di Massimo PULINI
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Gianandrea Sirani pittore di recitativi
e rifinitore di incompiuti reniani
L’ultimo secolo, quello che ha riscritto il destino di molti artisti del Seicento, non ha giocato troppo a favore di Gianandrea Sirani (Bologna 1610 – 1670), pittore forse poco incline alla modernità e talvolta nemmeno in sintonia col proprio tempo. Eppure gran parte degli artisti bolognesi, usciti dalla scuola dei Carracci o dalle grandi industrie pittoriche dirette da Guido Reni e da Guercino, ha ricevuto varie occasioni di ribalta e quel fascio di luce nuova, portata dagli studi degli scorsi decenni, ha toccato anche molte figure che svolsero un ruolo di gran lunga inferiore a quello che ebbe in vita il padre di Elisabetta[1].
Per la verità, sulla scarsa fortuna postuma di Gianandrea dovette incidere molto la stessa fulminea fama della giovane figlia e fu indubbiamente anche la breve e intensissima parabola luminosa di questa a porre in controluce i risultati più lenti e metodici del padre. Elisabetta a vent’anni era considerata un’eccezione artistica, apprezzata e richiesta in tutte le corti europee, sicché la sua misteriosa morte, avvenuta solo sei anni dopo, nel 1665, finì per avvolgerne la figura di un’aura prossima a quella del mito. Nel racconto che derivò, di quella clamorosa vicenda artistica femminile, la figura di Gianandrea, pur essendo stato suo maestro, si sfuma in passaggi poco edificanti, soprattutto agli occhi di una lettura novecentesca, che lo stigmatizza come il padre despota, colui che impedì alla giovane pittrice di completare la propria formazione, vietandole i desiderati viaggi a Firenze e a Roma[2]. Quella posizione, che forse stava a metà strada tra protezione genitoriale e ottusità misogina, contribuì a relegarlo tra le figure più grigie dell’epoca barocca, andando a confermare la ricostruzione di una personalità sbiadita che già le pagine del Malvasia facevano trapelare.
Il Sirani, ancor prima della nascita artistica di Elisabetta, appariva come il servo fedele di Guido, l’ultimo suo capomastro, che gestiva la bottega di Reni e bacchettava ogni intemperanza degli altri allievi. Famose divennero le schermaglie con Simone Cantarini, l’irrequieto purosangue pesarese che più di ogni altro osò ribellarsi alla tirannia imprenditoriale di Guido Reni. Lo stesso canonico, testimone puntiglioso delle vicende artistiche felsinee, nel redigere “la vita” di Gianandrea, dopo una succinta introduzione devia la sua penna verso la definitiva celebrazione del talento di Elisabetta, della quale sembra apertamente innamorato[3].
Carlo Cesare Malvasia dunque è il primo a dimenticarsi di lui e finì per celarne ogni carattere individuale anche nel lungo racconto che fece circa le dinamiche interne alla bottega di Reni. Attraverso il cronista sappiamo anche che Sirani, dopo il 1642, fu il solo tra gli allievi a non farsi scrupoli di coscienza, rendendosi disponibile a ‘completare’ alcune opere delle tante che il grande maestro aveva lasciato ‘imperfette’ alla morte[4]. Anche questo, ai nostri occhi moderni, appare più segno di presunzione che di autorevolezza, malgrado ci informi di una privilegiata postazione di Gianandrea, quasi di natura ereditaria e di una sua acquisita reputazione tra i committenti che vantavano di aver caparrato le ultime invenzioni di Guido.
Il fatto che quelle figure di collezionisti o mercanti, rivendicanti la proprietà dei meravigliosi ed estremi abbozzi reniani, ne esigessero dal Sirani una “rifinitura” è di per sé un dato di notevole considerazione delle sue capacità di mimesi stilistica.
Proprio da questo difficile setaccio vorrei far partire una nuova narrazione di Gianandrea, anche se un tale proposito rischia di confondere l’apporto postumo del Sirani assimilandolo al ruolo di crusca, posta a rivestimento di quel preziosissimo grano.
Alla morte del suo maestro aveva trentadue anni e da quattro gli era nata la primogenita Elisabetta[5], di certo aveva già compiuto un numero consistente di opere autonome, oltre al dovuto di copie da modelli di Guido, che tutti gli allievi dovevano peraltro fornire per scalare posizioni nella piramide gerarchica della bottega bolognese. Gianandrea aveva salito molti di quei gradini, fino a divenire uno dei più fidati collaboratori del maestro. Eppure risulta complicato datare invenzioni perfettamente indipendenti prima di quel fatidico 1642. Anche la sua piana adesione alla maniera reniana rende difficile suddividerne in periodi la vasta produzione, che sembra apertamente mutare solo in vecchiaia, fors’anche in conseguenza della spinta propulsiva della figlia, che riesce a portare un’erubescenza nuova nel costante inverno cromatico di Gianandrea.
In questi ultimi decenni sono emerse opere che sotto il velo timoroso del suo pennello dimostrano, a mio avviso, un’anima impostata da Guido potendole immaginare quali espressioni dell’estrema furia creativa di Reni che portò il grande artista a “trarre miniera da sé”, come ci informa lo stesso Malvasia, restituendoci parole dirette del genio[6].
Quegli abbozzi scavavano una miniera, sia di idee che di denaro, dato che permettevano al vecchio artista felsineo di incassare dai committenti la caparra, corrispondente di solito a un terzo del prezzo finale di un’opera compiuta.
Ora sappiamo che contribuirono a esasperare questa pratica anche i debiti di gioco, un demone che assediò la maturità del sommo pittore portandolo alle soglie della povertà, mentre, d’altro canto, ci è ignota la parte richiesta da Gianandrea per portare a finitura quelle tele.
Ricondurre alla norma l’imperfetto
Le fonti ci raccontano di alcune opere incompiute del Reni che furono soggette a un intervento ultimativo di Sirani e la cosiddetta Scuola di femmine (o Madonna del cucito) dell’Ermitage di Pietroburgo[7] (foto 1) è l’esempio più noto ed eclatante[8].
Nel piccolo ma significativo gruppo che ora aggiungo spicca una serie di quattro mezze figure di Sibille, ora conservate nel Museo di Palazzo Rosso a Genova. Non sono identificabili come Persica, Cumana o via dicendo, semmai tra loro si distinguono per via di attitudini: la prima è intenta a scrivere (foto 2), una legge da un cartiglio (foto 3), la terza indica una tavola (foto 4), mentre l’ultima pensa con lo sguardo rivolto in alto, tenendo aperto un libro sul grembo (foto 5).
Sono tutti dipinti molto belli, che lasciano cogliere i caratteri abituali del Sirani, ma al contempo fanno trapelare una più raffinata grazia di pose e di sentimento. Il motivo della bellezza vestita in panni arcaici ed esotici vi viene affrontato con eleganza rara. Opere intonate su di un registro perlaceo, spinto ad un grado che dobbiamo considerare insolito per Gianandrea e si direbbe che il nostro pittore abbia tentato di completare quelle reliquie reniane avendo cura di aggiungere meno pennellate possibili.
Un velo di materia cromatica ha così lasciato trasparenza alla filigrana originale, anche se è bastato ad aggiungere firma alla firma, apportando alcune abbreviazioni fisionomiche che permettono di riconoscere senza meno i volti e le mani del Sirani, come fossero modellate sopra una struttura più energica, riconducibile all’ultimo Reni.
Un’analoga materia che fonde una cenere di perla alla sabbia si avverte entro un intenso dipinto conservato in una collezione privata bolognese e raffigurante un Sant’Andrea in meditazione (foto 6)[9]. Il nobile impianto preme dall’interno dell’opera e l’ultima pelle non occulta il vibrato di pennello che ha concepito la mezza figura nuda e pensierosa del vecchio. Questa stesura diafana, come vedremo, differisce dagli incarnati riconducibili al solo Sirani, più compatti e indubbiamente meno stratificati di questo.
L’Apostolo rivolge gli occhi al cielo, aderendo a una formula votiva che è reniana per eccellenza e tutta la testa, sofficemente spettinata e barbuta, dimostra di essere stata lavorata tanto da Guido quanto da Gianandrea, stessa cosa può dirsi per la mano che tiene segno infilando le dita tra le pagine di un libro.
Medesima posa, sviluppata su figura intera, la ritroviamo in un dipinto già noto, ma finora assegnato a Simone Cantarini[10], proprio sulla spinta di quell’incompiutezza che domina l’opera e che fu caratteristica indipendente del Pesarese. Mi riferisco a un San Girolamo conservato alla Pinacoteca Nazionale di Bologna (foto 7), ed è proprio grazie al recente ritrovamento del Sant’Andrea che possiamo comprendere l’analoga duplicità di intervento, quasi un modus operandi di Sirani quando il suo pennello si innesta su un ‘primo movimento’ di Reni.
Più articolato e complesso è il caso di due dipinti simili tra loro, che raffigurano una Lucrezia romana, ancora nuda e nell’alcova in cui venne violata da Tarquinio è colta nell’atto di prendere il pugnale e apprestarsi al suicidio. L’iconografia ha avuto una estesa fortuna, ma le redazioni utili al mio discorso sono due, la prima (foto 8), già nella collezione Viti a Roma ed ora acquisita nelle raccolte Genus Bononia, dimostra una elevata qualità e un’intima malinconia che la fa inserire tra gli ultimi autografi integrali di Reni, come già sosteneva Cavalli e poi Pepper[11]. Anche la seconda (foto 9) raggiunge vette virtuose e dopo averla vista dal vero qualche anno fa, quando transitò a Londra in un’asta della Sotheby[12], sono persuaso si tratti di un’impostazione di Guido completata da Gianandrea, ma stavolta forse con ancora un diretto controllo del maestro, sul finire degli anni Trenta.
Torno ora su di uno studio già affrontato nel 2012 in occasione di una mostra dedicata al centenario cantariniano. In quella occasione riminese[13]era esposta anche un’opera che considero iniziata da Guido e ultimata da Gianandrea. La Carità romana della galleria Altomani & Sons (foto 10) offre ancora una variante al discorso che vado imbastendo perché presenta passaggi nei quali la mano di Reni ha condotto a finitura alcuni brani, come la figura a mezzo busto del vecchio Cimone, mentre la giovane figlia Pero venne evidentemente portata a compimento dal Sirani dopo che il pennello del maestro l’aveva abbandonata. Di questa invenzione iconografica reniana ho potuto studiare anche una versione interamente dovuta alla mano di Gianandrea (foto 11), che di fatto risulta anche più coerente del prototipo a mano doppia, forse perché il Sirani, in quel caso, non si sentiva gravato dal confronto col gigante bolognese e il suo pennello correva più libero.
Un dipinto dello stesso soggetto, ma riconducibile anche nella composiuzione al solo Sirani[14] (foto 12) ci serve da liquido di contrasto, per constatare l’autonomia del suo stile, fuori dall’imbarazzo di dover porre i propri passi sulle orme di un tale precursore.
A conclusione di questo primo gruppo di opere che documenta la metamorfosi di un allievo, divenuto collaboratore e poi amministratore di bottega, per culminare il suo impegno nel doppiaggio che riesuma la voce del maestro, vorrei mettere i due risultati più alti di questa fase “mimetica”: la già nota Sibilla leggente del Kunstistorisches Museum di Vienna (foto 13) e l’inedito Salvator mundi di Palazzo Rosso (foto 14), anche se nel museo genovese la tela è ancora registrata come autografo di Guido Reni. Sono opere che portano Gianandrea ai suoi massimi livelli di finezza, sia nella stesura che nelle impalpabili gradazioni tonali, mettendolo per un attimo davvero al passo col maestro.
Il recitar dipinto
Fa invece già parte della seconda sezione di questo saggio la rapida sequenza di un nutrito numero di dipinti che ci restituisce, finalmente, la piena autonomia di un artista che meriterebbe maggiore fortuna.
Porre queste opere una di seguito all’altra, come intendo fare, permette di dispiegare tutto il suo teatro narrativo, perfetto corrispettivo pittorico di quel che nella lirica del XVII secolo passa sotto il nome di recitativo.
Se per ‘recitativo’ si intende il momento nel quale il cantato di un’opera lirica assume le forme del parlare comune e gli attori si portano sul proscenio dialogando col canto, traghettando il racconto tra un’aria e l’altra, vale a dire quando sviluppano la diegesi della storia, allora anche queste pitture assolvono un ruolo del tutto analogo nella messa in scena di un narrare per via di immagini.
Anche senza parole e suoni questi dipinti muovono una grazia recitata, nelle pose e nei gesti, così come si avverte in loro un canto cromatico e compositivo intonato su corde sentimentali.
Il taglio col quale vengono ritratte le figure, gli attori protagonisti, equivale a quel che si chiama, in cinematografia, ‘piano americano’. L’inquadratura mostra i personaggi quasi fino al ginocchio ed è spesso sviluppata in orizzontale, dando così agio di inserire due o più figure che si fronteggiano, in esplicita posa dialettica.
Gianandrea Sirani non è certo il primo né l’ultimo a usare tale formula e vari pittori a lui contemporanei e conterranei la adottano portandola a un successo che può essere definito europeo. Si pensi ai tanti duetti dipinti da Guercino e dalla sua scuola, ma in fondo già il Manfrediana methodus parla un simile linguaggio enunciativo.
Difficile dire se tale schema sia nato prima sul cavalletto per giungere poi nel palco o viceversa, credo sia comunque un fatto rilevante che in epoca barocca fosse questa la formula che meglio rappresentava i momenti più intimi tra le vicende narrate, che trattassero di poemi cavallereschi o di antico testamento.
Questo stilema che vede le figure in primo piano e lo spazio accennato sul fondo, variando talvolta dal paesaggio boschivo a quello marino, da loggiati con colonne a bui interni di galere, si adatta a ogni frangente, dal favoloso all’evangelico.
Presento dunque una quindicina di opere del Sirani che scandiscono in modo precipuo questo rituale pittorico, diverse delle quali inedite, mentre alcune si conoscono da tempo. Viste in sequenza impressionano per la determinata maniera e per un classicismo che sembra declinarsi verso il barocchetto, all’indirizzo di una compostezza danzata che diviene carattere singolare e che dobbiamo ormai riconoscere al pittore.
Parto dall’Orlando furioso, con un’Angelica e Ruggero della Fondazione Cassa di Risparmio di Cesena[15] (foto 15).
La disposizione orizzontale è utile all’autore per imbastire due momenti paratattici: mentre Ruggero tenta di togliersi l’armatura, la nuda Angelica inghiotte l’anello che la renderà invisibile.
Più dialettica la scena di un Bacco e Arianna di collezione privata (foto 16), mentre all’Auktionsverk di Stoccolma, il 9 giugno 2014, è transitato un Giuseppe che fugge dalla moglie di Putifarre (foto 17) che, con cambio d’abiti edi attributi, ripropone la stessa disposizione de La Verità vince sul Tempo (foto 18) finora assegnata ad Elisabetta[16], ma che ritengo opera di collaborazione col padre Gianandrea.
Basterebbero queste quattro scene per comprendere quanto lo schema sia flessibile, perfetto per la letteratura rinascimentale, per la mitologia, per esprimere allegorie morali o patristiche.
Al Museo di Belle Arti di Budapest[17] è conservata una bellissima tela raffigurante Lo svenimento di Ester davanti ad Assuero (foto 19), che il Sirani dovette studiare anche in una differente composizione[18] (foto 20). Dunque la formula è particolarmente efficace per trattare temi amorosi, ma anche per agiografie apostoliche con scene di galera, il volto di Assuero diviene quello di un angelo
che, nella collezione Bignami di Genova, è protagonista di una Liberazione di San Pietro dal carcere (foto 21), la stessa idea che domina un Elia e l’angelo ancora disperso, ma che venne minuziosamente copiato da Giambattista Salvi detto il Sassoferrato in un disegno conservato ad Albertville in New Jersey, nella collezione Kamph (foto 22). Una delle querelle più famose, riportate dal Malvasia in merito al clima di invidie e dissapori che vigeva entro la bottega di Reni, riguarda una spavalderia di Cantarini che davanti a un dipinto di Gianandrea, raffigurante proprio un Elia e l’Angelo, si permise di correggere con un gesso la proporzione di una delle figure, provocando l’ira del Sirani.
Forse si trattava della stessa opera documentata a Bologna nella raccolta del cardinale Falconieri e ritengo possa identificarsi in un dipinto che rendo noto in questa preziosa occasione[19] (foto 23) conservato in una raccolta privata. Le parole del Malvasia ci fano immaginare il Pesarese, mentre con un gesto risoluto sottolinea, davanti alla platea di altri novizi reniani, l’eccessiva lunghezza del braccio di quell’angelo, ciononostante l’invenzione di Gianandrea è una delle più riuscite e poetiche di tutta la sua attività e raggiunge un vertice nell’espressione pensierosa del profeta. Forse anche per questo aveva suscitato la stizza del Cantarini, sempre pronto a deridere le personalità più diligenti verso i precetti di Guido.
Inedita è anche un’altra scena ambientata nelle segrete, un bellissimo quadro raffigurante un San Paolo in carcere visitato da un filosofo, di collezione modenese (foto 24), che porta con sé una attribuzione tradizionale ad Elisabetta, ma che documenta invece un energico risultato del padre. Anche da questi storici deragliamenti delle migliori opere di Gianandrea verso il catalogo della giovane pittrice si comprende la penalizzazione gravata sull’artista più anziano a cui non viene quasi riconosciuto nemmeno il merito nella formazione della figlia, di averne influenzato fortemente lo stile. In passato ho contribuito indirettamente anche io a questa tendenza generale, avendo esposto sotto il nome della sola Elisabetta, nella monografica milanese dedicata a Guercino, una Berenice che si taglia i capelli, della galleria Altomani & Sons di Pesaro (foto 25),
splendida tela che ora riconosco sia frutto di una collaborazione, il contributo della figlia a un’opera ideata e impostata dal Padre[20].
In una collezione privata fiorentina sono conservati due notevoli dipinti di Gianandrea, un Sansone vittorioso (foto 26) con un pendant raffigurante un’Enea e la Sibilla trasportati da Caronte (foto 27) le cui foto erano già presenti nell’archivio di Federico Zeri con la giusta attribuzione. Qui il numero di figure aumenta, si moltiplicano gli sguardi e il movimento delle figure prende linee diagonali, ardite per la narrazione abitualmente piana del Sirani. Sembra una terza striscia della medesima sequenza anche un dipinto che si trova ora in una collezione privata modenese, in realtà tornano gli stessi attori ma per interpretare una storia molto diversa, dato che il quadro inscena un episodio dell’infanzia di un grande profeta dell’Antico Testamento. Questo bellissimo Mosé che ingoia i tizzoni ardenti (foto 28) è, io ipotizzo, lo stesso dipinto ricordato nella raccolta dei Conti di Novellara dal Campori, che lo cita come un Mosé e la prova del fuoco[21].
Di questo refrain narrativo si trovano varianti racchiuse in un taglio ovale, come il bellissimo Bradamante che aggredisce il mago Atlante (foto 29) (Bologna Pinacoteca Nazionale), ma anche sviluppate in rettangolo verticale e a figura intera, di cui è esempio il bellissimo dipinto dei Musei Capitolini raffigurante Ulisse al cospetto di Circe (foto 30). Presento infine un altro quadro incompiuto, un’Allegoria dell’Amore, ma questa volta riconducibile, a mio avviso, a Elisabetta, che è conservato nel Palazzo Tozzoni di Imola (foto 31). L’opera, recentemente liberata da ridipinture che la impoverivano, ha rivelato un tessuto memore degli abbozzi, sia reniani che cantariniani, a dimostrazione di una conoscenza diretta della giovane pittrice di questi illustri esempi della generazione precedente.
A conclusione di questo mio primo intervento dedicato al Sirani padre vale la pena tornare a riflettere su come le figure che ne arricchirono maggiormente l’esistenza: il suo maestro Guido Reni e la figlia Elisabetta, siano state anche quelle che hanno finito per proiettare un cono d’ombra sulla personalità di Gianandrea, soprattutto sulla percezione postuma del suo stile e in buona misura anche sull’identificazione odierna delle sue opere. Senza chiedere per questo un’assoluzione alle ottusità dimostrate in entrambi i fronti, ritengo tuttavia che una migliore definizione di quel che gli spetta possa restituirgli un ruolo non banale nella pittura felsinea del Seicento.
Nei miei prossimi saggi le pitture ‘da camera’, le pale d’altare e i disegni preparatori alle incisioni permetteranno di articolare meglio la sua personalità, ma già grazie a quelli che ho definito recitativi è possibile aprire un nuovo e autonomo credito alla raffinata poetica di Gianandrea Sirani.
Un teatro degli affetti messo in raffinata scena pittorica, declinato in forma fluida, senza enfasi nell’interpretazione, così come risulta privo di crudezze desunte dalla realtà. Un temperato classicismo quindi, forse tardivo, ma che non ha mai indossato le parrucche del barocchetto.
Massimo PULINI Bologna Gennaio 2020
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