Nica FIORI
La Pala dei Decemviri del Perugino ricomposta nei Musei Vaticani
Se è vero che Raffaello elaborò il suo personale linguaggio artistico attraverso un incessante processo di osservazione e selezione, assorbendo come una spugna gli aspetti più interessanti dei maggiori pittori del suo tempo, certo molto deve aver influito negli anni della sua formazione la struttura compositiva e l’equilibrio formale delle opere del suo maestro Pietro Vannucci, detto il Perugino. Ed è per questo che nell’anniversario dei cinquecento anni dalla morte di Raffaello, i Musei Vaticani iniziano le celebrazioni raffaellesche con l’esposizione di una delle opere più significative del Perugino, nella mostra “All’alba di Raffaello. La Pala dei Decemviri del Perugino”, dall’8 febbraio al 30 aprile 2020 nella Sala XVII della Pinacoteca Vaticana.
La piccola mostra, realizzata in collaborazione con la Galleria Nazionale dell’Umbria, propone la ricomposizione scenografica dell’intera Pala, realizzata nel 1495-1496 per la Cappella del Palazzo dei Priori (il Palazzo Pubblico del Collegio dei Decemviri) di Perugia, già presentata con grande successo nella sua collocazione originaria nel capoluogo umbro. La pala fu smembrata a seguito delle requisizioni napoleoniche del 1797, quando il dipinto principale venne mandato a Parigi (ma poi fu recuperato e portato in Vaticano), mentre la cornice rimase a Perugia.
Dopo tanto tempo sono state riunite insieme la tavola centrale, dipinta a tempera, raffigurante la Madonna col Bambino e Santi, della Pinacoteca Vaticana, con la cimasa raffigurante Cristo in pietà, della Galleria Nazionale dell’Umbria, e con la cornice, realizzata da Giovanni Battista di Cecco, detto il Bastone, in legno intagliato, dorato e dipinto.
La pala, ricordata da Giorgio Vasari e da altre fonti per la sua bellezza, è caratterizzata da un solenne classicismo delle figure e da un rigoroso impianto prospettico spaziale; sulla pedana del trono della Madonna si legge “Hoc Petrus de Chastro Plebis pinxit”, con riferimento alla città di origine dell’autore, che non è Perugia, ma Città della Pieve.
Come viene chiarito nei pannelli esplicativi, la Pala dei Decemviri era stata commissionata nel 1479 a un pittore locale, Pietro di Galeotto, alla cui morte, sopraggiunta nel 1483, l’opera risultava solamente abbozzata. L’incarico venne quindi dato a Pietro Perugino, che il 28 novembre dello stesso 1483 si impegnò a consegnare il dipinto entro quattro mesi. Dopo la firma del contratto, però, il Perugino si rese irreperibile e i Priori affidarono l’incarico a Sante di Apollonio il quale, tuttavia, non portò a termine il lavoro, che nell’estate del 1485 venne nuovamente assegnato al Perugino. Anche in quest’occasione, a causa dell’epidemia di peste che infuriava a Perugia e di una violenta guerra civile, l’esecuzione della pala venne rimandata, finché i Priori stipularono con il Perugino un nuovo contratto, datato 6 marzo 1495, in cui il pittore si impegnava a consegnare l’opera entro sei mesi per la somma di 100 ducati.
Nel documento veniva specificato il soggetto cui il Perugino doveva attenersi: nella pala doveva rappresentare una Madonna con il Bambino in trono tra i santi Ercolano, Costanzo, Lorenzo e Ludovico da Tolosa, mentre nella cimasa era prevista una Pietà di Cristo.
I santi prescelti dovevano indubbiamente avere un significato speciale per i committenti. Ercolano, vescovo di Perugia, era morto nel 549 nel tentativo di arrestare l’assedio da parte del re ostrogoto Totila. Costanzo, martirizzato all’epoca di Marco Aurelio, era stato il primo vescovo della città. Lorenzo era il santo patrono di Perugia, tanto che gli era stato dedicato il duomo. Ludovico di Tolosa, canonizzato nel 1315, era, invece, il protettore del Palazzo dei Priori.
Barbara Jatta, direttrice dei Musei Vaticani e curatrice della mostra insieme a Marco Pierini (direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria), ha evidenziato come
“La Sacra conversazione si svolge entro un arioso portico rinascimentale aperto su un placido paesaggio collinare. Riferimenti puntuali al Polittico di sant’Agostino di Piero della Francesca sono riscontrabili nel complesso trono marmoreo dipinto dal Perugino, che si è ispirato per l’iconografia generale anche alle sue due precedenti pale per san Domenico a Fiesole (1493) e per sant’Agostino a Cremona (1494)”.
“Assai differente dalla pala – sempre secondo la Jatta – appare la cimasa. Essa raffigura un Cristo in pietà che emerge dal sarcofago, caratterizzato da un efficace contrappunto chiaroscurale, nonché da un realismo – evidente soprattutto nelle mani traforate dai chiodi – e da un pathos non immuni all’influsso della coeva pittura fiamminga e tedesca”.
La presenza di questo Cristo va intesa probabilmente come un omaggio al Monte di Pietà di Perugia, che era stato avviato nel 1462 per favorire con piccoli prestiti le persone bisognose.
Il dipinto centrale, più tipico stilisticamente del “divin pittore” Perugino, per usare un’espressione di Giovanni Santi, è caratterizzato da armonia ed eleganza, soprattutto nella fusione dei personaggi con l’ambiente architettonico. La Madonna col Bambino, inserita in un trono a nicchia, ha un volto dolcissimo e i santi sembrano assorti nella loro contemplazione. I due sulla destra sono distinguibili dall’abbigliamento, San Lorenzo con il tipico abito da diacono e San Ludovico con i gigli di Francia sul manto. Quanto ai santi di Perugia Ercolano (con la mitria in testa) e Costanzo, raffigurati sulla sinistra, guardano ognuno in direzione delle proprie storie, che erano raffigurate nella Cappella del Palazzo dei Priori, dove i perugini hanno potuto ammirare la Pala fino al 1553, quando venne trasferita in un’altra cappella dello stesso palazzo. Purtroppo nel 1797 l’opera venne smembrata e confiscata dalle truppe napoleoniche. Il dipinto centrale fu trasportato a Parigi, dove venne collocato sopra la Santa Cecilia di Raffaello nella Grande Galleria del Louvre. La preziosa cornice e l’intensa cimasa rimasero a Perugia e nel 1863 entrarono a far parte della Galleria Nazionale dell’Umbria.
Con la caduta di Napoleone il grandioso Museo Universale del Louvre, che era stato concepito dall’imperatore come un’esposizione d’arte destinata a raccogliere le opere più eccelse provenienti dai territori del suo impero, in gran parte portate via da collezioni e chiese italiane, si ridimensionò, perché giustamente i paesi derubati chiesero di riavere indietro le loro opere. Con il Congresso di Vienna (1814-1815) lo Stato Pontificio e le molte amministrazioni locali della penisola italiana riuscirono a ottenere la restituzione dell’80% delle opere, che rientrarono a Bologna alla fine del 1815 e a Roma all’inizio del 1816. Fu Antonio Canova, dato il prestigio di cui godeva nei vari paesi europei, a trattare la restituzione dei beni pontifici, incaricato allo scopo da Pio VII.
Grazie a Canova ritornarono nel Vaticano tanti capolavori di arte classica, tra cui il Laocoonte, l’Apollo del Belvedere, il Torso del Belvedere, il Nilo, per citare solo le sculture più note, mentre tra i capolavori di pittura depredati da tante chiese romane ricordiamo in particolare la Deposizione di Caravaggio e la Trasfigurazione di Raffaello, attualmente nella Pinacoteca Vaticana. Canova riuscì anche a recuperare molte opere provenienti da chiese, palazzi, monasteri dello Stato Pontificio, tra cui la celebre Madonna di Foligno di Raffaello e la Pala dei Decemviri del Perugino.
Riportata da Canova al Vaticano, la Pala del Perugino venne sistemata nel restaurato museo pontificio di Pio VII, con il preciso intento di testimoniare la restaurazione del potere temporale e spirituale del Pontefice.
Dalla Pinacoteca di Pio VII, passò poi in quella di Pio IX nei Palazzi Vaticani e successivamente in quella di san Pio X. Dal 1932 venne collocata nella nuova Pinacoteca Vaticana, voluta da Pio XI all’indomani della firma dei Trattati lateranensi, e posta nella sala precedente a quella dedicata al grande Raffaello, dalla quale non si era mai spostata prima di questa iniziativa di ricomposizione e di duplice esposizione a Perugia e in Vaticano.
Più volte sottoposta a restauro nel corso del tempo presso i Musei Vaticani, in tempi recenti la tavola è stata oggetto di nuovi studi archivistici e di analisi diagnostiche, al fine di permettere la realizzazione di questa mostra, e di meglio comprendere quali sarebbero poi state le potenzialità artistiche di Raffaello Sanzio, che sicuramente deve aver visto a suo tempo la Pala. Un’opera che a noi appare come una sublimazione della santità e ci meraviglia non poco, pertanto, apprendere da Vasari che Perugino non fosse in realtà un uomo religioso, ma addirittura ateo:
“Fu Pietro persona di assai poca religione e non se gli poté mai far credere l’immortalità dell’anima, anzi con parole accomodate al suo cervello di porfido, ostinatissimamente ricusò ogni buona via. Aveva ogni sua speranza ne’ beni della fortuna, e per danari avrebbe fatto ogni male contratto”.
Anche se Vasari riconosce la sua grande perizia nella pittura, attribuisce a Perugino una venalità, che lo rende antipatico e ipocrita. Ma forse le cose non stavano proprio così.
Le sue figure, mai drammatiche, ci appaiono adatte a rendere la santità e il misticismo e il mondo che lui raffigura sembra confermare questa visione del divino. Come scrive John Ruskin in Ariadne Florentina (1876)
“Nel Perugino non c’è tenebra, nessun errore. Qualsiasi colore risulta seducente, e tutto lo spazio è luce. Il mondo, l’universo appare divino: ogni tristezza rientra nell’armonia generale; ogni malinconia nella pace”.
Nica FIORI Roma 9 febbraio 2020
La mostra rimarrà aperta al pubblico dall’8 febbraio al 30 aprile 2020.
Orario di visita: dal lunedì al sabato, ore 9-18 (ultimo accesso ore 16). Visita libera inclusa nel biglietto d’ingresso dei Musei Vaticani.
www.museivaticani.va