del XVI secolo” che potrebbe essere invece riferito al Sassoferrato il quale, com’è ben noto, per una sorta di “affinità elettiva” come suggerisce la studiosa, copiò molto di frequente opere di Raffaello.

Pittore toscano, Ritratto di un antenato di Raffaello, Roma, Villa Albani Torlonia

E infine ancor più curioso è il caso del Ritratto di un antenato di Raffaello (dove compare anche una iscrizione con la genealogia della famiglia) che nell’inventario ‘A’ del 1712 veniva ascritto proprio all’urbinate mentre in quello ‘B’ del 1724 verrà assegnato a tal “Raffaello del Borgo”. Il dipinto, in realtà di anonimo toscano del XVI secolo, è attualmente di proprietà Torlonia, ma assume un qualche rilievo per certi dettagli che appaiono come “spie di un atteggiamento erudito che non stupisce nell’ambiente filo-classicista del pontefice”.

Ma non si può chiudere il discorso relativo al Cinquecento senza citare il nome di Federico Barocci, un “prediletto” del pontefice,  “il secondo artista che suscitò le mire collezionistiche” della famiglia, questa volta però “con risultati eccellenti” come dimostrano i numerosi dipinti classificati negli inventari, tra cui opere che Giovanni Francesco comprò ad Urbino addirittura prima di divenire cardinale.

Orazio Gentileschi, Salita al Calvario, Vinna, Kunsthistorisches Museum

Nelle collezioni una parte preminente non poteva che spettare ai pittori del seicento emiliani, presenti con i nomi più noti ed importanti (in primis i Carracci, ma anche Domenichino, Albani, Reni), ma le tantissime citazioni inventariali solo di rado hanno poi portato a reali individuazioni. Come pure si deve dire della presenza seppur di “importanza più contenuta” di opere ed autori di ambito caravaggesco e perfino di “quattro supposti dipinti di Caravaggio”, nessuno dei quali però è stato poi riconosciuto come realizzato dalla mano del Merisi;

Mattia Meyvogel, imitatore di, Carità Romana, Roma, Villa Albani Torlonia
Orazio Gentilschi (?) Giuditta con la tsta di Oloferne, Roma, Collezione Lemme

così per la Andata al Calvario oggi ascritta coram populo ad Orazio Gentileschi, o come una Carità Romana tuttora presente nella villa Albani Torlonia, passata effettivamente sotto differenti attribuzioni e che la studiosa indirizza oggi nell’ambito del poco noto pittore fiammingo Matthias Meyvogel, o meglio di un suo “anonimo interprete”, mentre oggetto di una lunga storia di studi e passaggi attributivi è la ormai famosa Giuditta con la testa di Oloferne, da tempo in collezione Lemme, oggi contesa soprattutto fra Orazio ed Artemisia Gentileschi, ma non senza altre ipotesi.

Considerato quello che si è detto, non meraviglia che tra i Maestri del Barocco non compaia nulla del Bernini e solo un dipinto di Pietro da Cortona, anche se sono citati alcuni cortoneschi; poche pure le tele del Baciccio, che però realizzò un ritratto del Pontefice ancora allocato nella villa Albani Torlonia che presenta “una impostazione tradizionale, potremmo dire ufficiale” come se il pittore si fosse acconciato ai gusti non certo esuberanti che Clemente XI aveva scelto di adottare e che si attagliavano molto meglio ad altri interpreti della scena artistica contemporanea.

G.B. Gaulli, il Baciccio, Ritratto di Clemente XI, Roma Villa Albani Torlonia

E sotto questo aspetto sicuramente un grande rilievo assume il paragrafo che la studiosa dedica a Carlo Maratti, entrato stabilmente nelle grazie del papa ancor prima che questi salisse al soglio pontificio. Fu anche in forza di questa predilezione che l’artista di Camerano poté divenire “il vero dominus dell’arte romana del primo Settecento”, potendo vantarsi di uno “strettissimo legame”  con il pontefice. E’ questo  d’altra parte il periodo in cui Maratti viene addirittura salutato come il salvatore della pittura, in ragione di quella “restaurazione classicista”, nata dalle premesse dell’idealismo belloriano, cosa che gli frutterà i massimi riconoscimenti, come il titolo di “peintre du Roy” da parte del Re Sole e soprattutto, per tornare in ambito Albani, la nomina a Cavaliere di Cristo concessagli da Clemente XI nel corso di una solenne cerimonia in Campidoglio nel corso della quale il pontefice ebbe a pronunciare in sua lode le stesse frasi con cui si era espresso a suo tempo Leone X nei riguardi di Raffaello.

Era il 24 aprile del 1704 ed insieme al prestigioso riconoscimento il papa, “il sesto Pontefice –come scrive il Pascoli– con cui Carlo trattò familiarmente”, assegnava all’artista una “annuale pensione di trecento scudi”; in più occasioni il Maratti esibì il titolo di “eques” nella firma delle sue opere successive, a dimostrazione di quanto gli fosse stato gradito tanto il titolo quanto l’apprezzamento del Pontefice, ed in effetti neppure quando ormai piuttosto avanti con gli anni fu costretto a ricorrere sempre più di frequente all’intervento della bottega (anche a causa del “tremolio” delle mani cui farà riferimento il Pascoli) si attenuerà il gradimento del Pontefice verso l’arte marattesca e verso quella cultura, probabilmente “ormai matura e forse superata” ha scritto ancora Strinati, e tuttavia  di qualità così elevata “da apparire un modello di perfezionamento dell’immagine per la nuova generazione di cui molti esponenti ebbero titolo a esser definiti maratteschi” (C. Strinati, cit).

C’è comunque da ritenere che il legame del papa con l’artista con tutta probabilità era venuto  maturando da tempo, già da quando, nel 1699, il pittore marchigiano lo aveva raffigurato in un ritratto in cui forniva “una sensibile rappresentazione del colto letterato … conferendogli autorevolezza e facendone sentire la controllata personalità”.

Carlo Maratti, Ritratto del Cardinale Giovanni Francesco Albani, Bologna, collezione Masetti Zannini

Saranno in effetti numerosi gli artisti dell’epoca – più o meno ‘maratteschi’- che effigiarono il pontefice: il Baciccio, come si è detto,  e poi Odazzi, Passeri, fino a Solimena ed altri ancora, ma probabilmente solo con Maratti si poté realizzare quel “rapporto molto stretto tra l’autore e l’effigiato che si prolungherà negli anni del pontificato”.

Potremmo considerare sostanzialmente esaurita l’esegesi di un volume così ricco di novità documentarie e di contributi analitici, lasciando al lettore l’approfondimento degli ulteriori argomenti che la Guerrieri Borsoi affronta, relativi agli artisti del Settecento, romano, emiliano e napoletano, nonché ai generi del paesaggismo, del vedutismo e della natura morta, in cui compaiono nomi ed opere sempre di valore artistico adeguato all’importanza e alle esigenze della famiglia. E tuttavia non possiamo non dedicare un ulteriore approfondimento proprio al tema della ritrattistica, che, proprio perché tesa a celebrare e tramandare le memorie della casata, è effettivamente trattata piuttosto a fondo nel libro.

Per questo però appare in effetti assai curiosa la circostanza che uno dei nipoti del papa, ed anzi  “il notissimo Alessandro”, come lo definisce la Guerrieri Borsoi,  pur essendo “un eccezionale mecenate e collezionista” poi perfino “un principe della chiesa” (ascese al cardinalato nel 1721), sia presente negli inventari una sola volta e per di più con un ritratto privo di attribuzione fino ad ora rimasto inedito (che l’autrice pubblica infatti per la prima volta ascrivendolo  a Ludovico Mazzanti).

Ludovico Mazzanti, Ritratto del cardinale Alessandro Albani, Roma, Villa Albani Torlonia

Alessandro Albani  fu colui che, come narrano le cronache “costruì questa villa che è una delle più belle e magnifiche di Roma” (la villa Albani sulla Salaria, ndA) ed essendo altresì  “molto intendente di antichità e inclinatissimo a ad acquistarne” vi raccolse “un prodigioso numero di statue, di busti, di bassorilievi, di urne, di colonne, di iscrizioni e di altri marmi antichi” tali da poter considerare la villa stessa “un ricco e superbo museo d’antichità”.

Se dunque consideriamo che  a suo tempo  il “cardinal Alessandro” veniva descritto alla stregua di “un sublime genio ed ancora “genio veramente singolare e degno di vivere nella memoria dei posteri” (per le parti virgolettate cfr Roma nel Settecento. Itinerario istruttivo, di Mariano Vasi, con nota di Guglielmo Matthiae. Editrice Golem, 1970, pp. 172, 177, non possiamo ritenere che sia stato oggetto di una damnatio memoriae visto che al giorno d’oggi viene ritenuto a ragione  “non certo specchio di virtù e di coerenza di vita”; vero è che proprio a lui si riferiva un importante studioso d’area cattolica, come Vittorio Emanuele Giuntella, in una tavola rotonda di alcuni anni fa (cfr. M. Rosa, A. Monticone, V. E. Giuntella, P. Stella, Poveri ed emarginati: un problema religioso, in “Ricerche per la storia religiosa di Roma”, 3 (1979), pp. 26 ss.), contestando il lusso suo e in genere degli ambienti ecclesiastici del tempo:

“Non vi è bisogno di citare episodi se non uno la Villa Albani. Non riesco proprio a capire come il card. Albani, e gli altri prelati che gareggiavano in ricchezza con lui, potessero leggere nel breviario o nel messale le benedizioni e le maledizioni di Luca senza esserne personalmente colpiti. Anche questo aspetto è da considerare … per ricavarne giudizi sulla irreligiosità romana del Settecento (…) Avrà mai pensato il cardinale De Bernis che i suoi banchetti, la cui fama correva per tutta Europa, rassomigliavano a quelli del ricco Epulone …?”

E’ una delle contraddizioni –tra le molte che si potrebbero inquadrare- in cui lo Stato pontificio si dibatteva in un periodo di decadenza sociale e politica. La ricerca della Guerrieri Borsoi non ha preso in considerazione queste discrasie, et pour cause, essendo del tutto fuori dalla curvatura del suo lavoro, che ci illustra in modo completo e documentato  l’altra faccia della medaglia, ossia un periodo nel quale si registrò a Roma un notevole sviluppo di attività urbanistiche ed architettoniche, grazie ad un pontificato ricordato perchè effettivasment fu ricco di attenzione per l’Arte, per le Lettere, le Scienze, l’Archeologia.

P d L   Roma  ottobre 2019