Lugi Ficacci ad About Art : “Bene il ritorno del Turismo nel Mibac, ma occorre una vera rivoluzione culturale nei metodi”

redazione

Abbiamo avuto una lunga conversazione con il Prof. Luigi Ficacci con cui ci siamo intrattenuti, grazie alla sua generosità e disponiblità, su temi di stretta attualità e di importanza considerevole per il mondo della cultura e dell’arte; il fatto di essere stato docente universitario, soprintendente di importanti realtà museali, nonchè studioso sempre partecipe e attento alle questioni  alle vicende collegate alle sorti dei beni culturali del nostro paese, rendono il Prof. Ficacci -oggi alla testa dell’ISCR-  una fonte di grande rilievo in grado affrontare con competenza e sopratutto senza remore temi anche non semplici. Pubblichiamo in qusto numero di About Art la prima parte dell’intervista; nei prossimi numeri la seconda parte.

Si è parlato molto in questi giorni dell’importanza del turismo per il nostro paese, quindi  la prima domanda che ti vorrei porre, visto che tu hai lavorato nel Turismo come docente universitario, riguarda il ritorno del Turismo nell’ambito del Ministero dei Beni Culturali; cosa ne pensi?

R: Innanzitutto fammi spiegare che si, ho lavorato in quest’ambito per quattordici anni, a Lucca, per il corso di Laurea in Scienze del Turismo della Fondazione  Campus, presieduta da Salvatore Veca. Ti dico anche il perché: avevo sentito il bisogno di interrompere con le materie storico artistiche pure, che avevo insegnato per una ventina di anni, prima all’università di Cassino, ma soprattutto a Beni Culturali della Tuscia, a Viterbo, durante tutti gli anni novanta e inizio Duemila. Mi era divenuto insostenibile il contrasto tra la quantità di studenti che formavo e l’entità della loro destinazione a una probabile disoccupazione o riparo in attività completamente diverse. Era diventato un peso morale insopportabile essere cosciente che da un lato come docente preparavo e formavo persone che, dall’altro, in quanto funzionario dei beni culturali, io stesso dovevo escludere da ogni contributo strutturale e riconosciuto.

-Nella sostanza ti trovavi nella strettoia di chi fa didattica che non dà possibilità di sbocco.

R: Esattamente, era una cosa orrenda, quando i neo laureati venivano a chiedere indicazioni su come potere proseguire, trovarmi costretto a deluderli, con una serie di risposte ovvie, circa i tempi dei concorsi, le previsioni incerte, il blocco delle assunzioni,  la contrazione dei fondi per le collaborazioni,  insomma le patologie interne al mondo per entrare nel quale si erano laureati; un mondo che comunque era chiuso alle disponibilità esterne. Le giustificazioni erano giri di parole per dire: siete fuori. Anche se poi qualcosa sono riuscito a fare, con i tirocini, le collaborazioni consentite, ma sempre in situazioni di precarietà, di incertezza, di discontinuità, mentre mi rendevo perfettamente conto della sperequazione tra il crescere di intelligenze pronte, disponibili e la difficoltà o impossibilità di utilizzarle nella struttura responsabile della conservazione dei beni culturali. Erano quelli del resto gli anni dei cosiddetti tagli lineari ai ministeri, oltre che dei rigorosissimi controlli sui risparmi nella pubblica amministrazione, applicati  specialmente nel campo -assai poco dispendioso e difficilmente imputabile di sprechi-  dell’offerta culturale più diretta al pubblico.  Insomma le soprintendenze e i loro musei erano i più occhiutamente controllati a che non si procedesse a consulenze o collaborazioni che, se  onerose, venivano per lo più vietate. Il fatto è che più una istituzione è debole, quanto a potere, tanto più è soggetta a controlli, direi spietati. E sotto questo aspetto, le soprintendenze dimostravano una grande debolezza e i musei ne facevano le spese.

-Quindi non c’era niente da fare? Non era il caso di provare a condurre una qualche battaglia dal dentro?

R: No, non credo ci fossero spazi in questo senso, se non continuare a contribuire ad un aumento esponenziale della disoccupazione o della sottoccupazione intellettuale, dietro questa spaventosa parodia ipocrito innocentista per cui compito del docente è docere e non farsi responsabile del destino della propria docenza, dell’assenza di un mercato che la assorbisca. L’idea di impegnarmi nel settore della Scienza del Turismo, è nata proprio da questa constatazione, del fallimento degli intenti originari dei corsi di laurea in Beni Culturali, quanto, successivamente, di quelli di Scienze della Comunicazione. Fallimento dal punto di vista della creazione di lavoro, intendo. Perché riguardo alla formazione pura: insegnare va sempre bene e l’insegnamento non si nega a nessuno (per carità!).

Ecco, ma perché hai optato proprio per il campo della Scienza del Turismo?

Giuliano Urbani
Giovan Battista Cavalcaselle

R: Innanzitutto perché avevo ottenuto l’incarico di avviare una nuova sovrintendenza, a Lucca, per la quale l’intenzione fondativa dell’allora ministro Urbani e del professore Pera, che allora era Presidente del Senato e decisivo promotore intellettuale e politico della istituzione di questa soprintendenza, era di realizzare una struttura vicina alle ragioni pratiche del luogo e che procedesse in parallelo con gli studi sulla materia. Contestuale fu infatti la fondazione della Scuola di Alti Studi IMT. E poi a Lucca già esisteva questo corso di laurea interuniversitario in scienze del turismo della Fondazione Campus, che raccoglieva una serie di importanti esperienze e contributi. C’erano insomma le condizioni per avviare, assieme a una tutela più prossima alle esigenze dei luoghi, anche la produzione di attività innovative nel campo dei beni culturali. Ora, se in questo campo vuoi essere concreto, la prima attività su cui intervenire è quella turistica e, trattandosi di Lucca e della sua provincia, risultava chiaro che non ci fosse molto da inventarsi, se non armonizzare e organizzare le diverse esperienze. E così mi sono impegnato, sia come docente che come responsabile della tutela del patrimonio culturale, alla formazione di operatori del turismo. Perché mi era del tutto chiaro che il turismo è attualmente il principale problema e pericolo per il patrimonio culturale: dove è eccessivo ne distrugge la autenticità, dove è assente è altrettanto dannoso, per la sua assenza. Quindi: va governato. Il suo governo dovrebbe essere una esigenza prioritariamente sentita da ogni operatore del settore: cioè da ogni archeologo, da ogni storico, sia  dell’arte che dell’architettura che dell’urbanista eccetera eccetera, che si dedichi all’amministrazione del patrimonio culturale. E’ molto importante che questo stesso punto di vista sia stato proclamato con insistenza dal ministro Franceschini, già nel suo primo mandato e ora ribadito in questo secondo. Fu proprio lui già dal 2015  a rendere effettiva la connessione tra turismo e tutela, trasformando in attività concreta le conoscenze di dati che i precedenti governi avevano acquisito, in particolare con la ricognizione avviata a suo tempo dal ministro Piero Gnudi, che fu importantissima, ma era una premessa.

-Dunque, devo dedurne che tu sei molto d’accordo sul fatto che il Turismo sia rientrato nel ministero dei beni culturali?

R: Assolutamente si, non lo sarei stato preventivamente, se posso dire così, cioè se non mi fossi messo a studiare la materia. Una maggiore conoscenza mi rende molto favorevole alla connessione tra scienze storiche dei beni culturali e scienze del turismo. Anche perché tra le altre cose mi sono reso conto della approssimazione prescientifica con cui, da storico dell’arte, consideravo il fenomeno del turismo. Parlo per me, non certo per i miei colleghi, ma il mio approccio al turismo era un miscuglio di isteria individualista, misantropismo congenito, snobismo acquisito e un bel po’ di quell’autarchismo che evidentemente sta nelle viscere occulte di molti di noi, animali europei. E invece il turismo è “il fenomeno” del nostro tempo, dalla natura assai complessa, tale da investire ambiti – sia pratici che cognitivi- dell’economia, della sociologia, della psicologia tanto individuale che sociale che culturale, della antropologia, e poi dei diritti  e di molti altri campi che insomma prima di studiarli ignoravo bellamente tutti. Mentre adesso sono sempre più convinto che ogni tipologia di turismo debba essere considerata come una fenomenologia culturale, nche il turismo balneare, o sportivo, o ludico. E che dal punto di vista culturale debba essere affrontato.

-Ma se è vero che tu hai maturato una lunga e determinante esperienza al riguardo, non pensi che buona parte dei tuoi colleghi siano distanti dalla possibilità di poter gestire tutti gli aspetti che sottolineavi?

R: Allora specifichiamo, se mi chiedi se io non ritenga che la disciplina pura della storia dell’arte debba essere preparata a questi passaggi, la risposta è no! Dico però che a mio avviso la principale emergenza è quella di sviluppare una professionalità dello storico dell’arte applicata alla conservazione del patrimonio culturale estesa a questa scienza parallela che è la scienza del turismo, tanto più in quanto egli risulti impegnato nella tutela attiva nelle soprintendenze. Mi pare indispensabile.

-Scusa se insisto sulle contrarietà, ma non pensi che aggiungere ad esempio ai Direttori di museo –già gravati da incombenze piccole e grandi – anche questa ulteriore pratica, costringendoli magari a valersi di  consulenze di economisti, sociologhi e quant’altro potrebbe non essere una buona idea?

R: Ma il problema consiste semplicemente nel fare un lavoro di apertura e raccordo. In effetti la scienza del turismo è di recente istituzione, frutto della convergenza sul tema del turismo di scienze preesistenti come quelle economiche , sociologiche e gestionali. Prendi l’esempio del Campus di Lucca, che ritengo estremamente importante: i suoi contenuti formativi sono al 50% economico gestionali e al 50 %  storico sociologici. L’originalità di questo settore consiste nella sua collocazione  alla convergenza tra scienze preesistenti. La  novità scientifica sta nello stabilire un raccordo rispondente all’attualità complessa di un fenomeno. Un fenomeno che non risponde a una condizione di bisogno, né primario, né funzionale , né razionale,  ma è sostanzialmente l’effetto di un bisogno psicosociale profondo, che, tra i suoi moventi, risponde alla necessità di evadere periodicamente e brevemente dalla condizione di normalità quotidiana. Perciò, se non è governato, certi suoi endogeni comportamenti carnevaleschi -i carnevali sono fenomeni diversi ma rispondono a pulsioni non dissimili- comportano rischi, lesivi verso l’autenticità, sia sociale che materiale, dei luoghi dove va a manifestarsi. Per contro, comporta flussi di denaro, tramite una propensione alla spesa che è fondamentale alla sua natura fenomenica. Spendere, quale eccezione nei confronti della economicità normale nella vita ordinaria, è una necessità strutturale del turismo e in quanto tale chiede -perfino selvaggiamente- di essere soddisfatta. Ecco dunque almeno due aspetti per i quali è necessario che il patrimonio culturale risponda all’emergenza di tali bisogni: per il primo tramite difese, che non siano  apparenti né esclusive; per il secondo, al contrario, fornendo un’ampia soddisfazione rispetto alle aspettative. Tutta roba indispensabile da conoscere per chi diriga un museo o per chi sovrintenda alla tutela del patrimonio culturale -che, per me, è lo stesso-.

-Tutto questo richiederebbe indicazioni precise che dovrebbero scaturire dall’alto a pioggia alla stregua di norme chiare che inducano a comportamenti conseguenti; ti pare possibile?

R: Di certo servono contestualmente sia principi di coordinamento che applicazioni differenziate sulle peculiarità dei luoghi e dei momenti. Anche per questo campo, a livello di metodo, torna attuale il modello “centrale” inventato a suo tempo per il restauro, un organismo che può benissimo essere una direzione generale di ministero, purché sappia cogliere le peculiarità e esigenze dei luoghi, le elabori in una centralità avanzata di valutazioni, ne elimini le contraddittorietà e gli effetti collaterali negativi, li restituisca ai luoghi con quella duttilità e dotazione di mezzi di cui i luoghi, nella loro innumerevole varietà, hanno bisogno. Ovvio che nella rudimentale situazione attuale qualunque proposta possa avere una sua validità, ma a patto che si inizi, che si persegua una consapevolezza prima di tutto culturale, frutto di una vera rivoluzione dei metodi. In qualche università questa trasformazione ha già preso corpo. D’altra parte la scienza del turismo è sorta da poco: risale agli inizi del XXI secolo, quando fu riconosciuta come tale, autonoma dalle altre discipline, a Brisbane, in Australia. Da lì, ha dilagato in tutte le parti del mondo avanzato proprio per la stretta connessione  che in quel primo riconoscimento accademico aveva dimostrato con il settore delle industrie creative e per la capacità di assolvere compiti che le scienze preesistenti, nella loro purezza, non riuscivano neppure a percepire.

-D’accordo, ma non puoi negare che al centro di tutto ci sta sempre la questione dei finanziamenti che ahinoi! sappiamo che in questi settori latitano?

R: E’ una questione di finanziamenti, certo, ma prim’ancora di cultura. L’italia è diventata un paese di affittacamere e di città mangiatoia, certamente per una predisposizione, come dire, “antropologica” allo sfruttamento passivo di fenomeni casuali e non governati, ma anche per effetti non valutati e indesiderati di provvedimenti di liberalizzazione che avevano altri scopi. E’ una deriva disastrosa, parassitaria. Per contro, iniziative imprenditoriali regolari e regolate, che non danneggerebbero il patrimonio culturale, non devasterebbero le città e i territori, incontrano enormi difficoltà burocratiche; incomprensioni, indifferenze, quando non ostacoli da parte di interessi preesistenti, per quanto irregolari, disordinati e perfino contraddittori essi possano essere. Questa è la realtà che una scienza del turismo deve affrontare e contribuire a fare superare, se fosse ancora possibile. Eppure nel frattempo è accaduto qualcosa di piuttosto interessante, che però non ha avuto molto seguito e neppure la dovuta attenzione. Ad esempio quando nel 2012 un sindaco davvero intelligente di un paesino del Salento, Melpignano, seppe avvalersi delle opportunità previste per le Zone a Burocrazia Zero della finanziaria di quell’anno. Tutto dipendeva dalla validità, per tutti i settori di interesse locale, del progetto di sviluppo turistico. Tentai di suggerirlo agli imprenditori balneari della Versilia visto che la materia c’era, i soggetti di governo territoriale in grado di essere coinvolti positivamente pure, e il regime favorevole era stato prorogato di un anno. In quel caso gli imprenditori non ebbero la costanza di arrivare ad un progetto propositivo. Ma qualcosa di utile da indagare in quella direzione, nella previsione di diminuire gli ostacoli burocratici alle imprese, per finalità ben precisate in progetti organici e dislocati in aree geografiche non troppo grandi, così da essere facilmente identificabili, a mio parere permane, per dare un’efficacia a questa verità teorica che il turismo debba considerarsi necessariamente un fenomeno culturale. Si tratta insomma di favorire un’industria culturale tenendo presente che ovviamente non può sostituire quella pesante. Ma è pur vero che la pesante, come tante altre industrie, quando c’è va verso la diminuzione drastica dell’impiego umano, laddove nelle industrie culturali la presenza umana è assolutamente imprescindibile. Un’industria creativa non sostituirà certo la necessità di un’industria pesante, ma, almeno per l’occupazione locale, meglio ci sia che non che sia assente. E non conosco industria che quanto quella turistica e culturale richieda l’impiego dell’occupazione umana.

-Il ritorno di Franceschini alla testa del dicastero dei beni culturali e del turismo ha fatto si che in tema di autonomia gestionale si tornasse allo status precedente i decreti di Bonisoli, ed effettivamente Franceschini ha dato un giudizio molto positivo dell’autonomia che però gli addetti ai lavori e soprattutto i direttori dei musei che sono i primi interessati ritengono ancora modesta; tu che ne pensi?

R: L’autonomia, giuridico economica, è la questione dirimente. Richiede grande capacità per affrontarne le responsabilità. Ma porta con sé rispetto dell’azione scientifica e amministrativa. La resistenza a concederla è la  grave anomalia italiana; comprensibile per vari aspetti, ma anomala rispetto ai paesi culturalmente più avanzati. Ha ragione il Ministro ad esprimere un giudizio positivo, dall’autonomia alcuni musei hanno tratto un dinamismo prima impossibile, sia nella loro cura che nella loro produzione culturale. C’è da osservare però che la Riforma, mentre è stata recepita ed apprezzata dai direttori dei musei autonomi, ciò che è facilmente comprensibile, non lo è stata altrettanto  -forse perché non capìta- dai soprintendenti, che si sono visti sottrarre la guida dei rispettivi musei. E’ capitato anche a me, che fino allora ero soprintendente a Bologna e l’ho patita moltissimo, non avendo ricevuto la Pinacoteca quell’autonomia che invece oggi le è stata riconosciuta e di cui sono felicissimo. Per contro la Riforma, con l’unificazione delle materie, ha dato ai soprintendenti una capacità di incidenza molto più complessiva e razionale. Ma non c’è dubbio, per contro, che separare i musei comporta privare la tutela di una incomparabile autorità, oltre che di un formidabile luogo di elaborazione della tutela stessa. Lasciare alla tutela il solo potere autorizzativo senza la responsabilità diretta delle opere del museo statale e dell’attività di produzione culturale che questa comporta, può volere dire impoverirla di significato, quando non incarognirla nell’esercizio reattivo di una potestà residuale. Insomma c’è da lavorare molto e senza pregiudizi, perché la riforma è intervenuta su un modello che era molto degradato rispetto alla propria ragione originaria, che era invece di grande rilevanza, e apre la necessità di composizione di qualcosa di nuovo, che abbia la stessa organicità del precedente. L’impegno analitico e riflessivo sullo stato di attuazione della Riforma, sulle esigenze del suo orientamento di sviluppo, non mi pare sufficientemente intenso da parte nostra: qui si tratta di essere all’altezza di un sistema innovativo e unico come quello italiano della prima metà del sec. XX e della sua indispensabile evoluzione in qualcosa di altrettanto tipico e esemplare.

-Devo dire che facemmo a suo tempo  una indagine in proposito riportando il parere dei vecchi soprintendenti che lamentavano più o meno le stesse cose di cui parli tu; ad esempio il compianto Andrea Emiliani era particolarmente allarmato e criticava Franceschini addirittura perché era di Ferrara.

R: Beh, forse Emiliani era eccessivamente attaccato alla propria esperienza e concezione delle cose e, oltre al suo inconfondibile gusto per una etno antropologia delle tipicità centro italiane, di cui era maestro, non mi meraviglio che facesse rilievi sulla provenienza ferrarese di Franceschini. Abbagliato dal gusto romagnolo per la battuta campanilistica forse non si rendeva neppure ben conto delle implicazioni del suio motto di spirito. L’attuale Ministro ha nella sua storia un lungo e importante impegno civico, a Ferrara, a suo tempo vi aveva rivestito la carica di assessore comunale alla cultura e al turismo e come tale non poteva non avere sperimentato le diatribe e ai litigi tra soprintendenti dei diversi settori, tali da marginalizzare i diritti di efficacia e di comprensibilità delle comunità, tali da non coincidere neppure con il pieno adeguamento da parte dei funzionari che, più vicini alle cose e alle persone, potevano avere giudizi più mediati. Protagonismi assoluti dei rappresentanti statali delle scienze. Del resto come rappresentante dell’ente locale, l’attuale Ministro rappresentava responsabilità e interessi della comunità civica, assolutamente legittimi, che male si conciliavano con gli opposti soggettivismi critici di alcuni soprintendenti del passato. Erano diversi i soprintendenti, così come erano diverse le istituzioni comunali. E’ una questione storica di immensa rilevanza, che in ogni area geografica ha conosciuto vicende proprie. Per me fare il soprintendente a Bologna comportò la storicizzazione dei miei predecessori, fu come operare, nell’esperienza fattuale, una edizione critica dei loro scritti e delle loro opere. Emiliani era un Maestro, e quando mi trovai ad essere un suo successore, fu il mio riferimento e interlocutore costante. E posso testimoniare che, nel profondo, non gradiva poi tanto essere storicizzato.

-Tu però hai fatto cenno anche al fatto che forse la Riforma –mi riferisco a quella entrata in vigore nel 2014- non era stata capita all’inizio da voi soprintendenti.

R: E lo confermo, credo che sia vero questo fatto, e che la colpa delle difficoltà cui ci siamo trovati di fronte nella prima fase della Riforma sia nata dalla carenza di elaborazione analitica che ci ha spinto subito sul terreno scivoloso della critica a priori, senza aver capito che la Riforma è un fatto eminentemente gestionale e quindi non deve produrre delle separazioni sostanziali. Voglio dire che se è vero che non si può scindere un museo dal territorio che lo circonda, la distinzione può essere possibile ed utile per quanto riguarda la gestione, dal momento che necessariamente c’è chi si occupa di una cosa e chi di un’altra, evitando di  delineare campi contrastanti, una separazione di contenuti e materie. Ma questo dipende dal seguito che le persone responsabili sanno dare a un ordine amministrativo trasformabile. E l’elaborazione seguente la Riforma, insomma la sua elabvorazione, non è stata finora brillante. Il rischio invece è ancora presente a mio avviso. Per tornare a Bologna, ora che la Pinacoteca ha l’autonomia, c’è da sperare che non si voltino le spalle alla città, alle sue chiese, agli altri suoi musei, a chiunque appartengano, tipo Palazzo Pepoli Campogrande, tipo i Comunali, tipo i privati, come quelli di Genus Bononiae. Perché la Pinacoteca, collezione dell’Accademia di Belle Arti, si è configurata dalla sua origine come museo della città e come tale si è evoluta in museo moderno. Ma da allora tanti soggetti sono cresciuti e alcuni musei nuovi. Sarebbe ben deludente se un buon rapporto dipendesse solo dalle individuali personalità di chi la dirigerà e dei rapporti che saprà intavolare col soprintendente o col sindaco.

-Qual è il tuo parere sull’altra importante innovazione della Riforma Franceschini, cioè l’arrivo di direttori stranieri alla testa di prestigiose istituzioni museali?

R: No, innanzitutto molti di loro sono europei quindi non puoi chiamarli stranieri, mentre riguardo al tema che sollevi e di cui si è molto discusso io non credo proprio che ci debbano essere preclusioni nei confronti di esperti non italiani, per quanto riguarda le responsabilità scientifico curatoriali di una struttura museale. Detto questo però, per quel che concerne la responsabilità istituzionale generale, capisco che entrino in gioco fattori del tutto intrinsechi a problematiche nazionali, di organizzazione del lavoro, di cultura sindacale, di conoscenze legislative  ramificate, senza contare la responsabilità patrimoniale che è strettamente collegata alla conduzione di un museo, e perfino il rapporto con la politica –intendo politica in senso classico, della polis- . E poi i musei sono istituzioni assolutamente nazionali e nascono sulla base di concezioni eminentemente nazionali, proprio come forma di organizzazione della cultura e delle sue istituzioni, dopo Napoleone, che era stato in epoca moderna l’innovatore decisivo e imprescindibile in questo senso.

 -Però è vero che all’estero non mancano né sono mancati direttori italiani alla testa di importanti istituzioni museali.

R: Certo, ma si tratta di curatori, di esperti del settore, e se è per questo non è solo una condizione di storici dell’arte o archeologi, nei musei europei lavorano anche restauratori italiani. E tuttavia è pur vero che nel corso dell’ultimo anno i casi di affidamenti di responsabilità istituzionalmente strategiche secondo un criterio di competenza del tutto indifferente alla appartenenza nazionale si sono moltiplicati, tanto in  Europa che negli Stati Uniti. A questo punto l’iniziativa del Ministro Franceschini che quattro anni fa aveva suscitato un bel pò di autarchiche contestazioni o almeno perplessità, risulta invece piuttosto pionieristica, rispetto a una realtà internazionale in evoluzione.

Eppure in Italia non c’è un vero e proprio museo nazionale …

R: E’ vero, questa è una constatazione interessante ma una possibile spiegazione va trovata a quando si venne a creare l’idea stessa di patria  nazionale, ossia al periodo del Risorgimento, allorquando nell’Ottocento questa aspirazione si viene ad esprimere in ogni campo, in letteratura, in musica, in arte oltre che in politica naturalmente, quando nasce anche una storiografia nazionale su base patriottica e questo comporta le identificazioni nel campo stesso delle categorizzazioni, per cui il Rinascimento è Italia, il gotico è Francia e via dicendo. In Italia, come dicevi tu, non si crea un museo nazionale centrale, diciamo così, perché il paese unito riconosce la propria particolare condizione storico culturale, sa di nascere da stati preunitari dalla storia assolutamente propria, da cui deriva la peculiarità stessa dei musei, espressioni di una numerosissima disseminazione di istituti locali, civici, per lo più ricchi essi stessi di una cultura e di una storia che tengono a conservare e salvaguardare nell’alveo dell’unità nazionale.

-In effetti in Italia si contano –secondo dati Istat- per il 2016, ben 4.158 musei, oltre a 282 aree archeologiche e 536 monumenti, per un totale di 4.976 luoghi, all’incirca uno ogni 12.000 abitanti dell’Italia. Per la maggior parte sono in mano ai Comuni, ma anche a Province o Regioni. Quasi 2.000 sono gestiti da enti culturali, istituti religiosi, associazioni, fondazioni o anche da privati, 472 dallo Stato( Dati pubblicati dal Sole 24Ore, il 31 marzo 2018, ndA).

Adolfo Venturi
Giovan Battista Cavalcaselle

R: Sono numeri importanti non c’è dubbio e si deve dire che proprio come un tempo tutto è basato sulla ripartizione fra istituzioni nazionali e locali affinché si compenetrino, ed in effetti qualche volta questo accade, come a Roma ad esempio dove la soprintendenza capitolina fu costituita ad imitazione di quella statale, ferme restando le proprie peculiarità naturalmente. E però devo dire che le radici di questa ripartizione risalgono alla cultura del periodo risorgimentale e di derivazione risorgimentale è stata la costituzione delle istituzioni della storia dell’arte, da parte di personalità del calibro di  Gian Battista Cavalcaselle e Adolfo Venturi , dalla stanza comune dell’Ispettorato Centrale del Ministero della Pubblica Istruzione, negli anni 90 del XIX secolo. Due diverse ma grandi personalità, il giovane Venturi e il più anziano Cavalcaselle che però si intendono benissimo tra loro perché sono due uomini di stretta cultura risorgimentale e hanno ben presente come la ripartizione tra locale e nazionale debba contemplare una netta e necessaria integrazione. Se poi si sia arrivati a divisioni o controversie che non dovrebbero esistere, la causa –se posso permettermi- sta nella nostra pochezza ad interpretare in modo confacente gli strumenti che abbiamo a disposizione. E’ un po’ come accade con la Riforma Franceschini, nel senso che dipende da noi capirne bene i contenuti e realizzarli.

-Beh, c’è da dire che il ministro Franceschini appare solitamente piuttosto positivo riguardo a questo punto, quanto meno nelle occasioni pubbliche, dopo di che dipende se questo governo regge perchè magari arriva un altro Bonisoli che cambia un po’ tutto di nuovo.

Alberto Bonisoli

R: Hai ragione ma se vuoi il mio parere ti dico che i decreti Bonisoli, pur discutibili sotto molti aspetti, tuttavia indicavano, con il ritorno ad una certa centralità gestionale, una sorta di richiamo e necessità di compensazione rispetto alla euforia, se posso dire così, che probabilmente aveva contagiato qualche responsabile museale che probabilmente tendeva ad interpretare l’autonomia nel senso di una disinvoltura autocratica, qualche volta voltando le spalle al contorno e al contesto. Posso dirlo perché come sai adesso dirigo l’ICR e quindi vedo le cose da un osservatorio privilegiato e non sono più direttamente parte in causa. Ebbene per ritornare alla polemica sui Direttori autonomi, secondo me il problema è ben diverso dalla nazionalità, è che qualcuno ha intelligenza di integrazione, ma forse qualcun altro resta ancora un po’ straniero, indipendentemente dalla propria nazionalità.

P d L  Roma 5 gnnaio 2020