di Francesco MONTUORI
Migranti sull’About
di M. Martini e F. Montuori
IL CONGEDO DELL’ECLETTISMO
Scrive Piranesi,
A certi genj dunque, che la povertà delle loro idee, rende più del dovere amanti della semplicità, sembrerà forse che di troppi ornamenti vadano carichi questi miei disegni, e si tornerà a rinfacciare il detto di Montesquieu, “che un edificio carico di ornamenti è un enigma per gli occhi, come un poema confuso lo è per la mente”; ed io torno a ripetere, che sono quanto il Montesquieu, e quanto altri nemico degli enigmi, e della confusione, e che disapprovo al par di chi che sia la molteplicità degli ornamenti.
Nelle Antichità Romane, disegnate nel 1762 per il volume Il Campo Marzio dell’Antica Roma, Giovan Battista Piranesi, “architetto scellerato”, come lo definirà Manfredo Tafuri nel suo La sfera e il labirinto, immagina Roma come una città la cui struttura urbana è composta da un coacervo di frammenti: come in un liquido amniotico essi cozzano gli uni contro gli altri determinando nuovi frammenti che galleggiano in un caos informe. In questa città di oggetti disintegrati, una sorta di catalogo privo di una qualsiasi logica compositiva, l’ordine architettonico è inesistente: frazionato, moltiplicato frantumato; unico residuo naturalistico rimane la sinuosa linea del fiume Tevere (fig. 1)
Con questa immagine Piranesi ci vuole dimostrare quanto sia vasto il campo delle variazioni formali, una volta che la vasta area semantica del classicismo e dello storicismo settecentesco venga investito da una sperimentazione basata su una deformazione geometrica priva di limiti.
Piranesi vive la crisi dell’armonia classicista come una perdita dolorosa quanto irreversibile. Di più: la liberazione dal formalismo classico sancisce il divorzio definitivo dei segni architettonici dal loro significato originario; ridotti a pura e casuale geometria sanciscono di fatto la conquista del concetto dell’autonomia dell’arte.
Ad osservare nel dettaglio le singole figure delle strutture urbane, le immagini ed i rilievi degli edifici da lui riproposti, Piranesi dimostra una precisa capacità archeologica di rappresentazione, fin nel minimo dettaglio (fig. 2).
Nel Campo Marzio piranesiano ammiriamo un lato lo studio attento e scientifico dei reperti archeologici; dall’altra la più assoluta casualità con cui vengono rappresentati i rapporti spaziali fra i diversi oggetti urbani: dinamica della variazione e dell’arbitrio contro staticità della forma classica.
Un nuovo modo di rapportarsi alla storia
Piranesi apre, nella seconda metà del Settecento, una nuova strada nel ricorrente tema del rapporto dell’architettura con l’eredità dell’Antico: l’antichità classica, ridotta a frammento, slegata dai rapporti organici fra le parti diviene un catalogo infinito di immagini, di forme architettoniche e di decori, disponibili per qualsiasi uso ed occasione.
Contribuiranno a questa nuova fase non un solo un preciso periodo storico ma una vasta area di riferimenti: l’arte greca e romana, modello di bellezza per Winckelmanm e Mengs, ma anche l’arte cristiana del medioevo e, più precisamente il “romanico” ed il “gotico”.
Nell’Ottocento italiano si inserirà inoltre una forte componente politica e culturale: il classico viene riproposto all’ammirazione e all’imitazione perché bisogna affrontare i problemi del presente, con la stessa fermezza d’animo con cui gli antichi affrontavano quelli del loro tempo; il medievalismo perché rappresentava il legame con le tradizioni nazionali i cui ideali venivano a coincidere con quelli di democrazia e patriottismo dell’alta borghesia in lotta per l’Unità d’Italia.
Il rapporto con la storia che già fu posto nel Settecento, prima e dopo Piranesi, con l’affermazione del classicismo divenuto neo-classicismo, acquista una nuova dimensione temporale: esso riguarda tutta la storia; il greco ed il romano, l’arabo e l’egizio che diventano stili a disposizione. L’eclettismo sarà non soltanto la possibilità di adottare liberamente tutti gli stili del passato ma verrà giustificato in quanto legato alla più moderna ragione di vivere. Così il neogotico acquista un significato “religioso” e dovrà essere adottato per le chiese mentre il neoclassico si ricollega alla sua funzione civile e sarà consigliato per i parlamenti, i musei, i palazzi di giustizia.
Non è un caso dunque che fin dagli inizi dell’Ottocento si manifesti un forte sviluppo della manualistica in architettura: Edward Dodwell pubblica A classical and topographical tour through Gregee, risultato di due spedizioni archeologiche nel 1801 e nel 1806, in cui vengono descritti minuziosamente monumenti e siti archeologici; nel 1824 escono i quattro volumi di Francois Mazois, Les ruines de Pompei; nel 1834 Luigi Canina scrive L’architettura antica descritta e dimostrata con i monumenti, una raccolta di tavole da utilizzare come metodo di progettazione; il manuale di Guillaume Durand, Recueil parallèle des édificies anciens e modernes remarcables, che diverrà una delle prime storie universali dell’architettura, descritta e dimostrata attraverso i suoi monumenti; ed infine il più importante e diffuso, Recueil des decorations intérieurs di Percier e Fontaine che approfondisce i temi della decorazione degli edifici e dell’arredo degli interni (fig. 3).
I protagonisti.
Protagonisti principali dell’eclettismo ottocentesco furono gli architetti Giuseppe Jappelli, Pietro Selvatico e Camillo Boito. Essi si segnalano nel dibattito teorico e per il carattere esplicito delle loro costruzioni.
Nel 1837 Giuseppe Jappelli progetta e realizza a Padova il famoso Pedrocchino, ampliamento in stile neogotico del caffè Pedrocchi, già realizzato dallo stesso Jappelli in stile neogreco nel 1816 . Il Pedrocchino è la prima e importante realizzazione del goticismo italiano (fig. 4). Aperto giorno e notte, per tutto l’Ottocento è rimasto ancor’oggi il punto di incontro prediletto dalla borghesia, frequentato da intellettuali, accademici, uomini politici. Fu anche lo scenario delle insurrezioni risorgimentali e degli scontri fra patavini ed austriaci. Al Pedrocchi Standhal si fermava spesso a cena considerandolo le meilleur d’Italie, Tra il 1840 e il 1842 vennero realizzati gli arredi e le decorazioni delle sale al primo piano, ognuna dedicata ad un epoca: etrusca, greca, romana, medioevale, ercolana, napoleonica, moresca ed egizia.
Pietro Selvatico, allievo di Jappelli, docente di Estetica e di Storia dell’Architettura all’Accademia veneziana, per cui pubblica il suo studio Sull’Architettura e sulla Scultura a Venezia, si schierò con convinzione a favore delle architetture basilicali bizantine e lombarde considerate la massima e originale espressione della cultura architettonica italiana, da contrapporre al periodo dell’imitazione, il Cinquecento, ed a quello degli abusi, il Barocco.
Selvatico sosterrà che
“nelle semplici disposizioni basilicali sia meglio provveduta al rito cristiano che col più sontuoso tempia alla greca”;
per i sacri edifici bisognerà dunque rifarsi
“a quell’arte archiacuta, la quale nata col fiorire del Cristianesimo, più di ogni altra sa diventare l’interprete dello spiritualismo della Chiesa”.
Ogni tipologia architettonica richiederà uno stile del passato che rappresenti l’odierna maniera di vivere e di morire. Cosi le chiese dovranno essere romaniche o gotiche; i cimiteri bizantini; i caffè arabi e le case di abitazione rinascimentali. Con coerenza il Selvatico applica le sue convinzioni e progetta, realizzandola, la chiesa di San Pietro a Trento (fig. 5)
dove facciata e campanile sono ispirati al gotico tedesco mentre per il coronamento opterà per lo stile perpendicolare inglese.
Camillo Boito puntualizza nel 1872 i termini del dibattito intorno all’esigenza di uno stile nazionale.
“L’architetto ha bisogno di sentirsi in mano uno stile che si presti docile, sollecito in ogni caso; che dia modo di ornare all’occasione ciascuna parte non simmetrica dell’edificio;”
un catalogo di forme – colonne, finestre, cornicioni, archi –
“una lingua abbondante di parole e di frasi, libera nella sintassi, immaginosa ed esatta, poetica e scientifica, la quale si presti alla espressione dei più ardui e dei più diversi concetti.”
Il medioevo e più esattamente il romanico, emergono con chiarezza dagli scritti del Boito come i periodi progressivi della storia d’Italia da legare al presente, per ricavarne una coerente identità stilistica nazionale.
Boito respingerà dunque un generico eclettismo, incapace di dare ordine alla molteplicità dei linguaggi nella città; individua nella matrice eclettica la “serva imitazione di parecchie epoche insieme”, e non lo studio libero e differenziato del passato; lega l’attacco alla “confusione eclettica” con la proposta di un unico “stile italiano dell’evomedio”, e dello “stile lombardesco”, di cui abbondano in ogni regione gli esempi con cui confrontarsi. Rivendica l’autonomia dall’architettura “oltremontana archiacuta” a favore di uno stile più aderente ai bisogni contemporanei della società italiana ed in questo senso orienterà la sua attività professionale (fig. 6).
C’è in questo scelta del Boito il peso dell’insegnamento del Selvatico di cui era stato allievo all’Accademia di Venezia tra 1854 e il 1856 e di cui sembra amplificare le teorie sulla possibilità e la convenienza di un nuovo stile nazionale
La lacerante vicenda della facciata di Santa Maria del Fiore.
Un acceso dibattito si aprì quando si pose, ineludibile, il problema di completare la facciata della Duomo di Santa Maria del Fiore a Firenze. Ne furono protagonisti Camillo Boito, Pietro Selvatico ed Eugène Viollet-Le-Duc, che fu il testardo e geniale protagonista di una gigantesca operazione di restauro di cattedrali, palazzi, castelli europei. Fra i suoi lavori emerge la cattedrale di Notre Dame a Parigi.
Il tema più scottante e divisivo riguardava l’apparato terminale della nuova facciata. Avviata da Arnolfo di Cambio, dopo una fase trecentesca attribuibile a Giotto, e decorata in seguito, fino a tutto il 1400, da importanti lavori scultorei di Donatello, Nanni di Banco, Giovanni Todesco ed altri, l’intervento arnolfiano si estendeva per tutta la lunghezza del fronte della Cattedrale per un’altezza di circa dieci metri. Esso è stato recentemente riproposto nell’allestimento dell’architetto Adolfo Natalini nel rinnovato Museo dell’Opera del Duomo (fig. 7).
L’opera venne tuttavia inopinatamente demolita nel 1587 e, nonostante i numerosi progetti, la facciata non fu mai completata fino al tardo Ottocento. Nel 1842 Niccolò Matas, che aveva già realizzato la facciata di Santa Croce, propose un suo progetto in stile neogotico con una conclusione monocuspidale. Non se ne fece nulla; fu bandito un primo concorso nel 1861 e quindi un secondo nel 1864 che fu vinto da Emilio De Fabris con una soluzione tricuspidale ispirata anch’essa al gotico trecentesco fiorentino (fig. 8).
Camillo Boito attaccò duramente la soluzione prescelta dalla giuria, contrario al coronamento tricuspidale; il pensiero positivista, essenzialmente laico, appoggiava la soluzione basilicale ad una cuspide, mentre i cattolici più tradizionalisti sostenevano la soluzione a tre cuspidi di matrice più spiccatamente gotica, che appariva più consona ed adatta ad una Cattedrale.
Fu bandito un terzo concorso nel 1865; vinse ancora il progetto del De Fabris, sostenuto da Pietro Selvatico e De Fabris fu finalmente nominato “architetto della facciata di Santa Maria del Fiore”. Ma le polemiche non si sedarono; nel 1873 De Fabris mise mano ad un nuovo disegno affiancando alla soluzione tricuspidale la proposta di una facciata ad una sola cuspide. Per far pronunciare i fiorentini venne realizzato in legno un plastico al vero che fu accostato al fronte della Cattedrale: nella prima metà la soluzione a tre cuspidi, nella seconda metà quella ad una sola cuspide. Il 5 dicembre del 1883, la facciata veniva finalmente presentata alla città che scelse definitivamente la soluzione monocuspidale. (fig. 9).
La struttura a marmi policromi di Santa Maria del Fiore, che una volta completata fu definita da Enzo Carli, storico dell’arte italiana del primo novecento, uno degli episodi tragici del cantiere della Cattedrale fiorentina, ci consegna alla fine una coerente soluzione ottocentesca, seppur appesantita dalla sovrabbondanza dei partiti decorativi marmorei. Per motivi patriottici fu utilizzata una maggior quantità di rosso di Siena: il bianco, il rosso e il verde dei marmi renderanno onore al tricolore dell’Italia appena unificata.
Il gusto neogotico, temperato dalla maniera romanica, aveva dimostrato, a differenza del neoclassico, per la sua duttilità e concretezza una razionalità non astratta, intimamente legata alla prassi del costruire. Permise il completamento ed il restauro di numerosi monumenti sacri e chiese medioevali; fu preferito in quanto rievocava periodi progressivi ed indipendenti della storia patria, contribuiva all’ unità stilistica dell’architettura italiana e sollecitava una memoria collettiva in grado di alimentare la nascente coscienza unitaria.
La maniera eclettica segnerà nella cultura europea il congedo della storia intesa come passato. Solo dopo questo congedo sarà possibile affrontare senza rimpianti la battaglia per l’arte moderna.
Francesco MONTUORI Roma 9 febbraio 2020