di Mario URSINO
Gianni Agnelli, l’enigma e lo stile
Il prossimo 3 settembre verrà presentato a Venezia, nell’ambito della Mostra del Cinema, un documentario sulla vita di Gianni Agnelli del regista americano Nick Hooker, realizzato dalla emittente televisiva HBO di New York. La notizia mi ha fatto ricordare un mio testo, rimasto inedito, che avevo preparato in occasione della scomparsa dell’Avvocato: rinunciai a pubblicarlo visto il profluvio delle notizie apparse su ogni genere di stampa. Rivedendolo oggi potrebbe risultare di qualche interesse, unitamente al ricordo del mio incontro con l’Avvocato a Roma in Galleria, e di una visita che feci al Lingotto in anni successivi per visitare le opere raccolte in quella sede dalla collezione Agnelli (M.U.)
Perché la sua affascinante personalità resta ancora oggi un enigma, come hanno affermato in molti dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 2003? La proverbiale curiosità dell’illustre personaggio non ha mai lasciato scampo all’occasionale interlocutore, al quale poneva, come è largamente noto, precise domande, e, ottenute le risposte (che spesso già conosceva, dicono sempre coloro che hanno avuto modo di frequentare l’Avvocato), si rivolgeva rapidamente ad altro. Ecco perché in fondo di lui si sa poco, voglio dire della sua filosofia della vita, per non parlare dei suoi sentimenti più profondi, rispetto ai quali è stato un modello esemplare di riservatezza. Sono molto note invece le sue icastiche battute di sapore wildiano, che soleva ripetere divertito (come un attore consumato) all’intervistatore di turno, quando questi, per esempio, maliziosamente gli poneva una domanda sull’universo femminile: “Io non parlo di donne, parlo con le donne”, era una delle più note risposte asciutte di Agnelli che non lasciavano margine a ulteriori approfondimenti. E’ straordinario quindi come un uomo pubblico e universalmente noto abbia potuto conservare con tanto garbo e fermissima discrezione il segreto della sua personalità.
Il fatto è che Gianni Agnelli (1921-2003) [figg. 1-2], a mio avviso, ha reso della sua vita (e della sua persona) un’opera d’arte, senza che ciò avesse nulla a che fare col suo sincero (e ostentato) amore per l’arte tout court.* Pur non avendo lasciato memorie (almeno per ora non le conosciamo, ma presumo di no), la costruzione del suo modello estetico (e di esistenza) dovrebbe avere radici profonde nella ristretta e spensierata società dei suoi anni giovanili. Consapevole del grande privilegio concessogli dalla natura e dalla sorte, Agnelli ha impersonato una imperscrutabile figura “metafisica”, ponendosi appunto al di là del reale, ma al tempo stesso proiettandosi verso un concretissimo senso dell’agire che ne ha fatto il grande imprenditore che sappiamo, e il più famoso personaggio pubblico italiano nel mondo. E’ questo, a mio avviso, il paradosso di Agnelli, che ha coniugato un alato distacco dandystico con la cura minuziosa (a suo modo, perché oggi la sua Fiat non è più) della maggiore industria italiana. Ecco perché, come si diceva in principio, egli resta un enigma. A meno che tale enigma non lo si voglia sciogliere per un’ipotesi verso la quale propendo, che in fondo Gianni Agnelli avrebbe potuto essere un probabile artista di avanguardia, e se non lo ha fatto, è per l’eccessiva ricchezza posseduta e per la necessità di governare il suo impero. E l’originalità del suo essere in pubblico, il modo di stabilire relazioni con gli altri, i parenti, gli amici, i collaboratori, gli sconosciuti, è connotata sempre da quella misteriosa aura estetica (se vogliamo, metafisica, insisto nel dire) che non è fatta solo di quelle buone maniere comuni a tutte le persone beneducate.
Ma allora da dove Gianni Agnelli ha tratto ispirazione per proporre questa sua immagine diversa?, si chiese giustamente A.C. Quintavalle, nel suo lontano articolo sui ritratti d’autore dell’Avvocato (Corriere della Sera, 27.01.03), e dopo aver accennato alle affinità del personaggio con i divi degli anni Quaranta e Cinquanta, quali Cary Grant [fig. 3] e Stewart Granger, trova nella sua immagine comunicativa affinità anche con quella del presidente americano Roosevelt, ritratto sovente sulle copertine di Life o su Look. [fig. 4]
In realtà lo stile di Agnelli andrebbe ricondotto a modelli più elevati di supremo estetismo, appartenuti ad un mondo per sempre scomparso, e forse dimenticato, che trova i suoi esempi maggiori in Edoardo VIII, poi Duca di Windsor [fig. 5], nel Duca di Kent, [fig. 6] nello spagnolo Luis José de Villalonga, in grandi attori come Sir Laurence Oliver [fig. 7], o Sir David Niven [fig. 8]; e in figure meno note al grande pubblico, ovvero gli eleganti personaggi gravitanti attorno al più esclusivo circolo napoletano “Del remo e della vela Italia”, dal suo presidente degli anni Sessanta, il principe Gennaro Carafa di Roccella, allo squisito gioielliere Tonino Grassi: davanti al suo piccolo ed elegante negozio in via Chiaia si fermava l’Aga Khan con la sua Rolls Royce per fare acquisti (visto dallo scrivente quando era ragazzo a Napoli negli Anni Sessanta)
E ancora dal misterioso, elegantissimo medico di malattie tropicali e subtropicali, il professor Nino Molinari, all’esuberante stilista Livio de Simone [fig. 9], nel loro vagare tra Napoli e Capri (frequentata dallo stesso Agnelli) [fig. 10]. Sono alcuni nomi, questi ultimi, di una ristrettissima “categoria” di dandies, per sempre scomparsi, tra i quali Gianni Agnelli va identificato come indiscusso protagonista mondano internazionale negli Anni Sessanta del Novecento.
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Penso perciò che Gianni Agnelli fosse pienamente consapevole di essere l’ultimo superstite di un mondo di ombre, ma che abbia ugualmente difeso ad oltranza un modello di sé, unico ed inimitabile, troppo perfetto per la comune immaginazione e, quindi, da vero artista, si sia preso anche la libertà di beffeggiarsi con quei suoi tic, con le piccole stravaganze nell’impeccabile formalismo del suo abbigliamento: l’orologio sul polsino, la cravatta fuori dal pull, ecc., su cui tanto hanno insistito le cronache mondane, diffondendo dell’Avvocato quella immagine (errata) di creatore di mode. Chi l’ha imitato, o ha tentato di imitarlo, può essere solo ridicolo, come qualcuno ha opportunamente affermato. (Si vedano al riguardo talune esilaranti caricature di Crozza di noti personaggi del nostro tempo).
Ma allora, come vanno interpretate queste insignificanti stranezze da lui adottate all’interno di un’innata e rigorosa eleganza, esibita sempre con straordinaria naturalezza? Credo che il modo migliore di considerare l’incongruità o la bizzarria di qualche dettaglio estetico nella composta raffinatezza della sua figura, a mio avviso, si possa assimilare all’azione di un mancato artista d’avanguardia, come ho detto più sopra (non gli sarebbe dispiaciuta questa analogia), che si è divertito ad incrinare un codice di perfezione estetica e di comportamento (il rapido cambiare argomento, le celebri battute), come un gesto dadaista, duchampiano, con un nonsense che sconvolge, disorienta, irride alla percezione comune, e getta sull’autore l’elegante velo dell’ironia e dell’enigma. Del resto lui stesso ha più volte affermato che “Avvocato” era semplicemente il suo nome d’arte, non avendo mai svolto questa professione.
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Gianni Agnelli alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna
Concludo queste riflessioni con un ricordo personale. Una mattina di primavera di molti anni fa, (aprile – maggio 1988), fu annunciata improvvisamente la visita dell’Avvocato nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna, per visitare la mostra I Deutsch-Römer, una rassegna di pittori tedeschi che avevano lavorato a Roma nella seconda metà del secolo diciannovesimo. Fui avvertito, quel sabato mattina, quale unico funzionario presente in ufficio, che l’Avvocato era già nel Salone Centrale, intrattenuto momentaneamente dalla segretaria della Soprintendenza, allora diretta con grande successo da Augusta Monferini Calvesi. Andai incontro all’Avvocato senza indugio, con passo svelto, come a scusarmi del ritardo, ma egli mi tolse subito dall’imbarazzo, volgendosi verso di me come a persona conosciuta, dicendo: “Come sta?”. Risposi, stringendogli la mano, e con un cenno di inchino con la testa, invitandolo a seguire il percorso della mostra. Donna Marella rimase nel Salone Centrale per osservare i quadri lì esposti, scortata dall’attenta segretaria.
La visita fu abbastanza rapida, attraverso le opere di Achenbach, Böcklin, Feuerbach, von Hildebrandt, Klinger, von Marées, Thoma, ecc … Cercavo di spiegare, ogni tanto, davanti a qualche dipinto, che il filo conduttore era appunto la ricerca di un mondo perduto, inseguito da questi artisti romantici nella natura italiana, ancora incontaminata, dove si potevano cogliere echi degli antichi miti; ma l’Avvocato aveva fretta, e solo su qualche opera si fermava un po’ più del dovuto. In quegli istanti potevo osservarlo da vicino, e la sua figura mi appariva molto più esile rispetto all’immagine che di lui trasmettevano i media. Molto sobrio nell’abito “spezzato” dai colori tenui, beige la giacca sportiva a quadri, grigi i pantaloni, azzurra la camicia, la cravatta in tono [fig.11]; l’Avvocato si muoveva molto delicatamente mentre passava rapido davanti ai dipinti esposti. Il suo caratteristico profilo tagliente sottolineava però l’acutezza dell’osservazione, ma il volto appena abbronzato non tradiva la minima emozione, come se tutto fosse per lui déjà vu. Notai pure la lucentezza serica dei suoi capelli sottilissimi e un po’ radi che conferivano al suo aspetto una sorta di “trasparenza” che non saprei definire altrimenti, e che comunque emanava un’idea di leggerezza. Ritornammo nel frattempo nel salone centrale, da dove eravamo partiti, e qui Agnelli si accostò con maggiore attenzione davanti alla più celebre delle opere di Böcklin, L’Isola dei morti, 1883 [fig. 12], dello Staatliche Museen Preussicher di Berlino, la terza versione delle cinque dipinte dall’artista svizzero (quest’ultima posseduta da Hitler, fu poi ritrovata nel bunker dove il dittatore morì nel 1945.
L’Avvocato, con gesto improvviso, tirò fuori dal taschino della giacca le lunette per avvicinarsi e osservare un dettaglio verso il centro della tela, ma non inforcò gli occhiali, come sarebbe stato logico, li usò invece come lente di ingrandimento; dopodiché distinse alcune differenze con la versione conservata a Basilea, che lui conosceva benissimo, mentre io ne avevo cognizione solo dalle riproduzioni fotografiche. Mi resi conto di quanto vasta fosse la conoscenza di Agnelli in fatto di musei e la sua penetrante capacità dello sguardo (come ha osservato in più occasioni Federico Zeri). La visita stava per concludersi, ma l’Avvocato volle pormi, con una sommessa e impercettibile punta di ironia, una domanda che avrebbe potuto suscitarmi un certo imbarazzo; quindi, sottovoce, e quasi tirandomi da parte per una sorta di confidenza (non confidenziale, beninteso) mi domandò cosa ne era di quelle opere dell’arte concettuale di Piero Manzoni (1934-1963) che tante polemiche avevano suscitato al tempo della storica e famosa soprintendente Palma Bucarelli (1910-1998) che le aveva presentate nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna negli anni Sessanta. Non pronunciò il titolo di quelle opere (M….d’artista) [fig. 13] e anch’io mi guardai bene dal farlo; risposi con aria indifferente che quelle “opere” erano conservate nei depositi. Altro non aggiunsi. Ma non credo che la domanda di Agnelli nascondesse una qualche provocazione, si trattava solo della sua notoria curiosità per fatti e cose del mondo (di arte e non). Voleva informarsi. Ecco tutto. Con garbo, infine, mi chiese il catalogo della mostra, che prontamente gli fu consegnato.
L’Avvocato, soddisfatto, mi ringraziò e si allontanò velocemente col suo passo spedito e claudicante (allora non usava ancora il bastone) verso l’uscita. Donna Marella era rimasta ancora un po’ indietro, ed io mi volsi per salutarla, accennando ad un baciamano, ma senza osare sfiorare la mano leggerissima che mi aveva porto. Poi entrambi, esili, svanirono attraverso la vetrata dell’ingresso principale del museo.
Adesso possiamo anche pensare che l’Avvocato sia stato traghettato verso l’Isola dei morti, nel modo romantico immaginato da Böcklin.
Mario URSINO Roma agosto 2017
* Nota sulla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli
Alcuni anni fa, nell’aprile del 2010, mi recai, insieme a mia moglie (ed eravamo gli unici visitatori), alla sede del Lingotto a Torino dove è esposta permanentemente una selezione di opere d’arte dalla collezione
di Gianni e Marella Agnelli [figg. 14-15-16]
che fu inaugurata, il 20 settembre 2002, ovvero pochi mesi prima della scomparsa dell’Avvocato avvenuta nel gennaio del 2003. Questa circostanza, non so perché, mi fece pensare che tutta l’operazione fosse potuta avvenire senza il suo controllo, poiché l’illustre personaggio era già gravemente malato, e quindi altri, forse lo stesso architetto che aveva realizzato quella, a mio avviso, ibrida struttura sul tetto della vecchia fabbrica Fiat [fig. 17], avesse allestito anche lo spazio espositivo.
Come si può evincere da queste mie poche parole introduttive, la visita non mi aveva entusiasmato particolarmente, sia per la sensazione provata, e per qualche riflessione sulla stessa denominazione della raccolta, sul modesto numero delle opere esposte, e persino sull’allestimento delle stesse. Intendiamoci, non voglio dire che quelle 25 opere non siano degli autentici capolavori: sei splendide vedute del Canaletto e due del Bellotto sono di altissima qualità; inoltre il bellissimo L’Alabardiere, del Tiepolo; esso f aceva parte del più grande dipinto, Ritrovamento di Mosè da parte della figlia del faraone, 1736 dell’artista veneziano, oggi conservato nella National Gallery di Edimburgo. E poi due importanti Picasso (uno del periodo blu e l’altro cubista del 1915-17), lo splendido Nudo, 1917, del Modigliani, la Bagnante bionda di Renoir, La Negresse, di Manet, la grande e ultra nota tela del Balla del 1913, dipinta su due facce, un notevole Severini futurista del 1915; e ancora sette dipinti i Matisse (non particolarmente eccezionali, e soprattutto mal posizionati) [fig. 17].
Infine due belle sculture (gessi) del Canova che, a rigore non dovrebbero figurare in una raccolta denominata “Pinacoteca”, la cui etimologia “pinax”- quadro, e tèke – ripostiglio o teca, è destinata, secondo la terminologia museale, a contenere solo dipinti. Un peccato veniale degli allestitori? (quei dipinti di Matisse sono davvero così banalmente distribuiti su una della pareti di codesto ambiente, non troppo attraente, che mi pare proprio un’esagerazione che sia stato definito enfaticamente “scrigno” dallo stesso autore, l’architetto Renzo Piano).
Per i raffinatissimi Gianni e Marella Agnelli non sarebbe stato difficile trovare uno spazio in qualche storico edificio nel centro di Torino, magari all’interno del sontuoso Palazzo Madama, prestigiosa sede del Museo Civico, col più pertinente titolo: Capolavori dalla Collezione Giovanni e Marella Agnelli, in linea con lo stile regale torinese che i due personaggi hanno rappresentato nell’Italia repubblicana del Novecento. In conclusione la Fiat è stata la Fiat, l’arte è un’altra cosa, e, a mio avviso, non hanno alcuna relazione e quindi è senza significato averle riunite al Lingotto, alla periferia di Torino. Spero che l’Avvocato, che ho tanto ammirato sin da ragazzo, mi perdoni da quel luogo “acronico” dove si trova; forse oggi dopo quello che ho visto e poi descritto, mi darebbe ragione.