di Massimo PULINI
Pubblichiamo la seconda parte del saggio che Massimo Pulini, uno tra i più noti ed importanti studiosi di pittura seicentesca bolognese, ha dedicato alla figura e all’opera di Gianandrea Sirani, con numerose novità ed aggiornamenti che gettano una nuova luce su questo artista spesso sottodimensionato nel panorama degli studi sul periodo barocco. La prima parte, dedicata al “pittore di recitativi rifinitore di incompiuti reniani” è sul penultimo numero di About Art (cfr https://www.aboutartonline.com/pulini/ ); questa seconda parte inquadra un altro aspetto della produzione dell’artista felsineo e si collega alla prima in senso cronologico. Ringraziamo l’autore per aver concesso ad About Art questo importante inedito studio
- Gianandrea Sirani:
La Pittura da camera e d’altare
La seconda parte di questo intervento su Gianandrea Sirani (Bologna 1610 – 1670), dopo la cinetica sequenza dei recitativi, riguarda scene ancora più intime e circoscritte a un teatro di prossimità, che potrebbe anche dirsi ‘da camera’. Il taglio verticale è eseguito su formati che al tempo venivano chiamati “tela imperatore”, termine che deriva dai repertori iconografici di monarchi del passato rappresentati di solito a grandezza naturale e fino alla cintola.
Malgrado il taglio verticale di questi quadri, poco adatto a sviluppare un racconto, resta ancora, nelle figure che frequentano il proscenio, una consapevolezza di sentirsi osservati, la coscienza di svolgere una parte stabilita a interpretazione di un vero e proprio repertorio. Non di rado lo spazio è corredato da tendaggi che rifiniscono la scenografia, stipulando una sorta di convenzione tra autore e pubblico, quasi fossero elementi che tracciano virgolette prima e dopo una parola dal doppio senso.
Inizio con due raffinatissimi dipinti che sembrano passarsi il testimone sul medesimo tema, insieme affettuoso e simbolico, domestico e mitologico. Un’inedita Venere e Amore (foto 32)
vede il figlioletto mostrare alla madre una freccia, come se le stesse chiedendo di saggiare quanto sia acuminata la punta del dardo (Milano, Studiolo)[1], mentre nell’altro, già noto, la dea si è impossessata dell’arma e si rivolge a noi, tenendo il figlioletto alato sul grembo[2] (foto 33). Entrambe le giovani madri sono colte con uno sguardo fisso, sovrappensiero, tutte e due accennano a tenerezze nei modi, ma la loro attenzione è rivolta altrove, forse stanno riflettendo sulle conseguenze dell’innamoramento, lasciando così trasparire i concetti racchiusi nella pittura, in forma davvero delicata. Credo sia una Venere, anche se la vediamo senza il figlio arciere, quella che si trova a Karlsruhe (foto 34) e che già Zeri riteneva di Gianandrea[3].
Una delle iconografie più fortunate di Gianandrea è di certo la Giuditta con la testa di Oloferne alla presenza della fantesca (foto 35), l’abitudine alla duplicazione, acquisita nelle stanze di Guido, portò Gianandrea a divenire copista di sé stesso[4] (foto 36), lo dimostrano proprio invenzioni riuscite come questa, della quale si conosce una traduzione incisoria e varianti anche scalate in periodi distanti tra loro, fino a un esemplare dai toni accalorati che va al passo con le ultime opere del Sirani (malgrado sia transitato come opera di Cerrini)[5] (foto 37).
La torsione della longilinea Giuditta e il suo sguardo, anch’esso gettato verso l’esterno del quadro, si pone come una delle soluzioni poetiche più efficaci, usata pure per contesti molto differenti.
Nel Martirio di Santa Lucia (foto 38) passata a Londra da Christie’s come opera di Elisabetta[6],
la posa diagonale della figura muliebre permette all’artista, malgrado lo spazio limitato e ovale, di stratificare il racconto per tornanti ascensionali, fino all’etereo angioletto che al posto della palma alza con la mano una coroncina di rose. Di recente è riemerso, in una collezione privata, un curatissimo disegno di Mauro Gandolfi raffigurante un Ratto di Proserpina (foto 39), che a mio avviso riproduce un’opera, di ubicazione sconosciuta, da riferire al Sirani[7].
Fratelli, separati di solo qualche anno, appaiono poi un Apollo (foto 40) con la cetra in mano e un David con la testa di Golia (foto 41), entrambi sembrano attratti da qualcosa o qualcuno che sta alla loro sinistra, di nuovo fuori dall’inquadratura[8]
All’asta Dorotheum di Vienna e giustamente ricondotto al Sirani[9] è transitato un Re David (foto 42) sorpreso a recitare un ruolo malinconico, che da monologo interiore diviene un muto dialogo col divino. Il soggetto è essenziale, eppure il suo contesto storico ed esotico, ispira a Gianandrea dettagli che assurgono a un racconto quasi fiabesco: la corona in testa, la barba fluente ma non canuta, le vesti sontuose che stratificano una sartoria regale, dal damasco al serico, dai soppanni cangianti alla compattezza geometrica delle pieghe.
Resta il teschio e lo sguardo al cielo, ma gli abiti sontuosi hanno lasciato il posto agli attributi di un eremita nel San Girolamo (foto 43) transitato nel mercato antiquario il 26 maggio del 2009[10].
Più sobrie sono invece le vesti di un San Marco Evangelista (foto 44) che si trova nella prestigiosa collezione Thyssen-Bornemisza di Madrid, curiosamente esposto come opera di Carlo Maratta[11]. Si tratta in realtà di un dipinto che corrisponde perfettamente ai caratteri del nostro artista bolognese, anche se l’errore di attribuzione risulta significativo e anche onorevole, lasciando intuire quanto la matrice reniana si sia innervata, a quel punto, su elementi della generazione successiva e di altra apertura.
Lo stesso classicismo che cerca vaghezze di tocco nelle chiome argentee e negli incarnati lo ritroviamo in due dipinti, anche questi inediti per Sirani, raffiguranti entrambi un San Giuseppe col Bambino in braccio, il primo conservato con la generica dicitura di ‘scuola di Reni’ nei Musei Civici di Monza[12] (foto 45) e l’altro si trovava nell’anonimato in una collezione privata, quando qualche anno fa mi venne mostrato[13] (foto 46). La bellissima fisionomia, la finezza di tocco e di pensiero di quest’ultimo non è purtroppo restituita dalla fotografia di cui dispongo, ma è sufficiente per riconoscere il modello presente in una pala del Duomo di Faenza, una Madonna col Bambino, San Giuseppe, san Lorenzo e Filippo Neri (foto 47) già attribuita al Gessi, ma giustamente ricondotta a Gianandrea Sirani da Angelo Mazza[14].
Lo stesso studioso tolse dal catalogo di Elisabetta per restituirlo al padre anche la bella Annunciazione della chiesa di San Giuliano di Rimini (foto 48).
Particolarmente importanti sono queste aggiunte recenti perché, come si è potuto intuire anche dal saggio precedente, non molto numerose sono le opere d’altare del Sirani, che fu impegnato soprattutto in dipinti da cavalletto e assolse richieste da palazzo, quasi la sua fosse considerata più una ‘pittura da camera’ che da concerto sacro. Dimostrò invece capacità di orchestrazioni sinfoniche, anche di vasto respiro e di colta composizione, come nel dipinto della Certosa di Bologna (foto 49). La Cena in casa del fariseo dispiega infatti una sapienza prospettica che si può dire veronesiana, ma c’è il meglio del classicismo bolognese in ogni singola figura, negli oggetti, nelle architetture e negli ariosi panneggi.
Commesse così importanti e impegnative mettevano in difficoltà anche artisti più navigati e spinge al rammarico di saperla pressoché unica nella carriera di Gianandrea, ma credo si possano ancora scoprire altri suoi cimenti d’altare, se in una chiesa di Crevalcore ho potuto ritrovare un San Silvestro papa (foto 50), celato dall’errata attribuzione a Giovanni Maria Viani (Bologna 1636 – 1700)[15].
Ancora più eclatante e sconosciuta è una pala che ho potuto riconoscere a Gubbio, entrando nella Chiesa di San Pietro della città umbra, nella quale la Madonna col Bambino mostra il simbolo degli olivetani a San Bernardo Tolomei[16] (foto 51). Il dipinto, per ragioni poco comprensibili veniva assegnato al pittore senese Giuseppe Nicola Nasini (Castel del Piano 1657 – Siena 1736),
ma sono evidenti sia il linguaggio che la poetica del nostro artista bolognese. Il bianco e l’azzurro delle vesti intonano un chiarore terso che, quasi in accordo alla collocazione geografica dell’opera, si pone tra il purismo del marchigiano Salvi e quello dell’umbro Cerrini, senza smarrire nulla della grazia reniana che lo ha formato. La parte alta con la Madonna, il Bambino e la gloria di angioletti dovette avere una certa fortuna e Gianandrea la usò in un’altra opera che un tempo era conservata a Savigno, in val Samoggia, come ci attesta un’incisione secentesca che la descrive come una Madonna del Rosario (foto 52)[17].
Si aprirebbe a questo punto un ulteriore capitolo dedicato alle invenzioni di Gianandrea, di cui Lorenzo Loli (Bologna 1612 c. – 1691) fu perfetto traduttore in acquaforte, ma scelgo di isolarlo da questa seconda parte per farne un testo autonomo.
Tra le poche pale d’altare conosciute e di ampio formato, merita una citazione la sontuosa e tenera Presentazione della Vergine al Tempio della Pinacoteca Nazionale di Bologna[18] (foto 53)
mentre comportarono imprese minori, seppur condotte con raffinatissima attenzione, la Sant’Agata in carcere, conservata nel medesimo Museo[19] (foto 54) e la Crocefissione con la Vergine, Santa Caterina e San Michele, della Chiesa bolognese di San Benedetto[20] (foto 55).
Ma i temi sacri più adatti al temperamento di Gianandrea sono quelli della contemplazione individuale, ravvicinata, come quello della Vergine col Bambino in braccio come una tela che identificai qualche anno fa in una collezione privata (foto 56), assieme a un san Girolamo già ricordato[21].
Altre due deliziose opere, raffiguranti una Madonna del Rosario, col Bambino in braccio[22] (foto 57 e 58)
mostrano una grazia particolare, molto vicina a un’inedita figura di Vergine in preghiera, conservata nel Palazzo Rosso di Genova[23] (foto 59) e all’ Immacolata che ricondussi a Ginevra Cantofoli qualche anno fa (foto 60). Questa assonanza purista conferma la ricostruzione, che allora feci, di un alunnato di Ginevra nello studio di Sirani, ancor prima che Elisabetta iniziasse a dipingere[24].
Testimonia questa intimità del sacro un’altra Immacolata Concezione di Gianandrea, conservata alla Pinacoteca Nazionale di Bologna[25] (foto 61), che intenerisce quel che in genere Guido Reni rappresentava come altero e distante.
Ritengo fortemente simbolico il gesto del Padre Eterno che tiene per le spalle la Vergine, come se la stesse accompagnando a muovere i primi passi nel cielo. Con questa scelta compositiva Gianandrea Sirani compie quasi un “uso personale” della iconografia teologica, nel sotteso rimando al rapporto con la propria figlia.
A questo proposito credo sia da attribuire a Elisabetta l’angioletto che indica la Madonna, come attestazione di un contributo all’invenzione del Padre. In un disegno preparatorio, conservato al Louvre come opera di Giacinto Giminiani[26] (foto 62), le fisionomie di quel putto sembrano diverse, mentre appartiene allo stile di Elisabetta un altro foglio ispirato alla medesima composizione[27] (foto 63).
D’altro canto i primi passi della figlia in questo campo dovettero seguire le orme e le imprese del genitore, anche se fu rapido il raggiungimento della piena autonomia per la giovane Sirani. Esemplari in tal senso sono, io credo, le due redazioni dell’Assunta, nelle quali si può registrare un crescendo dell’aiuto di Elisabetta, ancora legato alla definizione di qualche angioletto nella versione piccola (cm. 80 x 60), di collezione privata[28] (foto 64),
mentre appare più consistente e perfino determinante, quello che la pittrice aggiunge nella grande pala (cm. 460 x 330) della parrocchiale di Borgo Panigale[29] (foto 65), nella quale anche la figura della Vergine assume una sinuosità e un contrasto timbrico che non appartengono a Gianandrea.
Questa dinamica di aiuti più o meno consistenti si ritrova in tutte le botteghe artistiche dell’epoca, ancor più se di carattere familiare come questa. La fulminea progressione qualitativa di Elisabetta la spinse ovviamente a organizzare una propria autonoma committenza, ma fu indubbiamente Gianandrea, che lo stesso Malvasia ci indica estremamente orgoglioso della figlia, a rendere noti i suoi mirabili progressi che la portarono al successo.
La premurosa e sovrastante figura del Padre Eterno nell’Immacolata Concezione (foto 61) della Pinacoteca bolognese resta, a mio parere, la migliore rappresentazione visiva di questo rapporto, fissandone un’istantanea che lo vede presentare la figlia prediletta, ribadendone al contempo il proprio controllo.
Massimo PULINI Bologna 1 febbraio 2020
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