di Natale MAFFIOLI
DUE SCULTURE INEDITE DI GIUSEPPE E GIOVANNI BATTISTA PIAMONTINI[1]
“Adì primo gennaio 1761 in Firenze. Essendo che sia stato proposto agl’Ill.mi Signori Marchesi Andrea, e Carlo Gerini dal Signore Gio: Batta Piamontini Scultore di vendere a detti Signori Marchesi una statua di marmo rappresentante un Milone già lavorata dal fu Signore Giuseppe Piamontini di lui padre, e di farne altra compagna rappresentante un Fauno per porsi amendue in due Nicchie del primo ricetto del Palazzo di loro abitazione, ed avendo i medesimi Signori Marchesi aderito a tal proposta colle condizioni, che appresso; quindi è che per la presente privata scritta da valere, e tenere come se fosse un pubblico giurato, e quantificato istrumento si dichiara: primo che la Statua del Fauno da farsi deve essere di marmo con un capriolo sulle spalle, e con altri rittributi conforme il modello già proposto”[2].
I due Gerini citati nello scritto sono Andrea (1691-1766) e il nipote Carlo (1739-1796), figlio di Giovanni fratello di Andrea. Nelle vicende del casato il primo si era segnalato per aver contribuito ad incrementare la quadreria di famiglia, e per aver iniziato, a partire dal 1758, l’incisione dei cartoni di Marcantonio Franceschini, impresa questa portata a termine da Carlo circa venti anni dopo[3].
Questo non era il primo lavoro di Giovanni Battista Piamontini a favore dei marchesi Gerini; poco meno di un anno prima (all’inizio del 1760), era stato coinvolto nel restauro di quattro busti di marmo e la ricevuta di pagamento (datata 18 marzo 1760) precisa la natura del suo intervento: non solo aveva rifatto le basi alle quattro sculture, ma aveva anche
“riscarpellato tutto il panno e raspato rifattoli il naso a due e racomodato la Bocca a uno che gli era stravolta e tutti ripomiciati e rilustrati e rimesso sei perni di ferro 4 alle Base, e 2 alle teste e levato quei di legnio” [4].
Il testo non chiarisce se si trattasse di sculture antiche o moderne, bisognose di un intervento di ripristino.
L’accordo tra i Gerini e il Piamontini del gennaio 1761 è curioso perché, contrariamente alla pratica che vedeva i nobili commissionare all’artista un’opera, dalla privata scritta si evince che fu Giovanni Battista ad offrire l’opera sua e quella paterna. Il contratto ebbe, comunque, seguito perché le due sculture, il Milone di Crotone (fig. 1-2-3),
già eseguita da Giuseppe e l’altra, il Fauno con capretto sulle spalle (fig. 4-5-6),
realizzata ex novo, entrarono a far parte della collezione fiorentina dei Gerini e, con tutta probabilità, furono collocate nel luogo designato dai marchesi, nelle “due Nicchie del primo ricetto del Palazzo di loro abitazione”, cioè nell’androne di accesso del palazzo in via del Cocomero, ciò è dimostrato dalle forti colature di fuliggine presenti sulla superficie marmorea, indice della secolare esposizione in un luogo non chiuso. Attualmente le due sculture sono in raccolta privata.
La scultura del Milone[5] è firmata con le iniziali del Piamontini e datata sulla base posteriore del tronco che tiene prigioniero l’eroe mitico: “G.P.F. 1740” (fig. 7). Il catalogo della mostra dell’Accademia del Disegno del 1729[6] includeva un marmo di questo soggetto dato allo scultore, certamente non si trattava del nostro per la difformità della datazione[7], ma con tutta probabilità era in tutto simile all’opera più tarda, perché allo stesso Giuseppe Piamontini si attribuiscono almeno tre versioni in bronzo di piccolo formato, di identico soggetto[8] e con le stesse caratteristiche formali, ciò conferma il successo di questa tipologia.
Non esiste un modello né antico né recente a cui lo scultore si sia rifatto per cui questo esemplare del Milone è tutto di sua invenzione.
Stando alle brevi note biografiche della rassegna di Giovanni Pratesi, “Nel 1739-1740 [il Piamontini] eseguì l’ultima opera oggi nota: il Giove dell’arco di Porta San Gallo a Firenze” [9]. La cronologia certa del Milone lo fa probabilmente assurgere a lavoro successivo al Giove, perciò ultimo, per ora, tra quelli conosciuti dello scultore. D’altra parte il fatto che nel 1761 fosse ancora nella bottega del figlio fa pensare ad un lavoro eseguito per una committenza che lo aveva rifiutato, oppure ad un’opera eseguita sul limitare della vita (il Piamontini morì nel 1744), senza destinazione particolare e rimasta in bottega tra le cose non immediatamente alienate anche dopo la sua morte. Certamente sfuggì anche al destino comune a tante cose che sono cedute in occasione di traslochi, perché Giovanni Battista subentrò al padre alla Sapienza (un immobile fiorentino situato tra la SS. Annunziata e S. Marco), negli ambienti che precedentemente erano stati di Damiano Cappelli, collaboratore di Ferdinando Tacca[10].
La scultura raffigura con puntualità alcuni aspetti della leggendaria fine di Milone di Crotone. La sua morte è avvolta nel mistero, ma, come per la maggior parte dei greci famosi, la vicenda è stata rivestita dal mito: stando al testo delle Notti attiche di Aulo Gellio, Milone, un tempo famoso atleta, vincitore di numerose gare,
“mentre egli era già avanti negli anni e aveva abbandonato l’arte atletica, camminando da solo in un luogo boscoso, scorse presso la via una quercia che nella parte mediana era spaccata da una fenditura. Allora, per voler provare se gli fossero rimaste delle forze, introdusse le dita nella cavità dell’albero, tentando di spaccare e squarciare la quercia. Egli riuscì infatti a spaccare e svellere la parte mediana; ma la quercia, spaccata in due parti, quando Milone, credendo di aver raggiunto lo scopo che si era prefisso, rilasciò le mani e per esser cessata la pressione, riprese la primitiva posizione e trattenne e imprigionò le sue mani, essendo di nuovo unita e stretta; ed espose così quell’uomo a essere fatto a pezzi dalle belve”[11].
Il Piamontini ha messo in risalto nel volto del ‘suo’ Milone tutti i segni della vecchiaia. È un viso ricco di patos, con una forte stempiatura, accentuata dai capelli trattenuti all’indietro da una fascia; la barba è folta ma ben curata. Profonde rughe di espressione segnano le gote e la fronte, anche le guance flosce e le ampie orecchie fanno parte delle particolarità di un viso ormai avanti negli anni. Il naso, grosso e tumefatto, reca i segni delle tante lotte sostenute nell’agone. Il timore per il pericolo imminente lo si legge negli occhi sbarrati e nelle labbra tirate. Ritengo che, intenzionalmente, il Piamontini abbia impresso al viso di Milone i tratti di una maschera tragica (fig. 8).
Il fisico, benché non sia rappresentato nel pieno delle forze, conserva ancora la struttura della passata solidità e prestanza. Il Piamontini descrive con passione da naturalista la corteccia scabrosa della quercia, cui Milone resta intrappolato, le sparute foglie e le ghiande spuntate sul tronco o cadute a terra per l’agitarsi dell’eroe.
Lo scomposto agitarsi del corpo evidenzia al massimo il terrone nel sentirsi avvinto e il vecchio atleta è tutto preso dal tentativo di liberarsi; gli svolazzi del panno che in parte lo copre, accentuano la sua frenesia. Il piede sinistro appoggia instabile al terreno mentre la gamba destra si agita libera. Con la mano destra tenta di allargare la fessura dove si trova stretto il braccio sinistro, non la mano della leggenda antica.
La posa agitata del Milone non ha molti riscontri nella produzione del Piamontini; si possono trovare dei riferimenti soprattutto nella Caduta dei giganti, dove una delle figure che emerge dalle rocce è perfettamente assimilabile al Milone.
Le vicende del Fauno con capretto con capretto sulle spalle[12] sono diverse. Come si legge nel contratto di allogazione, è opera di Giovanni Battista, ma ripropone un modello, anche se di maggiori dimensioni e di altra materia, già esplorato dal Padre. Difatti Giuseppe realizzò in età giovanile, una decina di anni dopo il suo soggiorno romano e per conto del Gran Principe Ferdinando, due versioni in bronzo di questo soggetto[13] che riproducevano, in piccolo e con molta libertà, la scultura romana del Fauno con capretto sulle spalle scoperta a Roma attorno al 1675 (priva di braccia e senza un piede) durante i lavori di rifacimento di S. Maria in Vallicella[14].
Il Piamontini fu agevolato nel riproporre fedelmente il modello antico scavato di recente perché, tra il 1681 e il 1686, era a Roma, allievo di Ercole Ferrata, lo stesso che aveva restaurato e integrato l’opera romana per conto della regina Cristina di Svezia. Forse, da quest’opera antica lo stesso Ferrata ricavò un calco in gesso per i più svariati motivi legati all’arte sua e per questo il Piamontini ebbe tutto l’agio di studiarla; non è improbabile che lo stesso Piamontini ne traesse alcuni disegni visionando di persona il pezzo antico nella collezione di Cristina di Svezia, oppure si avvalse di appunti fatti dallo stesso restauratore. L’opera bronzea del Piamontini è attualmente conservato nel Museo fiorentino del Bargello ed è considerato un suo capolavoro giovanile[15].
L’originale romano, come tutte le copie successive, rappresenta un giovane fauno che regge sulle spalle un capretto, forse si tratta del suo contributo per un sacrificio a Pan; la resa della anatomia è perfetta e le movenze del fisico rendono con evidenza la leggerezza propria dell’età. Al tronco che funge da sostegno al corpo è appesa la siringa, lo strumento a fiato caro ai seguaci di Pan. Il nostro fauno però è privo di quegli attributi animaleschi che caratterizzano la divinità; ha sì una parvenza di coda, ma non ha corna caprine e regge con la destra il bastone ritorto, strumento usato dai pastori. Il capo è coronato da una indefinita corona con foglie e frutti e lo sguardo intenso è rivolto alla bestia che porta sulle spalle. Si ritiene che il prototipo che servì da modello per la scultura romana, fosse di età ellenistica, creato in ambito pergameno nel II sec. a.C..
La scultura antica del fauno godette da subito di fama notevole, fu copiata, tra gli altri, da Pierre Lepautre (1659-1744) mentre era a Roma (dal 1683 al1701) pensionante presso l’Accademia di Francia; l’opera è ora conservata al Louvre. Un’ulteriore versione di Isidoro Franchi ma di dimensioni ridotte, si trova nella collezione del duca di Devonshire a Chatsworth (Derbyshire)[16]. Di un originale, di cui si ignora il luogo di conservazione, è stato ricavato il calco in gesso conservato nella galleria delle statue dell’Istituto Superiore d’Arte “A. Venturi” di Modena (fig. 9); non ha alcun rapporto con la statua al Prado perché sono troppi gli elementi che la differenziano.
Il lavoro di Giovanni Battista Piamontini non è una convenzionale copia dall’antico; riprende l’esemplare romano ma ne affina il modellato e definisce i particolari; la figura è migliorata nella scioltezza di modi, resa agile nelle movenze, che paiono dei passi di danza, ed è priva di ogni gravezza; la informa, insomma, delle peculiarità tipiche della scultura tardo barocca.
Nella disamina del lavoro di Giovanni Battista è d’obbligo porsi una domanda: come poteva eseguire una scultura avendo come eventuale modello un lavoro del padre realizzato in dimensioni ridotte circa sessant’anni prima? La scultura in bronzo, poi, è rifinita e levigata in tutti i suoi particolari ed è priva del tronco di sostegno del corpo, elemento questo che caratterizza le opere in marmo; mentre la siringa è posta per terra, ai piedi del fauno.
Giovanni Battista, invece, dimostra di avere una notevole cognizione della scultura madrilena; l’originale misura in altezza 136 centimetri, parte della sua superficie non è finita: il tronco che funge da puntello, la siringa appesa, la capigliatura e l’ornamento del capo del satiro e il vello del capretto, sono in uno stato che precede la rifinitura, difatti la statua
“fu ritrovata tra i resti di una bottega di scultore (alcune sporgenze dei punti per la copiatura meccanica sono ancora visibili e la statua non doveva essere del tutto finita)”[17].
Le dimensioni dell’opera del Piamontini non divergono sostanzialmente dall’originale; l’indeterminatezza della capigliatura e della corona, del vello del capretto e del sostegno della gamba destra rivelano una grande affinità e rimandano puntualmente alla condizione dell’opera scavata nel 1675. Il particolare più significativo di questa corrispondenza lo si trova nelle ciocche dei capelli che incorniciano il volto, perché, ammesse alcune licenze, sono particolarmente somiglianti.
Nel dettato contrattuale compare la clausola:
“la Statua del Fauno da farsi deve essere di marmo con un capriolo sulle spalle, e con altri rittributi conforme il modello già proposto”[18].
Quale modello ha dunque presentato il Piamontini ai marchesi?
Può darsi che Giovanni Battista abbia visto la statua nella collezione romana degli Odescalchi, dove si trovava nel 1704[19], prima di essere venduta negli anni 20 del ‘700 al re di Spagna. Non si hanno però notizie di un suo viaggio a Roma, ma è più probabile che si sia avvalso degli stessi disegni che erano serviti al padre per il suo lavoro in bronzo, oppure di un calco della scultura romana; al riguardo è interessante il fatto che a Firenze fosse presente il calco di una versione, diversa per alcuni particolari, dal fauno madrileno, nel 1787, fu acquistato presso il fiorentino Vincenzo Ciampi, insieme ad altri gessi da esporre in quella che diverrà la galleria delle statue dell’Istituto Superiore d’Arte “A. Venturi” di Modena.
Le modalità del pagamento al Piamontini erano esposte con chiarezza nel contratto dove si legge che
“il prezzo di dette due statue deve essere scudi trecento moneta di lire 7 per scudo, cosi fermato d’accordo da pagarsi come appresso – che scudi centottanta in mano al Signore Gio: Batta Piamontini per dipendenza d’un cambio di detta somma, in tre rate cioè sc. sessanta questo suddetto giorno, e sc. centoventi in altre due rate da estinguersi a tutto giugno prossimo futuro”[20],
a questo fu aggiunta la clausola che
“nel caso, che detto Signore Gio: Batta Piamontini si rendesse impotente al lavoro, o che passasse all’altra vita, che Dio non voglia, prima che sia terminata la Statua del Fauno, il detto Signore Piamontini sia tenuto far terminare la medesima, e respittivamente il medesimo s’intenda doversi fare da suoi Eredi, conforme il modello, senza che il Signore Piamontini, ne i suoi Eredi possino pretendere cos’alcune di vantaggio agli scudi trecento da pagarsi come sopra”[21].
Tuttavia gli esborsi non furono effettuati in conformità alla scrittura. Si iniziò il pagamento in quello stesso mese di gennaio:
“Adì 22 gennaio 1761, Io Gio: Batta Piamontini ò ricevuto scudi venti dal Molto Reverendo Signore Domenico Bambocci come Maestro di Casa dell’Ill.mo Signore Marchese Andrea Gerini a conto delle due Statue una rappresentante Milone e l’altra un Fauno et in fede”[22]. Seguì un pagamento “Adì primo aprile, Io Gio: Batta Piamontini ò ricevuto scudi venti dal Molto Reverendo Signore Domenico Bambocci come Maestro di Casa dell’Ill.mo Signore Marchese Andrea Gerini ducati 60 tanti sono a conto delle due Statue una rappresentante Milone e l’altra un Fauno”[23]. Un ulteriore “Adì 30 giugno, Io Gio: Batta Piamontini ò ricevuto scudi venti dal Molto Reverendo Signore Domenico Bambocci come Maestro di Casa dell’Ill.mo Signore Marchese Andrea Gerini ducati 60 tanti sono a conto delle due Statue una rappresentante Milone e l’altra un Fauno”[24].
Per concludersi con l’ultimo pagamento certificato il 29 ottobre 1761.
Natale MAFFIOLI Torino 9 febbraio 2020
NOTE