di Rossella VODRET
Seguace di Bartolomeo Manfredi*
Fauno con uva e flauto
olio su tela 95×74
Galleria nazionale d’arte antica, Palazzo Barberini, inv. 1173
Sul retro sono i numeri 49 in nero, 6T e un sigillo in ceralacca rossa con la scritta Terza Giustizia di Pace di Roma, apposto su tutti i dipinti appartenuti a Giuseppe Torlonia, dopo la sua morte avvenuta il 6 marzo 1814 nel convento di S. Andrea delle fratte (Vodret, 1994, p. 353). Nell’inventario dei beni di Giuseppe, redatto da Gaspare Landi nel 1814, il quadro è citato come “Fauno che mangia uva. Opera patita della scuola di Caravaggio” (Vodret, 1994, p. 397, n. 516). Insieme con gli altri quadri che si trovavano nelle stanze occupate da Giuseppe, il quadro passò per via ereditaria al fratello maggiore Giovanni Torlonia, che la inserì nella propria collezione, conservata nel palazzo di famiglia a piazza Venezia, distrutto nel 1902 per i lavori di costruzione del monumento al Milite Ignoto.
Nel 1848 la tela compare in un elenco di dipinti che si trovavano nella collezione di Alibert, insieme con altri quadri già appartenuti a Giuseppe Torlonia, e dove rimase fino al 1891 quando, nell’ambito degli accordi per la donazione allo Stato (1892) dell’intera collezione conservata nel palazzo di piazza Venezia, fu inserito in un gruppo di settanta tele, situate in luoghi diversi dal palazzo, che i Torlonia cedettero in cambio di quaranta quadri che si trovavano in stanze annesse alla galleria e che sono rimasti di proprietà della famiglia (Vodret, 1994, p. 369).
Nel 1924 la Ravaglia ha pubblicato il dipinto con l’attribuzione a Caravaggio, identificandolo con il famoso Bacco “con alcuni grappoli di uve diverse, con gran diligenza fatte; ma di maniera un poco secca” citato da Baglione (1642, p. 136) tra le prime opere del pittore lombardo; negli anni successivi il dipinto è stato citato da Voss (1925, p. 529), Longhi (1928, p. 103), che lo data qualche decennio dopo la morte di Caravaggio, e da Porcella (1931, p. 16) che, respingendo decisamente l’ipotesi della Ravaglia, propone un riferimento a scuola bolognese-carraccesca. Lo stesso Porcella accosta significativamente il Fauno ad una tela raffigurante Due Satiri conservata nel Museo di Budapest. Da citare ancora di Carpegna (1955, pp.8-9), che ha riferito il dipinto ad un caravaggesco olandese seguace di Bartolomeo Manfredi, e Nicolson (1990, p. 88), che lo ha schedato come opera eseguita a Roma, intorno al 1630, da un pittore non italiano. La datazione del dipinto, ricondotto nell’ambito della “manfrediana methodus”, è stata recentemente anticipata alla metà del secondo decennio (Vodret, 1995 p. 176-178)
Dalla riflettografia effettuata nel corso del restauro del 1995, oltre all’assenza di tracce disegno preparatorio, sono emersi alcuni interessanti pentimenti. Alcuni sono di lieve entità, come ad esempio il restringimento di circa due-tre centimetri del braccio sollevato in alto e il relativo spostamento della mano che regge l’uva (visibile anche ad occhio nudo). Altri, più significativi, riguardano il braccio a destra che sembra essere stato pensato originariamente in un’ altra posizione dal momento che, nella riflettografia, è chiaramente visibile, sotto il braccio, la peluria sullo stomaco dipinta dal pittore in un primo momento ed ora coperta, e la posizione stessa della figura, che sembra essere stata inizialmente concepita rivolta di tre quarti verso sinistra. Quest’ultimo pentimento appare particolarmente interessante perché, nella sua redazione originaria, la posizione del fauno ripete quella del satiro a destra della tela del Museo di Budapest, citata da Porcella come opera dello stesso pittore. In effetti la tela ungherese, che sulla base del parere di Porcella conserva ancora un’attribuzione a scuola bolognese, ad una visione diretta – anche se non comparata tra i due dipnti -appare effettivamente eseguita da una mano simile a quella della tela Barberini.
Il dipinto è citato negli inventari come Fauno con uva. E’ da notare, tuttavia, che l’identificazione del soggetto non è così chiara, tanto che la Ravaglia ha perfino potuto ipotizzare che il dipinto raffigurasse un Bacco, senza suscitare, su questo argomento, alcuna contestazione. Non credo che il soggetto raffigurato sia Bacco, la presenza della barba non consente di accettare questa ipotesi; tuttavia è vero anche che tutti i caratteri fauneschi appaiono qui molto attenuati: mancano del tutto le corna, le orecchie non sono visibili ad occhio nudo, ma sono appena intuibili come leggermente a punta nella riflettografia, non si vedono le zampe caprine, mentre il vello, che copre la parte bassa del corpo, l’uva, e la corona di pampini, sono stati usati, nei primi decenni del Seicento, anche nelle raffigurazioni del mese di ottobre, dell’ autunno, o nelle allegorie dei sensi, come in Bilijert e Sandrart. L’elemento che conferma che si tratti effettivamente di un fauno è la presenza del flauto diritto in primo piano, attributo iconografico dei fauni e dei satiri, seguaci dei cortei bacchici.
Il dipinto si inserisce nella vasta produzione di soggetti a mezza figura, talvolta accompagnati da natura morta, derivati direttamente dagli esempi caravaggeschi che vennero diffusi da Bartolomeo Manfredi e dai suoi seguaci, soprattutto francesi e fiamminghi, a partire dalla fine del primo decennio del XVII secolo. Tra i primi soggetti di questo genere è da ricordare Bacco e il bevitore della Galleria Nazionale d’arte antica di palazzo Barberini, per il quale è comunemente accettata l’attribuzione a Bartolomeo Manfredi e la datazione entro il primo decennio del Seicento, che presenta con la nostra tela significative tangenze. I due dipinti sono accomunati non solo dalla concezione generale della composizione e dall’uso della luce, ma soprattutto dalla iconografia del personaggio, che seppure con lievi differenze nella posizione è raffigurato sorridente, mentre guarda in alto, con il braccio alzato (più piegato quello del Fauno, più disteso quello del Bacco) e con in mano un grappolo d’uva, il quale, nel caso della tela del Manfredi, viene spremuta direttamente nel bicchiere del bevitore.
Questa particolare iconografia, che ritorna abbastanza frequentemente nella produzione della cosiddetta “manfrediana methodus”, deriva da modelli della statuaria classica.
La fortuna del modello, anche al di fuori dell’ambito strettamente caravaggesco, è attestata dalla tela di Andrea Sacchi raffigurante Dedalo e Icaro, conservata nella Galleria di palazzo Rosso a Genova, dove è presente, come nel fauno, l’ombra portata del braccio alzato proiettata sul viso. L’esistenza di tante opere eseguite in un ristretto arco di tempo, caratterizzate da una analoga e particolare struttura compositiva fa pensare ad un autorevole modello perduto, quale poteva forse essere il Bacco di Caravaggio citato da Baglione.
Stilisticamente il Fauno, di grande qualità, è caratterizzato da una pittura rapida, impressionistica, e da un raffinato uso della luce che, oltre a sottolineare la vibrante epidermide e gli accentuati muscoli della figura, definisce con brevi tocchi di pennello le parti in penombra (l’uva, la fruttiera, il naso, i denti ecc.) riuscendo a rendere perfettamente la piena evidenza della forma. Un elemento degno di nota è l’accentuata muscolatura della figura, limitata però soltanto alle braccia. Questo particolare induce a ritenere che sia stato utilizzato per questo quadro un modello reale, probabilmente un contadino, abituato a lavorare con le braccia, che hanno, di conseguenza, uno sviluppo muscolare più accentuato rispetto al resto del corpo. La stessa inusuale evidenza della muscolatura, tanto simile da essere quasi sovrapponibile, si ritrova in una tela attribuita a Baburen raffigurante Pan che tiene la siringa in collezione privata (Slatkes, 1987, p. 101) singolarmente vicina, nel taglio compositivo e in alcune caratteristiche stilistiche, al nostro dipinto, anche se nel Fauno manca l’analitica precisione descrittiva tipica del grande pittore olandese seguace di Manfredi.
Al di là delle osservazioni stilistiche, che, anche se non consentono una precisa attribuzione, delineano abbastanza chiaramente un ambito vicino a Manfredi, è importante sottolineare che la caratteristica fondamentale di questo dipinto è il rapporto tra figura e natura morta, perfettamente equilibrato, senza sbilanciamenti, fatto questo che indica una derivazione di prima mano, senza intermediari, dai modelli caravaggeschi.
Lastretta dipendenza dalle tele di Caravaggio è confermata inoltre non solo dalla particolare forma della fruttiera in ceramica bianca, che sembra una citazione diretta, precisa e voluta, della fruttiera del Bacco degli Uffizi; il modello ricorda alcune fruttiere lombarde, ma che, in questa particolare foggia, non sembra potersi ritrovare in altre composizioni di Natura morta. Da notare ancora che il flauto, ripetendo un’ardita soluzione spaziale spesso utilizzata da Caravaggio, è posto in bilico lateralmente sul piano di appoggio, piano che non ha bordo inferiore chiaramente visibile e il cui limite quindi, come nel Bacco degli Uffizi e in alcuni dei primi esempi di Natura morta, coincide con il bordo inferiore della tela. La presenza di tanti elementi che denunciano una profonda comprensione dei modelli caravaggeschi, ancora pienamente attuali, e non scaduti in ripetizioni di maniera, indicano una datazione precoce della tela, non oltre la metà del secondo decennio
Restauro 1995 eseguito dalla CBC, Roma
Rossella VODRET Roma 29 novembre 2019
Bibliografia citata
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Baglione, Le vite de’ pittori scultori et architetti, Roma 1642, p. 136
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Ravaglia, Il Bacco di Michelangelo da Caravaggio, in “Cronache d’arte”, 1924, pp. 46-49
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Voss, Geschichte der italienischer Barock malerei, Berlino 1925, p. 529
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Longhi, Precisioni nelle Gallerie italiani, I, Galleria Borghese, Roma 1928, p. 103
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Porcella, Le pitture della Galleria Spada, Roma s.d. (1931), p. 16
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di Carpegna, Caravaggio e caravaggeschi, catalogo della mostra, Roma 1955, pp. 8-9
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L.J. Slatkes, Dirck van Baburen, in Dopo Caravaggio Bartolomeo Manfredi e la Manfrediana Methodus, catalogo della mostra, Milano 1987, p. 101
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Nicolson, Caravaggism in Europe, seconda edizione a cura di L. Vertove, Torino 1990, vol. I, p. 88
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Morselli, Bartolomeo Manfredi (1582 – 1622): sandrart, il collezionista olandese Balthasar Coymans e alcune nuove proposte, in “Antichità viva”, 3-4, 1993, pp. 25-37
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Vodret, Primi studi sulla collezione di dipinti Torlonia, in “Storia dell’arte”, 82, pp.348-424
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Vodret, Seguace di Bartolomeo Manfredi, Fauno con uva e flauto, scheda in “La natura morta al tempo di Caravaggio”, catalogo della mostra a cura di A. Cottino, Roma Musei Capitolini 15 dicembre 1995 – 14 aprile 1996, Napoli 1995, pp. 176 – 178
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Vodret, Seguace di Bartolomeo Manfredi, Fauno con uva e flauto, in “Caravaggio e i suoi” catalogo della mostra a cura di C. Strinati e R. Vodret, Roma Palazzo Barberini 18 febbraio – 9 maggio 1999, pp. 54 – 55
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R. Vodret, Seguace di Bartolomeo Manfredi, Fauno con uva e flauto, in “Caravaggio e i suoi” catalogo della mostra a cura di C. Strinati e R. Vodret, Roma Palazzo Barberini 18 febbraio – 9 maggio 1999, pp. 54 – 55 *Nella esposizione L’Enigma del realeRitratti e nature morte dalla Collezione Poletti e dalle Gallerie Nazionali Barberini Corsini, in corso a palazzo Corsini fino al 2 febbraio 2020, compare un dipinto raffigurante Fauno con uva e flauto, attribuito a Seguace di Bartolomo Manfredi, la stessa formula attributiva che Rossella Vodret utilizzò pubblicando a suo tempo lo stesso dipinto con una serie di argomentazioni di estrema validità d attualità, tanto che abbiamo chiesto di poterle riproporre; siamo grati all’autrice per la gentile concessione