P d L
Continua con notevole successo la mostra Publio Morbiducci – Nudi Maschili in corso presso la galleria romana il Laocoonte e dedicata alla esposizione di un buon numero di disegni dell’artista –scampati alla distruzione messa in atto da lui stesso subito dopo la guerra- raffiguranti tra l’altro alcuni degli atleti che adornano lo Stadio dei Marmi e lo Stadio del Tennis a Roma.
Si tratta dell’ennesima meritoria opera di recupero che la Galleria di via Monterone, condotta da Monica Cardarelli, mette in atto della figura e dell’opera di un artista che vicende che poco hanno a che fare con la storia dell’arte, avevano posto quasi nel dimenticatoio, ridimensionandone il ruolo fino a renderlo trascurabile.
“Chi non sa che davanti a Porta Pia c’è il Bersagliere? Chi all’Eur può ignorare la coppia di Dioscuri e i loro cavalli di travertino …?”
si chiede giustamente Marco Fabio Apolloni che insieme a Francesco Parisi e ad Anna Maria Morbiducci, la figlia dell’artista, firma i saggi in catalogo (v. Monica Cardarelli, a cura di, Publio Morbiducci. Nudi maschili, De Luca editore d’arte, Roma 2020) ; ecco, non tantissimi in effetti sanno che l’autore di queste ed altre significative grandi opere scultoree fu proprio Publio Morbiducci e anche oggi, che ricorre il 150 anniversario della realizzazione del monumento al Bersagliere, duole dover constatare come ancora resti ignoto ai più chi ne fu l’autore.
Ma il rilancio e la riabilitazione, se si può dire, di una personalità che era finita nell’ombra non può prescindere dalla ricostruzione, per quanto possibile in questa sede, del panorama e delle motivazioni che lo portarono invece ad essere un attivo protagonista delle vicende artistiche dei suoi tempi.
Si può allora effettivamente partire da qui, dalla sua opera forse più famosa, perché, anche se non compare nulla in proposito nella mostra del Laocoonte (i disegni preparatori del monumento sono tra quelli distrutti dopo la guerra “nel tentativo –scrive Anna Maria Morbiducci- di far dimenticare l’arte monumentale precedente”), tuttavia è possibile in qualche modo fare chiarezza, sia pure nei limiti di una recensione, sulla vicenda di un “artista un tempo assai noto ed oggi dimenticato” come ebbe a scrivere Giorgio Ciucci quando la Accademia Nazionale di San Luca –di cui era segretario- rese a Morbiducci “un primo doveroso omaggio” tra il Novembre e il Dicembre 1998, nel 35° anniversario della scomparsa avvenuta nel 1963 a Roma, dov’era nato nel 1889 (Cfr Publio Morbiducci.1889 – 1963. Pitture Sculture Medaglie, Accademia Nazionale di San Luca, 3 novembre – 18 dicembre 1999, Roma 1999, p. 11).
E’ vero infatti che l’opera che giganteggia nel piazzale di Porta Pia –inaugurata il 18 settembre 1932 ben distante, e non a caso, dai Patti Lateranensi– venne commissionata all’artista “per espressa volontà di Mussolini” che lo considerava evidentemente tra i più capaci a “farsi interprete dei valori umani e popolari … funzionali al culto del nuovo stato”, del tutto in linea con la cifra stilistica che fu la caratteristica del fascismo tra gli anni Venti e Trenta, allorquando proprio Morbiducci si era guadagnato l’apprezzamento delle riviste di regime che lo citavano e forse lo incitavano quale “figlio del popolo”.
Ma è proprio qui, a guardar bene, in quella massa di bronzo che è il Bersagliere– “anche lui –ha scritto Nicoletta Cardano– un eroe del popolo”- informata di spirito patriottico, allo stesso tempo impegnativa nella struttura e popolare nella ricezione, in quella posa a passo di carica e nello sguardo rivolto a spingere i compagni all’attacco, con cui certamente voleva sollecitare l’immaginario popolare, che ci pare aprirsi uno iato tra un Morbiducci che incrocia modernità e tradizione in senso retorico, e un altro Morbiducci che pare volerne superare gli steccati, tramite un linguaggio fortemente realistico.
E forse non sbagliamo a ritenere che quella reazione scattata dopo la fine del secondo conflitto (quando, come scrive Anna Maria Morbiducci “si rinchiuse nel suo studio come un animale ferito” a distruggere i segni -o meglio i disegni- del passato) sia stata appunto l’effetto di una personale meditazione -alla stessa stregua di come può essere un’analisi introspettiva- sui due piani paralleli su cui era corsa la sua vicenda umana e artistica: il primo piano per così dire pubblico, quello delle grandi opere, della retorica sia pure mal digerita ma funzionale alla celebrazione del regime, e l’altro più intimo, personale, dove lo sguardo dell’artista si fa diverso, espressione di “un sentimento intimo della struttura –come ha colto con acume Claudio Strinati, proprio a proposito del Bersagliere- simboleggiato nel movimento avvolgente della forma che ritorna su se stessa in un’idea di sicurezza di sé e di umana compassione… che si ritrova persino nei momenti più avanguardistici della carriera di Morbiducci” (cfr. C. Strinati, Introduzione, in Publio Morbiducci, Sculture dipinti disegni, Galleria Ricerca d’Arte, 5 dicembre 2000 – 15 gennaio 2001, p. 9).
Si pone dunque qui una prima significativa conferma –psicologica prim’ancora che estetica, a guardar bene- di quello che fu il tragitto certamente tormentato che non poche personalità intrapresero allorquando proporre un esito artistico frutto di una sensibilità in linea con una identità nazionale fortemente sentita rischiava però di rivelarsi alla fine un tributo da pagare ad un malinteso spirito identitario che si ammantava dei miti della romanità. In realtà, come scrive Monica Cardarelli richiamandosi ai disegni oggi in bella mostra nella sua Galleria
“Morbiducci fu sempre guidato da un connaturato ‘senso della misura’, leggibile anche in questi Nudi Maschili la cui bellezza è il risultato dell’equilibrio e dell’armonia di tutte le sue parti, esattamente come per gli atleti immortali dell’antica Grecia”.
E non è inutile allora, per completare questo discorso, ricordare che Morbiducci aderì al fascismo assai più in là rispetto alla Marcia su Roma, cioè l’anno successivo al Bersagliere, nel 1933, mentre nel 1915 risultava iscritto al Partito Socialista da cui uscì nel ’21 per aderire al neonato Partito Comunista d’Italia di Gramsci e Bordiga di cui amava esibire il distintivo, cosa che lo avrebbe portato ad uno scontro a Porta Metronia con un gruppo di fascisti “da solo, armato di un bastone” da cui sarebbe “uscito malconcio”. E più oltre, a regime ormai consolidato, stante ai ricordi di Anna Maria, avrebbe risposto “Io lavoro” a Mussolini che gli chiedeva perché “non si facesse mai vedere a corte”.
Se torniamo ora indietro nel tempo, precisamente alla metà del secondo decennio del XX secolo, si vede bene come la necessità di cogliere le differenti attitudini espressive, di misurarsi con differenti modalità esecutive aveva caratterizzato l’impegno dell’artista evidentemente ancora alla ricerca di una piena e completa maturità. Ne sono chiara testimonianza i tre Autoritratti, tutti datati 1915, dove si è potuto leggere nel primo “una fase funzionale alla definizione plastica dei piani”, nell’altro un “uso fortemente materico del colore … con una caratterizzazione antiborghese e bohémienne” ed infine “una fisionomia dai toni più caldi … più da intellettuale che non da bohémienne” (vedi le schede n. 44 a pag. 68, n.55 a pag. 53 e 67 a pag. 79, in Publio Morbiducci.1889 – 1963, cit).
Sono le prove pittoriche degli anni in cui alla vigilia della Grande Guerra Morbiducci appare effettivamente “come pittore tra i più straordinari e all’avanguardia … pari –scrive Apolloni– per intensità espressionistica ai mostri sacri della pittura europea”. Ma seppure accettiamo che si trattò davvero di “un debutto straordinario” esso venne presto abbandonato e l’esperienza secessionista –se possiamo definirla così- resta dunque “relegata nell’ambito delle prove giovanili” dell’artista, come ha scritto la Cardano (cit, p. 18): sarà il maestro Cambellotti ad allontanarlo dai “rischi di contaminazione con l’avanguardia”.
Un rischio di “contaminazione”, va sottolineato, cui non solo Morbiducci, bensì tutta una serie di artisti, nel momento in cui in Italia cambiano situazioni politiche e riferimenti culturali, sfuggono del tutto; non c’è traccia in effetti di quanto allora fosse in discussione in Europa, di come cioè procedesse il dibattito su temi di assoluta modernità quali quello sulla teoria dell’astrazione nelle arti figurative che Kandisky aveva resa nota già nel 1912, per non dire del manifesto di Gropius per Bauhaus incentrato sulla questione della sintesi nelle arti nell’architettura, quando già Bruno Taut –certamente l’esponente di maggio rilievo dell’espressionismo in architettura- aveva lanciato l’appello per una “grande architettura” formata “da tutte le arti”. D’altra parte la lacuna, per dire così, nell’attenzione dei nostri artisti verso questi temi –tanto più grave per Morbiducci che in qualche modo riassumeva in sé le varie figure- può spiegarsi in larga misura con il precipitare della situazione politica, nel momento dell’avvento del regime fascista, del tutto intollerante ideologicamente rispetto all’idea di una architettura sorta come “ultima delle arti” che in Der Stijl assumeva un significato ‘democratico’ esattamente opposto a quello dell’architettura cui le altre arti devono subordinarsi.
E vale a questo punto fare una breve digressione sul ruolo estremamente significativo sotto questo aspetto, che rivestì Marcello Piacentini – il quale, non va dimenticato, varie volte fece avere importanti commissioni ad artisti non del tutto allineati al regime, tra cui lo stesso Morbiducci che poté realizzare nel 1928, grazie a lui le due porte di bronzo per il salone della casa dei Mutilati di Roma. Scriveva Piacentini nel ’37, in occasione della esposizione internazionale di Parigi, in qualità di “architetto del Padiglione” che “le statue debbono tutte accordarsi tra loro e mantenere uno spirito unitario”, con l’invitabile raccomandazione agli scultori
“occorre che ogni artista debba nei limiti dl possibile rinunziare ad una troppo evidente personalità per concorrere a questo concetto di coordinamento”.
E’ la plastica dimostrazione del ruolo assegnato all’Architettura, quando la partecipazione all’evento parigino di tre paesi totalitari, Germania, Unione Sovietica e Italia dimostrò chiaramente che “L’architettura dei Padiglioni di questi Paesi, si appropria dei luoghi legittimando l’ideologia di regime attraverso l’esibizione del potere” (cfr, Guido Cimadomo e Renzo Lecardane, Il potere dell’architettura. L’ideologia di regime all’Esposizione Internazionale di Parigi 1937, in « Diacronie » 18, 2, 2014 ma consultabile sul web https://doi.org/10.4000/diacronie.1508 ).
Morbiducci non venne chiamato a realizzare nessuna delle 24 statue del nostro padiglione. D’altra parte già da tempo la “influenza del suo maestro Cambellotti” – una influenza “cupa e possente” secondo Strinati– aveva indirizzato il nostro artista “nel solco della tradizione” il che lo portò -nel momento in cui la pittura e la scultura italiane erano dominate dalle “forme sintetiche e classiche dell’antica tradizione italiana rinascimentale”- alla xilografia e alle medaglie “che erano parte integrante della propaganda del regime” nelle quali peraltro egli indubbiamente “raggiunse una sua indiscutibile perfezione”.
Insomma, dopo la “secessione romana” il ritorno all’ordine e le possibilità realizzative offerte dal regime, collegando insieme monumentalità celebrativa, scultura e architettura.
In questo contesto furono concepiti i progetti per il Foro Italico, con lo Stadio dei Marmi e lo stadio del Tennis vale a dire “sessantaquattro statue di atleti per il primo, diciotto per il secondo, ognuna alta quattro metri, ognuna pagata da una provincia d’Italia. Tutte in marmo di Carrara, poiché l’impresa fu ideata da Renato Ricci, ras di Carrara”.
E’ Marco Fabio Apolloni a spiegare bene quale fosse allora l’impegno e quali le realizzazioni di Morbiducci, che in effetti riguardarono il Discobolo a riposo per lo Stadio dei Marmi, nonché il Pescatore con il rampone e quello con la rete per lo Stadio del Tennis.
Ma la parte grafica esposta nella Galleria il Laocoonte va ben oltre, ed è necessario esaminare almeno alcuni dei disegni (vedi sopra) che sono messi in mostra fino al prossimo 12 marzo per rendersi conto della grandezza del maestro; possiamo qui citarne evidentemente solo una parte, quelli che ci sono apparsi più significativi, lasciando naturalmente al lettore del catalogo o meglio al visitatore della Galleria il compito di verificare e di approfondire ‘de visu’.
Ad esempio gli studi per il Discobolo, oppure quelli sui nudi di schiena e di profili, i vari studi di nudi maschili in piedi, oppure la perfezione plastica di alcuni modelli ci appaiono particolarmente importanti.
E ci sembra inutile entrare nel merito di una valutazione perché non faremmo altro che ripetere in questa sede quanto sul tema ‘Morbiducci disegnatore’ è stato analizzato e messo in risalto da parte di chi ne ha analizzato a fondo i lavori, dal momento che in effetti molto si è detto e scritto della capacità espressività dell’artista, della sua magistrale tecnica esecutiva, della “maniacale attenzione al disegno nei diversi stadi dal bozzetto preparatorio fino a quello autonomo”, di come la sua matita “corse veloce a generare, tramite linee nette e chiaroscuri”, senza dire della sagacia con cui era stato capace di seguire gli insegnamenti dell’altro maestro “altrettanto austero e riservato” cioè Zanelli con cui collaborò alla messa a punto della “Dea Roma”, la statua che doveva erigersi al centro dell’Altare della Patria a piazza Venezia, grazie al quale poté affinare “ il modo di disegnare e di concepire la forma” (Strinati, cit. p. 10).
Ma più interessante ancora, per concludere, è rendersi conto grazie a questa notevole esposizione come per tutti gli anni trenta “Morbiducci disegnò corpi in pose atletiche, cercando quella sintesi, tra reale e ideale, che era stato l’antico e lontano segreto della bellezza greca”; ed è certamente in queste prove grafiche, come scrive Marco Fabio Apolloni, che si vede ed apprezza la volontà di
“trasformare l’individualità dei suoi modelli in tipi ideali, alla ricerca di una venustà italica che risulta sempre temperata dall’ideale classico e lontana dal disumanesimo culturista che trionferà alle Olimpiadi di Berlino del ’36”.
P d L Roma 16 febbraio 2020