di Giulio de Martino
Giulio de Martino è nato a Napoli e risiede a Roma, dove insegna storia e filosofia e svolge attività di pubblicista; è stato docente a contratto in varie università italiane. E’ autore di numerosi saggi di interesse sia storico che filosofico, particolarmente rivolti alla realtà del meridione, tra cui occorre citare almeno L’Illuminismo meridionale, 1995 e Storia di una famiglia reale. I primi ministri, in AA.VV., I Borbone di Napoli, 2010; ha curato edizioni dei testi di Gian Vincenzo Gravina, Scipione Maffei, Pietro Giannone, Alexander Pope, Vincenzo Russo, Mariano D’Ayala, Giosuè Carducci, Giustino Fortunato. Come critico di cinema, fotografia e arti visive ha collaborato a quotidiani e periodici. Con questo articolo inizia la sua collaborazone con About Art.
La tecnologia nell’arte.
László Moholy-Nagy
Grazie al «mercato comune» della storia dell’arte, che ha reso frequenti gli scambi tra i musei e le gallerie dei diversi Paesi europei, possiamo vedere, alla Galleria di Arte Moderna – in via Crispi a Roma: dal 28 novembre 2019 al 30 marzo 2020 -, una ricca mostra di opere di László Moholy-Nagy (1895-1946). Si tratta di una delle più interessanti personalità artistiche ungheresi del Novecento: pittore, scultore, fotografo, cineasta, ha ricoperto il ruolo di docente alla scuola d’arte del Bauhaus di Dessau (1923-1928) e poi alla School of Design di Chicago (dal 1938).
La mostra, intitolata: “La rivoluzione della visione. Moholy-Nagy e i suoi contemporanei ungheresi” è stata curata da Katalin Nagy T. e Arianna Angelelli e Claudio Crescentini per la sezione “Budapest a Roma”. Si articola su due linee di sviluppo. Una, che definirei longitudinale, consiste in una selezione diacronica di opere di Moholy-Nagy realizzate con linguaggi artistici differenti, ma connessi alla medesima intuizione estetica della modernità. L’altra, che chiamerei trasversale, propone il confronto sincronico tra Moholy-Nagy e altri pittori ungheresi, antologizzati anche nella specifica sezione “Artisti ungheresi a Roma negli anni ‘30” con opere provenienti dalla collezione della GAM.
Ritornando agli anni tra le due Guerre mondiali – epoca di grande instabilità politica e sociale – riscopriamo le forme di quel cambiamento non esclusivamente artistico, quanto, piuttosto, di evoluzione mentale o, come usa dire oggi, «antropologico» connesso al mutamento sociale e tecnologico. Moholy-Nagy, infatti, fu – come scrisse, ne L’arte moderna 1770-1970, Giulio Carlo Argan
«il più moderno degli artisti della prima metà di questo secolo, cosciente della crisi della professione artistica in un’epoca caratterizzata dall’egemonia industriale e dalla conseguente trasformazione di tutto il sistema del lavoro, della produzione, del consumo».
Giudizio che esalta la poliedrica figura di Moholy-Nagy, che spaziò in svariati campi, dalla pittura all’architettura, dalla scenografia alla fotografia, dal cinema allo studio dello spazio fisico, con la realizzazione di disegni e dipinti, foto e sculture, installazioni meccaniche e luminose. Inoltre – senza limitarsi alla sperimentazione in campo espressivo – l’artista ungherese si impegnò con intensità nell’educazione all’arte e al design. Scrisse di lui Walter Gropius:
«Moholy-Nagy si avventurò nel regno della scienza e dell’arte per penetrare i fenomeni di spazio e luce; in pittura, scultura e architettura, in teatro e in disegno industriale, in fotografia e cinema, nella pubblicità e nelle arti grafiche si sforzo sempre di interpretare lo spazio nel suo rapporto col tempo, in altre parole il movimento dello spazio. […] Ha raggiunto contemporaneamente notevolissimi risultati sia come pensatore sia come artista, come scrittore e come insegnante. Lui solo, grazie alla versatilità più unica che rara che lo distingueva e alla forza di immaginazione, è riuscito a mantenere perfettamente in equilibrio tutta quella varietà di interessi che, per qualsiasi altro, sarebbe stata una sfera troppo ampia e ambiziosa» (Bauhaus 1919-1928).
La storiografia riconosce, quindi, a Moholy-Nagy un ruolo analogo a quello di De Stijl e del Bauhaus nell’attribuire ai mestieri dell’arte una nuova funzione dentro il contesto della civiltà moderna aggiungendo valore estetico agli oggetti di produzione seriale. Al Bauhaus era stata abolita la distinzione classicista fra arti belle e arti meccaniche (o applicate), erano svaniti i confini tra artigianato, scultura e pittura che venivano unite nel lavoro dell’architettura e del design. Siamo sulla via che dal futurismo e dal costruttivismo avrebbe portato all’Industrial Design e all’orizzonte aperto delle arti visuali degli anni ’60 e ’70: l’arte analitica, l’optical, l’arte cinetica.
Gli anni ’30 del Novecento hanno, in questo, rappresentato un vero e proprio crocevia del secolo. Nel mentre che si affievoliva lo slancio estetico e culturale delle Avanguardie storiche e si manifestavano le pulsioni ideologiche e nostalgiche del “ritorno all’ordine”, in quel momento le arti visive intrapresero una via decisamente nuova, che avrebbe avuto grande rilievo nella seconda parte del Novecento: quella dell’ibridazione di arte e tecnologia, di forme estetiche e società di massa. La rivisitazione di quegli anni ci conduce così a due considerazioni. La prima è di riconoscere il ruolo autonomo e innovativo svolto dalle arti, che si mantenevano strettamente connesse all’innovazione tecnologica e economica, pure in un periodo di feroce conflitto politico e sociale. L’altra è di riscoprire i legami fra una parte del mondo artistico italiano e l’arte internazionale prima che intervenissero le chiusure ideologiche del Fascismo, del Nazismo e dello Stalinismo, a sottomettere ai dogmi dell’ideologia e della repressione la libera ricerca e la sperimentazione.
Nella mostra della GAM, in esclusiva per l’Italia, si vede una selezione di dipinti, fotografie e grafiche originali di Moholy-Nagy che attraversa un arco di tempo che va dagli anni Dieci agli anni Quaranta. Ad essa si aggiungono tre suoi filmati che uniscono alla visualizzazione di tipo meccanico della fotografia e della cinepresa l’esplorazione di una dimensione estetica sganciata dalla figurazione e dalla descrizione realistica, incentrata sulla cognizione astratta e sulla percezione quantitativa di forme, suoni e tempi. Molti autori hanno collegato le ricerche di Moholy-Nagy alle ricerche della Gestaltpsychologie e della fenomenologia della percezione.
Da giovane, dopo la partecipazione al conflitto con bellico e dopo le esperienze di pittura e di poesia con il gruppo MA (Magyar Aktivizmus) a Budapest, segnate dallo «spirito dell’avanguardia» e dall’entusiasmo per le promesse della rivoluzione socialista, Làszlò Moholy-Nagy si trasferì a Berlino nella primavera del 1920. La sua evoluzione avvenne in Germania dove, nel 1923, ebbe modo di confrontarsi con Walter Gropius che lo invitó a collaborare al Bauhaus di Weimar e di Dessau. Sarebbe così divenuto l’esponente principale della fotografia astratta, raccogliendo in Pittura Fotografia Film (1925) – ottavo volume dei Libri del Bauhaus – i fondamenti della sua tecnica fotografica «non oggettiva».
Si dedicò a molteplici sperimentazioni con materiali non convenzionali e di uso industriale, nonché alla produzione di immagini «cameraless». Scrisse:
«Le possibilità creative del nuovo si rivelano di solito lentamente attraverso queste vecchie forme, questi vecchi strumenti e modi di composizione che l’apparizione del nuovo in gestazione porta ad una euforica fioritura» (Malerei, Fotografie, Film, 1925).
Il nuovo è quanto germina nel sociale, mentre il vecchio sono le culture artistiche che provengono dal passato: punto di saldatura fra vecchio e nuovo sono le forme estetiche connesse ad un uso creativo delle tecnologie emerse con la seconda rivoluzione industriale: mezzi di trasporto, elettricità, fotografia, cinema, chimica e nuovi materiali. In un prossimo futuro, affermò Moholy-Nagy, analfabeta «non sarà chi non sa scrivere, bensì colui che non sa fotografare» (Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, 1931, poi in: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica).
In Pittura fotografia film sono elencati quei nuovi modi di «vedere» – con la connessa trasformazione percettiva e psicologica – che erano divenuti attuali grazie a un secolo di scoperte e innovazioni scientifiche e tecnologiche. Pensiamo all’«immagine riprodotta», utilizzata nelle illustrazioni a stampa e nei film, in cui la bellezza della forma s’intrecciava al dramma della vita quotidiana nelle metropoli contemporanee. Con essa il vedere diventa un narrare e un creare poiché l’immagine prodotta dall’occhio meccanico della fotocamera può essere separata dal suo oggetto. Addirittura, nel fotomontaggio,
«la sovrapposizione di due negativi fotografici mostra, per effetto dell’illusione ottica, una compenetrazione dello spazio che la prossima generazione vedrà concretamente nell’architettura in vetro».
Infatti – osservava Moholy-Nagy, collegando arti diverse
«la superficie piana delle architetture in vetro rifrange il raggio visivo e luminoso in misura proporzionale allo spessore del vetro, così come fa la superficie curva dell’obiettivo fotografico e cinematografico».
In sintesi: l’architettura in vetro dei modernisti è la materializzazione fisica di una visione fotografica e cinematografica della realtà. Non solo. Pensando all’uso del mezzo fotografico per il tracciamento microscopico delle particelle nella ricerca scientifica e nella prassi biomedica, intravide il tramonto dell’opacità dei corpi. Infatti, nelle immagini radiografiche la distinzione tra pieno e vuoto, dentro e fuori, perdeva significato: comparivano forme viventi, non sono tridimensionali e neppure bidimensionali, che mettevano in discussione il concetto di confine tra i corpi e gli spazi.
L’esposizione romana esalta l’originalità di Moholy-Nagy rispetto ai suoi contemporanei. La selezione di artisti dell’Avanguardia ungherese, fra Espressionismo e Bauhaus, provenienti dal “Museo Déri” di Debrecen (collezione Antal-Lusztig) e dal “Museo della Fotografia Ungherese” di Kecskemét, presenta opere di Róbert Berény, Ede Bohacsek, Sándor Bortnyik, Lajos Kassák, Ödön Márffy, János Mattis Teutsch, József Nemes Lampérth, Lajos Tihanyi, Béla Uitz. Mentre la sezione “Budapest a Roma. Artisti ungheresi nella Capitale fra le due guerre”, racconta del rapporto di collaborazione e di interscambio artistico fra l’Italia e l’Ungheria in un momento di alta espressione dell’Avanguardia europea, ma anche di frizione con i partiti totalitari giunti al potere e con le diverse politiche nei confronti delle arti. Fra gli artisti esposti, Istvan Csók, Ferenc Sidló, Béla Iványi Grünwald, Aba Novák, Paolo Molnár, István Réti, insieme ad alcuni filmati del biennio 1932-1933, provenienti dall’archivio dell’Istituto Luce-Cinecittà, girati durante le mostre degli artisti ungheresi a Roma.
Nella varietà dei linguaggi pittorici – che vanno dall’espressionismo all’astrattismo, dall’impressionismo all’arte sacra – si nota un’artisticità che resta nei bordi della tela e quindi della pittura, mentre Moholy-Nagy seppe rompere la compartimentazione dei linguaggi e divergerne con quell’interdisciplinarità che prefigurava le arti visive del secondo Novecento.
A testimoniare dei rapporti fra gli artisti italiani e il mondo del Bauhaus, sono in mostra alcuni documenti del Fondo Prampolini del “Centro Ricerca Documentazione Arti Visive” della Soprintendenza Capitolina. Tra questi, si trovano due lettere autografe inviate da Walter Gropius a Enrico Prampolini nel 1922 e 1923 da Weimar e una lettera autografa inviata da Moholy-Nagy a Prampolini, ancora da Weimar, nel 1924.
Nel 1934 – a causa dell’ascesa al potere del NSDAP – Moholy-Nagy avrebbe lasciato Berlino per Amsterdam, dove collaborò con il gruppo De Stijl con fotografie, disegni, progetti architettonici, interventi e conferenze. Dal luglio del 1937 si sarebbe traferito a Chicago, su invito della “Association of Arts and Industries”, partecipando al gruppo degli American Abstract Artists. Sarebbe poi diventato il direttore della “New Bauhaus. American School of Design”, poi ribattezzata “Institute of Design”, che oggi è inglobata nell’Illinois Institute of Technology. Moholy-Nagy sarebbe morto precocemente, a causa di una leucemia, nel 1946 a Chicago.
La sua geniale e versatile abilità nel campo del disegno pubblicitario, dell’arte tipografica e del design, congiunta alla costruzione di opere visuali e meccaniche prive di finalizzazione economica, con il plexiglas e la luce, può essere interpretata sia come una nuova tensione verso un’«artisticità totale» sia come la stimolante capacità adattiva della cultura e dell’arte al cambiamento del mondo sociale potenziato dalle tecnologie. Un campo di mutamenti progressivi che appare vivo e suggestivo anche al principio del nostro Millennio.
Giorgio de Martino Roma 30 dicembre 2019
“La rivoluzione della visione. Moholy-Nagy e i suoi contemporanei ungheresi”
Galleria d’Arte Moderna, via Crispi 24 Fino al 15 marzo
Orari: dal martedì alla domenica dalle ore 10 alle 18.30. L’ingresso è consentito fino a mezz’ora prima dell’orario di chiusura. Il 24 e il 31 dicembre ore 10-14. Chiuso lunedì, 25 dicembre, 1°gennaio
E-Mail info: info@galleriaartemodernaroma.it