P d L
Pubblichiamo la seconda parte della conversazione avuta qualche giorno fa con il Prof. Luigi Ficacci sempre generosamente disponibile con About Art, di cui sappiamo essere attento lettore (per la prima parte cfr https://www.aboutartonline.com/lugi-ficacci-ad-about-art-bene-il-ritorno-del-turismo-nel-mibac-ma-occorre-una-vera-rivoluzione-culturale-nei-metodi/ ); la parte odierna è relativa al commento di un libro di Patrizio Aiello dal titolo Caravaggio 1951, che rilegge la storia della famosa “Mostra del Caravaggio” tenutasi a Palazzo Reale di Milano in quel fatidico anno, e che presentò egli stesso, insieme con Francesca Cappelletti, lo scorso novembre in una conferenza alla Galleria Borghese. Le numerose novità presenti nel volume, scovate dall’ Aiello grazie ad un notevole lavoro di ricerca, hanno consentito la messa a punto di numerose questioni che riguardano il giusto l’utilizzo della ricerca archivistica che il nostro interlocutore sapientemente illustra, nonché di risalire ai retroscena -senza esclusione di colpi tra i massimi studiosi del tempo- che caratterizzarono quell’evento e che lasciamo al lettore di scoprire.
-Pochi giorni fa hai presentato alla Galleria Borghese insieme a Francesca Cappelletti un volume di Patrizio Aiello intitolato Caravaggio 1951 sulla famosa mostra curata da Roberto Longhi che costituì un vero discrimine riguardo alla ripresa degli studi sulla figura e l’opera del genio lombardo. Cosa hai trovato di nuovo e di interessante nel libro?
R: In primo luogo l’anomalia dell’argomento: non direttamente Caravaggio, nello sviluppo biografico del suo stile, ma la ricostruzione di un evento temporaneo come una mostra; ossia del fatto espositivo in quanto tale. Questo comporta il riconoscimento della pienezza di significato e del potenziale cognitivo che possiede il momento spettacolare della mostra. Dare voce critica a questo aspetto, estraendolo dall’implicito del retroscena è un approccio molto originale, di cui Giovanni Agosti è maestro. D’altronde è suo merito avere tracciato questa linea di metodo per le ricerche della sua Scuola, cui Aiello appartiene. Di solito una mostra è considerata, a distanza storica, una semplice voce della filologia dovuta, senza che se ne traggano delle vere conseguenze storiografiche. D’altronde senza uno studio approfondito e minuto di ricostruzione, da una mostra, dopo la sua chiusura, non riesci a derivare conseguenze che non siano quelle rese esplicite nei saggi critici. E queste non sono mai il cuore spettacolare della mostra e non contengono nulla della concreta esperienza espositiva. Al contrario credo che raccogliere le informazioni più minute, in ogni dettaglio, dei più vari, soprattutto tra quelli organizzativo pratici, quali sono emersi nella ricostruzione di Aiello, sia fondamentale tanto per lo storico dell’arte puro, che per colui che applichi la propria professionalità alla direzione di un museo. Nel nostro caso si tratta di Brera dove avvenne l’esposizione Caravaggio e i Caravaggeschi, appunto da aprile a luglio del 1951.
-Si è trattato di un determinante lavoro d’archivio svolto dall’autore.
R: Certamente, un lavoro che resta determinante e, come dicevo, prezioso per sogni studioso successivo e per ogni direttore del museo. Personalmente ho patito molto, nella varie sedi della mia attività, nei musei e soprintendenze in cui mi sono trovato a lavorare, che fosse Roma alla Calcografia, o Lucca, ma soprattutto a Bologna, l’assenza di questa capillarità minuta della documentazione; con una eccezione, forse: Modena, dove svolsi il mio primo incarico. E più che per la Galleria Estense, per l’attività della Soprintendenza, di cui la Galleria faceva parte. Era ancora disponibile un ordinamento archivistico, che credo risalisse ai tempi della Ghidiglia Quintavalle, ed era quanto di più semplice ed efficace si possa immaginare, perché organizzato topograficamente, cioè per luoghi ed opere: tante cartelline topografiche, uno per ogni opera, che consentivano una immediata conoscenza del loro stato catalografico, ossia se era stata schedata o meno. Bastava procedere con gli aggiornamenti a quella raccolta di ogni accendente documentario riguardasse l’opera, dai restauri, ai prestiti, perfino le lettere di chi ne avesse richiedesto delle foto, insomma ogni elemento veniva annotato e conservato lì, così che era possibile ripercorrere la storia minuta delle opere del territorio. Per me fu un autentico supporto, perché quando mi occupavo di un’opera sapevo che dentro la sua cartellina avrei trovato ogni informazione; niente di più semplice. La documentazione deve servire a questo, guidare la mano di chi oggi si trova a doversi occupare del patrimonio culturale. Senza farla troppo complicata e neppure troppo perfetta. Tant’è che il mio archivio personale lo ho organizzato così. E ora che ho la fortuna di dirigere l’ICR , vorrei ottenere lo stesso, e non sarà difficile, perché per un Istituto di restauro, è più facile che la documentazione nel tempo sia stata considerata fondamentale e oggi sia di normale utilizzazione. Il dramma sta nelle Soprintendenze, nei Musei.
–Ecco, ma perché facevi questa osservazione a proposito del libro?
R: Perché in Italia esiste un forte difetto di conoscenza rispetto alle modalità dell’utilizzo di un archivio. Spesso per volere sistemare tutto al meglio, secondo le regole della classificazione globale, si perde di vista l’uso corrente, quotidiano, semplice, della documentazione.
-Il problema però sarebbe risolto se si arrivasse finalmente alla digitalizzazione del patrimonio enorme che esiste.
R: Ah certo, questa sarebbe la soluzione ideale, la documentazione è importantissima per evitare di affrontare un argomento di carattere storico in modo estemporaneo o inconsapevole. E per ritornare al libro di Aiello quella ricostruzione della esposizione del ’51 non soltanto ci mostra la sua capacità metodologica di individuare i dettagli, ma soprattutto di non sprecarne il significato limitandoli alla pura curiosità erudita, bensì usarli anche come un segno; che voglio dire? che il libro è assolutamente valido anche perché l’autore esprime il potenziale semantico contenuto in ogni singola informazione. Certo, anche Aiello, nel suo libro, non può farlo che in modo parziale, esemplificativo, consapevole che da ogni informazione non sia possibile estrarre una semantica a 360°. Nessun ordine interpretativo può essere completamente esauriente dei propri potenziali. L’ordine più completo è quello più arbitrario: intendo quello poetico, cioè il più eminentemente arbitrario. Un approccio “artistico”. Del resto la sua stella polare, come del suo maestro Giovanni Agosti, è il Fratelli d’Italia di Arbasino: un capolavoro letterario che esprime veramente la capacità di usare in termini semantici una cultura sterminata, ma secondo l’ordine arbitrario della creazione artistica. Per noi, che artisti non siamo, il dovere metodologico è non sprecare i dati: recuperare ogni documento, per quanto minuto, e metterlo a disposizione, perché ci sarà sempre chi, nell’ambito del proprio contesto, potrà ritenerlo essenziale al proprio orientamento di ricerca. E’ uno degli aspetti affascinanti del libro di Ajello e del pudore con cui lui, e prima di lui Agosti, avvertono il lettore della possibile – perfino temuta?- irrilevanza del documento.
-E per quanto riguarda te, dal momento che sei stato un presentatore del libro, perchè hai potuto valertene?
R: Perché l’ICR nasce all’insegna di Caravaggio; pensa che già nel ’41, il giorno della inaugurazione dell’Istituto, al ministro Bottai e alle autorità in visita alla sede in San Francesco da Paola vennero presentate le gigantografie della cappella Contarelli e da allora l’attività di sperimentazione per il restauro in Istituto avvenne all’insegna di Caravaggio, fino alla ormai famosa mostra del ’51 che è l’oggetto della ricerca di Patrizio Ajello, di cui si è discusso alla conferenza della Borghese cui facevi cenno. Ebbene questa ricerca è molto interessante perché fa emergere delle controversie arcinote nei termini generali ma di cui molto poco si sa nei passi e nei moventi individuali, nelle divergenze di interpretazione, nelle rivalità e perfino nelle meschinità di cui furono tra loro titanici protagonisti alcuni tra i più noti studiosi italiani.
-Però i contrasti tra le due scuole, se possiamo sempre definirle così, di Longhi e Venturi, si erano palesati già molto tempo prima.
R: Hai ragione, effettivamente all’epoca potevano definirsi scuole, tradizioni che andavano componendosi come distinte e allontanandosi. Ma cerchiamo di ricostruire la vicenda. Roberto Longhi si laurea nel 1911 con una tesi, chiesta l’anno prima a Pietro Toesca, su Michelangelo Merisi da Caravaggio, quando già Lionello Venturi da qualche anno interveniva sull’artista. Proprio nel 1910, quando Longhi iniziava a lavorare sulla tesi, Lionello pubblicava i suoi Studii su Michelangelo da Caravaggio su L’Arte, la rivista del padre, Adolfo, che era il maestro di tutti. Poi, nel 1912 sempre Venturi figlio pubblica degli inediti di Caravaggio, in particolare la Cena in Emmaus Patrizi (quella che ora è a Brera). Succede cioè che il neolaureato Roberto Longhi si vede pubblicare da Lionello Venturi un dipinto importantissimo e lui, piuttosto che su Caravaggio, interviene sulla cerchia, che all’epoca era considerata una congerie pochissimo nota di minori. Su Orazio Borgianni nel ’14, su Battistello nel ’15 e poi su Orazio ed Artemisia Gentileschi nel ‘16, sempre sull’Arte. Insomma, ostentatamente tratta dei poetae minimae, come li chiamava Baudelaire o Eugene Fromentin, che erano i suoi riferimenti, dai lui impugnati contro la genericità dell’idealismo crociano, contro lo spiritualismo sentimentalista degli esteti alla Maurice Barrès e contro il positivismo entomologico di certi eruditi. Insomma, spavaldamente, Longhi si dedica ai minori.
-E –a parte che poi così minori non sono, ma qui entriamo in un altro discorso- questo secondo te che significato assume?
R: Cosa vuol dire in quell’epoca pubblicare sui ‘minori’? Vuol dire approfondire il discorso, entrare con precisione di conoscenza e di critica nel Seicento, cioè un’intera era culturale svalutata da un giudizio morale negativo, che si era andato affermando per influenza degli storici e dei filosofi, soprattutto a causa del punto di vista di Croce, con l’eccezione di alcune grandissime personalità, come Bernini, Rembrandt, Rubens e pochi altri, che venivano salvati come geni di valore universale, emergenti e distinti dal complesso del secolo XVII, che invece era considerato da condannare. Non è mica un caso che quando Stanislao Fraschetti pubblica la prima monografia su Gian Lorenzo Bernini esordisca più o meno premettendo ‘scusate se tratto di Bernini, ma nelle opere in cui si libera dai condizionamenti della committenza ecclesiastica egli è un genio la cui validità è sovrastorica’. Siamo nell’anno 1900 è altro non è che una prova di quel discrimine tra opera di poesia dal valore universale e opera di prosa o di cronaca dal valore contingente e cioè soggetta alla stessa generale condanna che era calata sul quel tempo. Insomma, un secolo di ‘non poesia’, eccetto che per i geni.
-Si tratterebbe di una sorta di ripiego da parte di Longhi, a fronte dell’operatività di Lionello Venturi, insomma?
R: Agli inizi degli anni ’20 Longhi ha in cantiere una monografia su Caravaggio e non riesce a pubblicarla perché nel frattempo ne esce una di Lionello Venturi nel ’21 e un’altra di Marangoni nel ’22, che probabilmente gli bruciano la sua. Finalmente nel 1928 e ’29, con i famosi Quesiti caravaggeschi, Longhi propone in modo frontale la propria lettura di Caravaggio, come artista portatore di un’estetica della realtà, naturale, umana, popolare. Però gli viene confutata poco dopo da Emile Male, dal suo elevato punto metodologico di una storiografia dell’arte come storia della religione. Male rivela la piena espressione di una questione teologica nella Madonna del Serpe (Madonna dei Palafrenieri), che Longhi considerava come una popolana che difenda il figlioletto, raccapricciato dall’assalto di un serpente, nei bassifondi della Roma secentesca, secondo la logica della sua lettura umanizzante dell’opera del Merisi, per cui il l’implicazione teologica era trattata da Longhi come pretesto per la narrazione di una contingenza accidentale, invece che dell’espressione della salvezza dell’umanità affidata al Figlio che, per il tramite della Madre, schiaccia la testa del serpente, come avvertiva Male. E’ una impostazione che poi, in Italia, dagli anni settanta, sarà ripresa dalla scuola di Argan, con Calvesi, con Spezzaferro e le generazioni successive, Alessandro Zuccari, Francesca Cappelletti e altri, ma che Male individuava per primo, indicando precisamente la piena pertinenza religiosa della poetica caravaggesca.
-Cioè vuoi dire che è stato Emile Male ad aprire la porta alla lettura teologico-religiosa dell’opera del Merisi?
R: Certamente; Male nel 1930, in una conferenza agli Studi Romani (a quel tempo era a Roma come direttore dell’Ecole Française, a Palazzo Farnese), che è evidente conseguenza della pubblicazione dei Quesiti Caravaggeschi, controbilanciava la lettura dominante, indicando nella pittura di Caravaggio la presenza di contenuti religiosi profondi e non pretesti di rappresentazioni popolari. Ma per continuare sul discorso precedente, di come si è arrivati alla Mostra del ’51, è interessante ricordare il contributo che Argan pubblica nel 1943, su “Parallelo”, allora una rivista di Longhi. Era un saggio che presentava alcune proposte su Caravaggio, tra le quali una relativa alla Deposizione della Vallicella (oggi ai Vaticani), secondo cui la Maria di Cleofa sarebbe stata aggiunta successivamente, da mano diversa, sulla base dello studio di Rubens in cui quella figura non compariva e allora Argan azzardava l’ipotesi che la figura non fosse del maestro. Si guadagnò così una mirata e sprezzante risposta di Longhi, che, su “Proporzioni” , definirà assurda l’idea, respingendo però contestualmente anche l’attribuzione della Caduta di San Paolo Balbi a Caravaggio, quale prima versione per S. Maria del Popolo, e assegnerà invece la tavola a Peterzano. Poi ovviamente col tempo dovette ricredersi e lo fece senza la minima -come dire- piega… Insomma attorno a Caravaggio era piena guerra, tanto più che Argan aveva pronta per la pubblicazione una propria monografia, di cui l’anno prima aveva reso noto il capitolo introduttivo, ma che poi per le vicende belliche (questa volta militari e mondiali) restò inedita. Immediato dopoguerra: Lionello Venturi, tornato dall’esilio all’insegnamento universitario in Italia, tiene alla Sapienza un corso monografico proprio su Caravaggio, anno accademico 1948-49, di cui esistono le dispense raccolte da Valentino Martinelli. Ecco, ti rendi conto del clima in cui la città di Milano e Brera progettano nel 1949 la mostra che si terrà a Palazzo Reale nel 1951?
-Un clima per niente sereno viene da dire.
R: Appunto ed è per tale densità della posta in gioco che lo studio di Aiello è così importante. I milanesi, il Sindaco, la Soprintendente di Brera, Wittgens , il direttore dei Musei Civici, Baroni, costituiscono un Comitato che dovrà scegliere le opere e curare la Mostra. Ci sono Rodolfo Pallucchini e il rappresentante Vaticano Costantini, che sono, diciamo così, tranquilli, non avendo particolari coinvolgimenti di parte. Poi la sequenza si fa incandescente: Matteo Marangoni, Lionello Venturi, Giulio Carlo Argan, Roberto Longhi. Manca Brandi, ma è come se ci fosse, perché si può dire che Argan lavori per lui, facendo in modo che i restauri delle opere siano affidati all’Istituto Centrale del Restauro. E lì, ostilità di Longhi che vuole invece Mauro Pellicioli, il quale all’inizio era stato anche lui parte dell’ICR ma poi se ne era allontanato, oltretutto perché il pubblico impiego non gli consentiva di lavorare anche in proprio. Che accade a questo punto? Che Longhi opera un vero colpo di mano facendosi nominare Coordinatore tecnico del Comitato per la scelta delle opere. Il Comitato scientifico era qualcosa di più che onorifico, perché il suo compito iniziale, tramite la scelta delle opere, avrebbe costituito la sostanza critica della Mostra, la visione di Caravaggio. Con la sua mossa è evidente che Longhi si conquista la garanzia di imporre le proprie tesi. Seguono dimissioni, mentre Argan rimane a presidiare la linea romano venturiana e a rappresentare Brandi , cioè l’ICR, ciò che è rilevante perché comporta l’immissione, in una diatriba basata sull’analisi stilistica, dell’idea che le questioni critiche e perfino attributive si possano derivare anche dall’indagine della materia e tecnica esecutiva. Analisi diagnostica e restauro come atto critico, insomma, sforzandosi di cacciare restauratori esterni all’Istituto e spesso polemici, come Pellicioli o Cellini, in una specie di versante di manipolatori tendenziosi, collusi col mercato e col loro mentore, Longhi.
-Insomma Longhi ha vinto, ma lascia aperta ai rivali –se possiamo definirli così- una strada da praticare; si può riassumere così la vicenda della mostra del ‘51?
R: Può andare, ma ci devi aggiungere che Lionello Venturi nello stesso anno pubblica la sua monografia su Caravaggio, con prefazione di Benedetto Croce, seguita l’anno dopo da quella di Longhi; ormai le strade sono radicalmente divergenti e a questo punto c’è da chiedersi: perché tutti litigano per Caravaggio? Perché soprattutto gli studiosi italiani si accaniscono tanto su questo pittore, radicalizzando i punti di vista con tale violenza di contrasto?
-Belle domande davvero: perché?
R: Credo perché Caravaggio fosse allora confusamente percepito come una sorta di paradigma della modernità, di una modernità che riguardasse soprattutto gli italiani; forse per il particolare rapporto con la realtà del tempo moderno dell’Italia di allora. Ti sembra accadesse la stessa cosa all’estero? Ho l’impressione che gli studiosi non italiani della materia, soprattutto allora, guardassero con un occhio un po’ perplesso e scettico questo furore nostrano su Caravaggio, questo nostro regolare conti attuali di ogni tipo, anche fortemente personali, sulle spoglie della sua opera. Forse solo Denis Mahon, con la sua divertita e acuta curiosità comprendeva le ragioni storico culturali per cui, a torto o a ragione, per gli italiani moderni, quelli del secolo XX, Caravaggio fosse materia ‘viva’, presente, carica di implicazioni attuali e incandescenti; vivo come possono essere certi temi flagranti e non del tutto risolti, che riemergono sotto sembianze diverse e tramite circostanze occasionali. Il libro di Aiello, con la contestualizzazione storica e politica della preparazione della Mostra del 1951, con la sintomatologia derivabile dai singoli episodi, anche minuti, della sua organizzazione, è molto utile per accendere l’attenzione su questo aspetto, anche politico, e consegnarlo a una lettura articolata di quel tempo. Oltretutto non va trascurato che negli anni della mostra milanese sono ancora sensibili le discriminanti dell’influenza di Croce, che si trascinavano dall’inizio del secolo. All’origine il suo idealismo aveva comportato la possibilità di salvarsi dalla tagliola tra un positivismo italiano tardo ottocento molto meccanico, ridotto alla mera enumerazione di dati, e dall’altro dal misticismo pletorico dei seguaci di D’Annunzio, tipo Ojetti, che si compiaceva dell’evocazione dell’effetto trasfigurante dell’arte come assoluto. Croce li respingeva e superava entrambi, ciò che spiega la sua monumentale importanza per le generazioni più giovani, durante i primi decenni del secolo e fino al secondo dopoguerra. Ma, come scriverà di lui Longhi a Berenson nel 1912, egli capiva bene molte cose dal punto di vista filosofico culturale, ma ne estendeva l’implicazione sull’arte tramite parametri estetici utili forse per la comprensione della letteratura o della filosofia dell’arte, ma non della fenomenologia della pittura. Questa è la critica di Longhi, che accusava la logica di Croce di essere ‘indistintiva’, ossia inadeguata a saper riconoscere uno spazio peculiare per l’arte figurativa.
-Fu un altro motivo di scontro con Venturi che era crociano, mentre Longhi collaborava alla Voce …
B: Si effettivamente Longhi svaluta Venturi, addebitandogli le stesse critiche di genericità e approssimazione che contestava a Croce. Ma era così ostile e insofferente nei suoi confronti da non volere riconoscere i progressi fondamentali per lo specifico storico artistico che Lionello Venturi aveva segnato rispetto all’estetica crociana. Venturi aveva per il filosofo una vera venerazione, per cui la sua evoluzione rispetto al suo pensiero era carica di rispetto, fino alla dissimulazione. La renderà esplicita tardi e con grande umiltà riflessiva. Negli anni trenta ad esempio, in uno scritto su Croce, dirà approssimativamente qualcosa di questo tipo: ‘rispetto a questa bilancia arte – non arte, mi chiedo se non esista invece uno spazio per individuare la differenza delle species mille della storia dell’arte rispetto all’ars una’. In realtà, col suo lavoro storiografico Lionello Venturi aveva già risposto, basando una relatività del giudizio sulle individualità delle opere, dello stile, della storia di ogni autore.
-Stavi parlando di Caravaggio come elemento ‘vivo’ –oltre che divisivo- per gli italiani
R: Si, si tratta di materia ‘viva’ per Longhi, e la sua dissidenza rispetto a Croce si afferma anche nel tipo di scrittura che egli concepisce come espressione autonoma, fino all’invenzione artistica. Peraltro il giovane Longhi era carico di velleità artistiche, come veicolo per individuare una nuova critica che pensava dovesse sostanziarsi in un nuovo linguaggio critico. Era così attento e partecipe ai movimenti dell’arte e di certa avanguardia da ricalcarli nella propria ricerca storiografica.Ma peraltro lo affascinavano alcuni dei modi critici di Berenson e il suo frequente transitare dalla lettura filologica dell’opera dei pittori a inserti di teorizzazioni induttive o di panorami generali dei momenti storico stilistici. Pensa che contrasto col modo di scrivere di Lionello Venturi, così preciso e lineare da parere quasi piatto, rispetto a quello spavaldo e guascone di Longhi. Longhi odiava Lionello Venturi, lo considerava col fastidio del trasgressivo verso un privilegiato, in quanto figlio d’arte, lui, figlio di un maestro di scuola di Concordia sulla Secchia, in provincia di Modena. E Modena era la città natale di Lionello, dove il padre Adolfo aveva praticamente creato quello che sarebbe divenuto il metodo italiano dominante di fare storia dell’arte. Capisci? La storia dell’arte italiana e le sue lacerazioni è originariamente tutta una storia modenese, tra via Ganaceto, il Palazzo dei Musei, l’Archivio di stato, insomma la geografia locale dei Venturi e il figlio emigrato di due insegnanti di Concordia sulla Secchia, benché lui fosse nato ad Alba, da genitori lì trasferiti: un padre intransigente e una madre cantante lirica mancata, dalle vene percorse di sangue operistico e palcoscenico. Un contrasto titanico proveniente da umori intellettuali immensi, cresciuti nella Bassa! Comprendi che esperienza eccezionale fu per me iniziare il mio lavoro a Modena!
P d L Roma 26 gennaio 2020