di Viviana FARINA
Le due giornate di studio tenutesi al Museo di Capodimonte il 13 e il 14 gennaio appena passati, dal titolo Caravaggio a Napoli. Ricerche in corso, hanno innanzitutto fornito l’occasione per fare il punto su temi aperti nella precedente esposizione Caravaggio Napoli. Va il merito dunque al direttore Sylvain Bellenger e a Maria Cristina Terzaghi, che hanno voluto riunire numerosi studiosi con ben distinte formazioni, permettendo il confronto e il dibattito, talvolta anche vivace, su questioni vecchie e nuove, nonché la presentazione di importanti notizie inedite, come da molto tempo non accadeva nella storica istituzione napoletana. La brevità richiesta per tale contributo non consentirà di entrare in argomento, se non in merito ad alcuni aspetti delle relazioni ascoltate.
Nella prima giornata – aperta dalla dettagliata introduzione della Terzaghi e dagli interventi di Gianluca Forgione, da tempo teso all’analisi iconografica delle Sette Opere di Misericordia, e Loredana Gazzara, narratrice dello stato originario della chiesa del Pio Monte – particolare interesse ha suscitato la relazione di Saverio Ricci, che ha riaperto la scottante questione della formazione del pensiero di Caravaggio, conducendola su percorsi differenti da quelli a lungo esplorati. Il filosofo sostiene necessario ridimensionare le tesi esposte a suo tempo da Maurizio Calvesi e, per altro verso, da Ferdinando Bologna circa l’influenza e/o il parallelo tra le concezioni di Giordano Bruno, Galileo Galilei o Tommaso Campanella e l’arte del grande lombardo.
Dalle analisi più recenti è emersa, in effetti, la scarsa considerazione delle plebi urbane da parte di Bruno al contrario di quanto si ricava con chiarezza dalla pittura del Merisi; la conoscenza delle teorie di Campanella parrebbe essere stata altrettanto difficilmente veicolata; quanto a Galilei, la pubblicazione del Sidereus Nuncius risale al momento della morte del lombardo, al 1610. Sarebbe piuttosto un’altra la figura più adatta ad una nuova lettura sinottica con le sperimentali invenzioni caravaggesche, un uomo dalla biografia meno contrastata e per questo meno capace di richiamare sinora attenzione in questo senso: il più anziano filosofo e naturalista Bernardino Telesio (1509-1588).
Parallelamente Marco Cardinali, che proprio in occasione della mostra Caravaggio Napoli ha potuto condurre otto nuove indagini diagnostiche sulle Sette Opere di Misericordia, si è distinto presentando inediti risultati ottenuti con metodologie innovative che consentono allo stato un’analisi ancora più accurata della tecnica pittorica di Caravaggio.
Per chi non avesse avuto la possibilità di ascoltarla nella giornata di studio organizzata presso l’Accademia di Brera (2017) dove si presentava la tela con Giuditta e Oloferne rintracciata nel 2014 a Toulouse dal Cabinet Turquin o, più di recente, nell’incontro tenutosi in parallelo alla mostra Caravage à Rome, curata da Francesca Cappelletti e Maria Cristina Terzaghi per il Musée Jacquemart André di Parigi (2018-2019), Rossella Vodret, nella seconda giornata di Capodimonte, ha presentato e ampliato le sue riflessioni sugli esami diagnostici condotti di recente su quel dipinto, ormai noto come Giuditta di Tolosa. L’opera, come si sa, ha fatto e fa discutere e dividere gli addetti ai lavori sulla autografia o meno di Caravaggio, per le discordanze stilistiche che vi appaiono a vista. Le analisi summenzionate consentono però dei chiarimenti importanti, ovvero di accertare che le parti dell’opera apparse più discutibili, ossia meno riuscite del quadro, e sulle quali hanno insistito coloro non favorevoli ad accettare l’autografia di Caravaggio – principalmente la testa della vecchia, dal ramificato sistema di rughe, e almeno la bocca aperta di Oloferne -, sono in realtà frutto di rifacimenti successivi. Numerosi pentimenti sostanziali – innanzitutto il braccio di Giuditta in origine nudo quasi all’altezza del polso, decorato da un bracciale poi trasformato in una piega della veste, la posizione degli occhi della donna etc. – eseguiti alla pari di quanto emerge da altri 35 dipinti indiscutibilmente autografi del maestro, documentano la presenza della mano dl Merisi. La studiosa ha concluso dichiarando – a mio parere convincentemente – l’originalità del dipinto ad eccezione dei passaggi summenzionati, realizzati successivamente probabilmente in seguito all’abbandono del quadro in uno stato non completo. Se poi gli autori di tali rimaneggiamenti debbano identificarsi in Louis Finson o Abraham Vinck, come si sa proprietari a Napoli di una Giuditta e Oloferne di Caravaggio, e che si crede ospitassero il maestro lombardo nel loro atelier partenopeo al tempo del suo primo soggiorno napoletano, la Vodret non si è dichiarata sicura di poterlo affermare.
Sul medesimo Finson è intervenuto, subito dopo, Gianni Papi, con un excursus sul tempo napoletano del maestro di Bruges e meglio illustrando il legame lavorativo tra il genio lombardo e l’ammirato artista nordico; quanto alla discussa Giuditta di Tolosa, che lo studioso aveva da subito attribuito proprio a Finson, in un momento diverso da quello in cui il brugense dovette realizzare la replica del quadro a Palazzo Zevallos a Napoli, Papi ha per la prima volta dichiarato la possibilità di vedere la mano di Caravaggio sia pure nella sola testa dell’eroina biblica.
Sempre nella seconda giornata di studi, nella sessione dedicata alla Flagellazione di Cristo, Pier Ludovico Puddu ha presentato la sua ricerca su un Cristo alla colonna del Merisi, oggi nota per il tramite di almeno tre esemplari non autografi e documentata nelle guide della collezione Borghese, mentre Maria Beatrice De Ruggieri ha potuto valutare in un’ottica nuova il processo esecutivo e la tecnica pittorica del Merisi grazie alle più innovative strumentazioni diagnostiche oggi esistenti (Scansione Macro XRF). Queste hanno evidenziato la presenza di tracce disegnative sottostanti la pittura: non solo segni funzionali ad orientare al meglio le figure nello spazio, modalità intraviste con le radiografie e di cui si discute da tempo, ma propriamente segni eseguiti a pennello con colore scuro o anche segni condotti con la biacca, una tecnica affine a quella comune in Tintoretto. Si tratta di una lettura in contrasto con quella critica e oramai storicizzata di Roberto Longhi – come si è premurata al momento di precisare Cristina Terzaghi -, secondo il quale, e il dato è molto noto, Caravaggio non disegnava, eseguendo il dipinto direttamente sulla tela e così rigettando la progettualità concettosa dell’opera di ascendenza tosco-romana, vale a dire secondo l’idea di disegno così come descritta da Giorgio Vasari.
Invero, le due interpretazioni appaiono al giorno d’oggi in un conflitto che può dirimersi, se si riflette sulla definizione teorica di «disegno» così come emergente dalla trattatistica sull’arte, da Cennino a Leonardo, che esaltano la valenza principale dell’idea a discapito della mano che semplicemente esegue, sino a Vasari e Zuccari, che estremizza il già elaborato pensiero vasariano scindendolo definitivamente nelle due separate categorie del «disegno interno» e del «disegno esterno». I dati, così come letti dalla De Ruggeri, richiamano la nostra attenzione su di un ‘semplice’ (se mi si passa l’uso del termine) espediente tecnico artigiano, e non invitano alla lettura di un Caravaggio allineato con le aspettative sociali degli artisti della tarda Controriforma, portati a ridimensionare l’azione della mano al fine di porsi pienamente alla pari dei letterati, ovvero a sottolineare il proprio ruolo di ideatori di opere frutto del lavoro mentale, per mera necessità di comunicazione reso visibile dal gesto meccanico.
Ed è opportuno pure ricordare che l’affinità tecnica tra Tintoretto e Caravaggio era stata già messa in luce, alcuni anni fa, da Francesca Rossi, nel saggio introduttivo ad un volumetto dato alle stampe in occasione della tempestiva sottrazione al Merisi in persona di un nucleo di fogli provenienti dal fondo della bottega di Simone Peterzano di pertinenza del Castello Sforzesco (Simone Peterzano e i disegni del Castello Sforzesco, catalogo della mostra (Milano, 15 dicembre 2012-17 marzo 2013, a cura di F. Rossi).
Sempre nella seconda giornata di studi, Giacomo Berra ha presentato un corposo gruppo di lettere, sinora inedite, sui viaggi di Costanza Colonna, marchesa di Caravaggio, e del figlio Fabrizio, in un intervento che è risultato in connessione con quello di Keith Sciberras, che ha esposto una sua nuova tesi circa il soggiorno di Caravaggio a Malta. Lo studioso è ora convinto che non fosse intenzione dell’artista restare nell’isola dei Cavalieri per un lungo periodo, ma piuttosto tornare a stretto giro a Napoli, un dato che sembrerebbe ridimensionare l’ambizione di Caravaggio al cavalierato; o, per meglio dire, è forse possibile che l’artista non si fosse proposto tutto questo sin da principio.
Tra le novità più attese delle due giornate vi era, senza dubbio, quella riguardante la presentazione del foglio che corredava la Maddalena in estasi nella versione dipinta riscoperta da Mina Gregori e attribuita dalla studiosa e da Bert Treffer a Caravaggio. Francesca Curti e Orietta Verdi hanno condotto a riguardo due analisi parallele: l’indagine scrupolosissima della Curti ci ha informato sulla famiglia perugina che risultava proprietaria del dipinto nel ‘700, come si ricava anche dalle descrizioni delle guide dell’epoca; una famiglia attiva nel commercio della seta (da qui il titolo Sulle vie della seta) come i Colonna di Paliano, dai quali il dipinto proveniva in origine. Una allusione al palazzo napoletano «a Chiaia» (residenza degli appena ricordati Colonna di Paliano) emerge, di fatto, con chiarezza dal cartiglio sul quale Orietta Verdi si è soffermata con una impeccabile quanto ferrea analisi tecnica: le indagini chimiche sul tipo di supporto, di inchiostro, di grafia etc. dimostrano tutte che il biglietto in esame non possa essere un falso. Esso accompagnava il quadro, possibilmente un tempo conservato tra la tela originale e la tela di rifodero, ma, a parere della studiosa, mai incollato alla prima (punto sollevato piuttosto da un intervento di commento di Bruno Arciprete).
Nel testo analizzato il dipinto è indicato come opera di Caravaggio (cfr la dicitura precisa nell’intervento di Raffaella Morselli su questo numero, ndA) e ne viene citata chiaramente, oltre alla presenza nell’edificio di Chiaia, la preparazione per essere inviato al cardinal Borghese. Si tratta di indizi di grande importanza, che tuttavia attendono di essere correlati all’analisi stilistica del quadro cosiddetto Gregori, opera esposta alla sopramenzionata esposizione del Musée Jacquemart André al fianco della Maddalena ‘riversa’ nella versione già a Napoli in collezione dell’avvocato Giuseppe Klein. All’incontro di Capodimonte una posizione negazionista è stata dichiarata con chiarezza da Gianni Papi e da Giacomo Berra.
Dell’ultima sessione del 14 gennaio, dedicata alla ricezione in ambito napoletano di Caravaggio, oltre all’approfondita analisi della tecnica pittorica di Battistello Caracciolo condotta da Angela Cerasuolo, vorrei mettere in evidenza almeno una notizia su cui bisognerà seriamente indagare.
Tra i ‘convitati di pietra’ dell’incontro non vi è dubbio che vi sia stata la Madonna del Rosario di Vienna, la pala di Caravaggio in vendita a Napoli, come è risaputo, nella seconda parte del 1607 presso la società Finson-Vinck. Sempre a Napoli, nel novembre del 1609, Marco Romano saldava a Giovan Bernardino Azzolino la somma a lui dovuta per una Madonna del Rosario e santi da porsi all’altare maggiore della cappella che il ricco mercante aveva appaltato nella chiesa domenicana del Gesù e Maria. Che la tela del Siciliano – sulle cui tracce siamo da tempo sia De Mieri che io – fosse non solo la più immediata quanto fedele risposta, in termini appianati, alla forte invenzione del Merisi, ma anche la riproposizione esatta del prototipo in termini di misure, era un dato che non era sfuggito a chi scrive.
Ora però Stefano De Mieri si spinge, brillantemente, a ipotizzare una relazione diretta tra il quadro di Vienna e la cappella napoletana. La vicenda del Rosario si incrocia piuttosto con la pala
<<d’altezza palmi 13 e mezzo et larghezza di palmi 8 e mezzo con le figure, cioè di sopra l’imagine della Madonna col Bambino in braccio cinta di cori d’Angeli et di sotto S. Domenico et S. Francesco nel mezzo abbracciati insieme dalla man dritta S. Niccolò e dalla man manca S. Vito»,
pagata a Caravaggio 200 ducati il 6 ottobre del 1606 dal ricco mercante croato Niccolò Radolovich, così come pensano alcuni?
Lo vedremo, la ricerca continua.
Viviana FARINA Napoli 19 gennaio 2020