di Nica FIORI
Santo Stefano Rotondo in Caelio Monte
“Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe, e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani… Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato”.
Con queste parole, riferite da San Matteo nel suo Vangelo, Cristo preannuncia ai suoi discepoli le persecuzioni cui andranno incontro “a causa” sua. Il primo testimone-martire, nell’anno 36 d.C., è Santo Stefano, il diacono la cui storia è narrata negli Atti degli Apostoli. Anche se non si conosce il suo “dies natalis”, che per i martiri è il giorno della morte, è stato scelto come giorno commemorativo il 26 dicembre, per avvicinarlo idealmente al Natale di Gesù Cristo, che nasce e si sacrifica per dare al mondo la vita.
Stefano viene raffigurato di norma con la veste dalmatica tipica dei diaconi e con alcune pietre sulla testa, a ricordare la sua lapidazione avvenuta a Gerusalemme ad opera di ebrei inferociti, alla presenza di Saulo (Paolo di Tarso), non ancora convertito. Nel Medioevo il suo culto era talmente diffuso in Italia da aver ispirato il nome di ben 15 cittadine e le sue reliquie erano talmente ricercate, che a Roma si veneravano tre braccia (sic!) in tre diverse chiese (Sant’Ivo alla Sapienza, San Luigi dei Francesi, Santa Cecilia in Trastevere).
Tra gli edifici sacri romani ancora esistenti con il suo nome, particolarmente singolare per storia, antichità e arte è la Basilica di Santo Stefano Rotondo, dedicata al Protomartire e in un secondo tempo anche all’omonimo Santo Stefano d’Ungheria, tant’è che dal XV secolo è considerata dagli Ungheresi la loro chiesa nazionale.
Si accede alla chiesa, il cui titolo era un tempo S. Stefano in Caelio monte, per la sua posizione sul Celio, dalla via di Santo Stefano Rotondo (tra piazza della Navicella e l’Ospedale dell’Addolorata), attraverso un’apertura che immette in uno spazio su cui si affaccia il portico, che nasconde alla vista la forma circolare dell’interno.
Fino al XIX secolo si riteneva che questa chiesa fosse una costruzione romana riutilizzata (il tempio di Fauno, il tempio di Marte o anche il mercato detto Macellum magnum), ma da un’analisi approfondita della muratura e del tipo di capitelli impiegati, si è potuto in seguito accertare che si tratta di un edificio cristiano realizzato nel V secolo.
Per diverse decine di anni il sacro edificio è stato interessato da una serie di lavori di scavo, che hanno riportato alla luce le strutture dei Castra peregrina, cioè gli alloggi dei soldati stranieri di stanza a Roma, che sorgevano lungo l’antica via Caelimontana, il cui tracciato corrisponde in parte con via di Santo Stefano Rotondo. In questa caserma era stato ricavato, nel II secolo d.C., un mitreo, cioè uno dei luoghi deputati al culto misterico di Mitra. Il fatto non è insolito e può essere spiegato con la stessa ideologia mitraica che, nel considerare come suo aspetto prevalente quello di lotta contro il male, risultava particolarmente gradita ai soldati.
Con l’avvento del cristianesimo, il mitreo venne interrato e sopra di esso venne eretta la chiesa dedicata a Santo Stefano protomartire, la cui festa cadeva immediatamente dopo il 25 dicembre, giorno in cui veniva festeggiato il natale di Mitra, e in seguito quello di Cristo.
Il tempio cristiano, che sostituiva quello pagano, per convincere la gente a cambiare fede doveva essere grande, splendido e significativo. La sua costruzione risale al pontificato di Simplicio (468-483), ma venne poi proseguita da Giovanni I (523-526) e Felice IV (526-530). Con i suoi due ambulacri concentrici (anziché uno come vediamo oggi),
spartiti da due giri di colonne e intersecati dai quattro bracci di una croce greca, rappresenta un riuscito tentativo di combinazione della forma basilicale a croce greca con quella di battistero rotondo.
L’interno della chiesa, con i suoi 45 metri di diametro (ma in origine erano 60) e le sue 34 imponenti colonne, si presenta mirabile e grandioso. Quello che vediamo noi è, però, il risultato di diversi restauri, in particolare quelli voluti da papa Nicolò V (1447-1455) e diretti da Bernardo Rossellino, l’architetto rinascimentale che ha legato il suo nome alla progettazione della città di Pienza. Egli ricoprì l’edificio con un tetto, rifece il pavimento, inserì nuove porte e finestre e collocò al centro, sotto l’arco poggiante su due colonne di granito, un altare marmoreo, la cui forma deriva da quella dell’altare maggiore della chiesa fiorentina di San Miniato al Monte.
Tra le opere più importanti della chiesa, vi è la cappella dei Santi martiri Primo e Feliciano, i cui corpi sono stati qui traslati dall’arenario nomentano da papa Teodoro I (642-649). Nell’abside si conserva il mosaico bizantino a fondo oro del VII secolo con l’immagine del Cristo entro un clipeo, posto al di sopra di una croce gemmata, e ai lati i due Santi Primo e Feliciano su un prato fiorito. È la prima volta che compare il volto di Gesù fuori della croce nel cielo, da cui la mano di Dio porge la corona: Papa Teodoro ha voluto indicare che Cristo è tornato al Padre attraverso la croce, che diviene così simbolo di salvezza.
Intorno al 1450 la chiesa venne affidata all’Ordine Paolino ungherese, che la mantenne fino al 1579; dal 1580, dopo l’unificazione del Collegio Ungarico con quello Germanico, appartiene al Collegio Pontificio Germanico-Ungarico. Il primo Rettore del Collegio comune ha fatto costruire la balaustra ottagonale intorno all’altare centrale con le scene della vita e dei miracoli di Santo Stefano protomartire, dipinte da Nicolò Circignani, detto il Pomarancio; una delle scene rappresenta il sogno della madre del primo re cristiano ungherese, alla quale appare il Protomartire che le predice la nascita del futuro re. Si tratta di Santo Stefano d’Ungheria, il sovrano vissuto tra il 969 e il 1038, che fu incoronato re da papa Silvestro II nell’anno 1000; fu lui a favorire la conversione al cristianesimo dei magiari, ai quali diede anche un codice di leggi.
L’altare centrale è dedicato, in effetti, oltre a Dio, alla Madonna, al protomartire S. Stefano e ad altri santi, compresi i re ungheresi S. Stefano, S. Emerico e S. Ladislao.
Un altro ricordo ungherese è la pietra sepolcrale di Janos Laszai, un penitenziere venuto a Roma nel 1517, dopo essere stato in Terrasanta, per morire nell’Urbe, da lui proclamata come “la patria di tutti”, e dove effettivamente morì nel 1523.
È dovuto invece allo svevo Giovanni Gentner il tabernacolo ligneo degli inizi del XVII secolo (donato nel 1613 al Rettore del Collegio), che raffigura uno dei modelli sopravvissuti di un’architettura a pianta centrale d’ispirazione michelangiolesca, realizzati per la basilica di San Pietro.
Trattandosi di una chiesa il cui nome ricorda il primo martire, si è voluto insistere sul tema del martirio con una celebre serie di affreschi, eseguiti a partire dal 1582 da Nicolò Circignani e Matteo da Siena.
Il ciclo è inserito lungo le pareti del secondo colonnato, trasformato nel XII secolo in muro perimetrale: è composto da 34 riquadri, che illustrano con raccapricciante realismo altrettante storie di supplizi e atrocità subite dai martiri più popolari, nel corso delle quattordici persecuzioni contro i cristiani. Inizia con la Crocifissione di Gesù, presso la cappella del coro; segue la Lapidazione di Santo Stefano, quindi i supplizi degli Apostoli Pietro e Paolo e poi gli altri martiri in ordine cronologico con i nomi degli imperatori che perseguitarono i cristiani, da Nerone a Diocleziano.
Tutte le scene sono dotate di didascalie in latino e in italiano; in alto si legge un versetto dei Salmi o dei Profeti. Secondo le teorie estetiche dell’epoca, quegli affreschi volevano sconvolgere i visitatori; si riferisce, infatti, che papa Sisto V, esaminandoli nel 1589, “dalla compassione versava calde lacrime, asciugandosi gli occhi continuamente”. Allo stesso tempo le scene dovevano preparare i novizi gesuiti del Collegio ai rischi legati alla loro attività missionaria.
Negli ultimi due secoli questi dipinti sono stati giudicati brutti e ripugnanti. Non è certo piacevole vedere Sant’Agata mentre le vengono strappati i seni o le smorfie di dolore di altri santi sottoposti alle torture più atroci, ma la “bruttura” era in realtà dovuta alle scadenti ridipinture ottocentesche che hanno deturpato le sfumature di colore e la raffinata prospettiva del Pomarancio, appiattendo la pittura originaria.
La serie dei quadri venne ampliata con due affreschi di Antonio Tempesta, La strage degli Innocenti e I sette dolori di Maria, in cui la Vergine è trafitta al cuore da sette spade. Ed è lo stesso Tempesta che dipinge le pareti della Cappella dei Santi Primo e Feliciano.
Ma, indubbiamente, più delle opere d’arte, ciò che colpisce in questa chiesa è proprio la forma circolare, che ha dato luogo a diverse interpretazioni.
Originariamente le costruzioni rotonde avevano un significato religioso: erano templi simboleggianti il globo terrestre e il cosmo, che gli antichi immaginavano ordinato in sfere. Dal sepolcro di Mausolo, re di Alicarnasso (221 a.C.) derivò l’usanza di edificare tombe a base circolare per raffigurare il ciclo della vita e della morte.
Anche la chiesa cristiana per eccellenza, il Santo Sepolcro di Gerusalemme, si ispirò a questi concetti. Santo Stefano Rotondo ricalcò non solo la forma, ma anche le misure del Santo Sepolcro. Con le sue otto entrate originarie, consentiva il movimento ordinato dei devoti dall’esterno al centro dell’edificio, in cui stava qualcosa che purtroppo ignoriamo. Non sappiamo neppure se la parte centrale fosse coperta da un tetto a padiglione o da una cupola. E al suolo cosa c’era? Un altare o un sepolcro?
La chiesa potrebbe essere stata la memoria di una memoria, una copia dell’edificio che ricordava la morte di Gesù Cristo, la prima delle molte altre chiese sparse in tutta Europa che imitano il Santo Sepolcro. Secondo uno studioso, il sacerdote ungherese Sandor Ritz, l’edificio originario avrebbe costituito invece una vera e propria sintesi in pietra della Gerusalemme celeste, descritta nell’Apocalisse di San Giovanni. E avrebbe dovuto rispecchiare in parte l’immagine del tempio di Gerusalemme, edificato da Salomone e raso al suolo dalle armate di Nabucodonosor nel 586 a.C.
Nica FIORI Roma 30 dicembre 2019