di Elena TAMBURINI
Quando scrivevo sui legami che si potevano ipotizzare tra comici e pittori a cavallo della fine del Cinquecento e sul ruolo di alcune Accademie al riguardo, e particolarmente dell’Accademia milanese della Val di Blenio, mi rendevo conto di scrivere cose importanti e per pittori importanti come Tintoretto e Caravaggio. Ma certi collegamenti, anche sul solo versante dell’arte, erano stati a suo tempo rifiutati da studiosi più che autorevoli come Roberto Longhi. Benché molto tempo sia passato e le metodologie storiografiche siano oggi molto meno rigide, non era comunque facile che il messaggio fosse raccolto, date le perduranti separazioni disciplinari tra gli studiosi e la noncuranza con cui spesso gli studi di storia del teatro sono trattati. Si potrebbe dire che le antiche diffidenze nei confronti del teatro permangano ancora negli studi…o in certi studi, devo aggiungere.
Perché Cristina Terzaghi, una coraggiosa storica dell’arte, ha saputo vincere l’antico pregiudizio e, cercando l’origine del naturalismo caravaggesco, ha superato i più ovvii interrogativi sull’ambiente romano o napoletano, allargando l’indagine a quello lombardo in cui il Caravaggio si è formato e indirizzandola in particolare verso quella straordinaria Accademia bleniese, diretta da Giovan Paolo Lomazzo, noto teorico d’arte e biografo di Leonardo in particolare, in cui si potrebbe dire confluissero diverse e importanti tensioni, nate dalle discipline diverse che in essa confluivano.
Un’Accademia fondata nel 1560 e chiusa per motivi mai chiariti verso la fine del secolo, che si segnala appunto non solo per gli orientamenti trasgressivi che i componimenti poetici raccolti nei Rabisch (tradotti dai vari dialetti e pubblicati e curati una trentina di anni fa dall’italianista Dante Isella), pur nella Milano borromaica, rivelano: concezioni del tutto materiali, una vocazione verso il comico esplicitamente dichiarata, puntuali e rituali riunioni notturne nel segno di Bacco, un trattato di riferimento come il vietatissimo De occulta philosophia dell’Agrippa e perfino coraggiose e inequivocabili denunce delle tristissime condizioni dei vari mestieri. Quel che più conta però è che l’Accademia era aperta, oltre che ai letterati, come era l’uso – ma qui si tratta di letterati il più delle volte considerati minori e irregolari – , anche agli artisti, perfino ad artigiani come ricamatori e medaglisti e (addirittura!) ai comici: l’accettazione di ogni nuovo membro era infatti subordinata al fatto che l’aspirante fosse “dotto in qualcosa”. Il minimo che si possa dire è che si trattava di un’Accademia davvero anticonformista; e in tempo di Controriforma non è dir poco.
Fra gli accademici non solo la pratica del teatro era una vera consuetudine: sia interna, cioè organizzata fra loro in una dimensione dilettante, che esterna, perché almeno alcuni, fra cui lo stesso Lomazzo, erano certamente abituali spettatori e si dichiaravano ammiratori dei comici Gelosi. Uno di questi famosi comici era anche un accademico bleniese a pieno titolo: e non è personaggio di poco conto, trattandosi di Simone da Bologna, detto fra i comici Zan Panza de Pegora, straordinario Zanni, sempre citato per le origini della commedia dell’arte, e particolarmente là dove si intende contestare quella vulgata secondo la quale uno Zanni equivale a un ignorante saltimbanco. Di questo Simone da Bologna, la cui completa identità resta finora ignota, si sa solo che era uno straordinario attore, “rarissimo” nel rappresentare il facchino bergamasco, cioè lo Zanni, ma ancora più “raro” nelle arguzie, e nelle invenzioni spiritose; e non solo quelle, specifica un contemporaneo, che danno piacere, ma anche quelle che “s’insegnano”. Una dimensione del teatro comico come “invenzione” in senso lato (e dunque anche in una sua potenziale capacità di insegnare a inventare, tra drammaturgia ed espressione), che conferisce a Simone un’indubbia patente di autorevolezza; anche se si tratta di una strana patente, conferita com’è attraverso un personaggio, il facchino e/o lo Zanni, da sempre considerati ai margini della cultura “alta”, se non addirittura respinti.
Facchini si dicevano anche gli stessi Accademici bleniesi, dichiarando in tal modo la loro ideale vicinanza alla fascia più umile della società, a quelli cioè che possedevano solo la forza delle braccia (e si potrebbero ricordare i proletari di Marx, che possedevano solo la prole…!). Che poi simili orientamenti e frequentazioni potessero indurre accenti stravaganti o “grotteschi” e in particolare un’arte generalmente (spesso anche oggi…!) considerata inferiore era quasi fatale. Su questi aspetti resta ancor oggi fondamentale la mostra milanese Rabisch, datata al 1998, con gli interventi di Giulio Bora, Francesco Porzio e Franco Paliaga, forse i primi a dichiarare in anni recenti il debito di Caravaggio verso l’Accademia.
Simone Peterzano, unico maestro sicuro di Caravaggio nei suoi anni lombardi, non è noto per essere un pittore grottesco e, almeno ai miei occhi di non specialista, non si segnala per particolare originalità. Ma al Peterzano è indirizzato uno dei sonetti del Lomazzo raccolti nelle Rime e poi nei Rabisch. Vi si fa riferimento a un dipinto che aveva per argomento Angelica e Medoro, tratto da un repertorio, quello ariostesco, su cui si esercitavano contemporaneamente anche le fantasie di tanti comici e comiche (per non parlare dei musici e delle musiche): si pensi per esempio ai Lamenti che l’attrice (e cantante) coeva Barbara Flaminia traeva dal Furioso.
Il sonetto mette in scena (è il caso di dirlo) Medoro ferito, ma “con la bocca aperta” e cioè mentre parla, con il capo sul grembo di Angelica che lo guarda addolorata; e, in preda al delirio (o all’amore nascente…), dice: “Questa è l’offerta/ Che a me fai senza alcun [mio] merto, mia Dea“. E intanto lei gli tiene la mano sul collo e lui è pallido, sdraiato, privo di forze; e intorno vi sono morti e vivi e alberi; e ombre e luci tali che, osserva il Lomazzo, chi guarda può scoprire “l’opra”. La parola opera aveva all’epoca un significato molto vicino alla sua etimologia latina (non è un caso che è ancor oggi la più usata per l’opera in musica), indicava cioè un lavoro compiuto spesso a diversi livelli (o in diverse fasi), finalizzato a un’unica creazione: in questo caso la tecnica del pittore Peterzano, la sua attività concettuale e anche il complesso lavoro di raccordo fra le due dimensioni. Dunque, secondo Lomazzo, lo spettatore di questo dipinto può scoprirne il valore pittorico e non solo quello pittorico.
Il sonetto spiega ciò che un uomo di quell’epoca, e in particolare un accademico bleniese, vedeva nel quadro e i motivi della sua predilezione. E questo è presto detto: è la verità, la verità di una situazione e di un dialogo. Un dialogo in realtà assente nel Furioso, una drammaturgia che, pur essendo fedele al poema, esprime quel che il poema non dice, mettendo in rilievo il sorgere e l’agitarsi degli affetti, con tanto di ambiente scenico, proprio come li avrebbe creati un comico. Per la stessa verità i dettati dell’Accademia fiorentina del Disegno erano certo sentiti troppo stretti: come conciliare l’accurato disegno preparatorio a una realtà di cui si coglieva l’intima, continua trasformazione? come rendere la varietà dei sentimenti e delle espressioni sui volti e sui corpi, quali cominciavano a mostrarsi attraverso le esibizioni dei comici? come trovare, tra le tante azioni e anche tra i vari movimenti di una stessa azione, il più adatto a comunicare quella passione?
Per questi nuovi intenti era nata l’Accademia bleniese, esplicitamente ispirata a Leonardo, alla sua inquieta attenzione ai “moti dell’animo” ; e il Lomazzo si proponeva anzi la scrittura di un testo che raccogliesse le vite degli artisti milanesi, accanto e prima di quelli fiorentini esaltati dal Vasari. Le tecniche potevano essere diverse: per esempio quelle che in quegli anni si usavano a Venezia, tra Tiziano (specie il Tiziano degli anni più tardi) e Tintoretto. La tecnica dei pittori che sull’onda dei comici, ma anche degli stessi bleniesi, si potrebbero chiamare “pittori all’improvviso”: la tecnica delle pennellate date senza disegno preventivo, ma avendo alle spalle una tale padronanza dell’arte che questo non era più necessario.
O, appunto, quella di Caravaggio che coglie l’acme dell’azione valendosi dei modelli in posa, che egli illuminava dall’alto con una luce artificiale che troppe volte è stata detta “teatrale”, ma che teatrale non era, a partire dall’ovvia considerazione (ovvia per noi che studiamo il teatro) che allora imperavano luci di ribalta e poco di più, comunque certamente non ancora dirette su un unico soggetto di particolare interesse. Quella luce artificiale sapientemente governata ben prima della sua applicazione sulle scene è un’invenzione di Caravaggio. Le sapienze risvegliate dal teatro erano qui comunque in gioco, in primis quelle dell’interpretazione; studiate allo specchio e/o anche pensate in funzione di una drammaturgia, come ci rivela il sonetto dedicato al Peterzano e come usavano i comici. Lo scopo era quello di ottenere una nuova verità di atteggiamenti e di espressioni: e non c’è bisogno di dire quanto quella di Caravaggio sia pregnante e straordinaria.
Annibale Carracci era noto per rappresentare dal vivo e semplicemente, solo con un panno addosso, un soggetto squalificato come il facchino, essendo anche criticato dal Malvasia per “farsi un grand’onore con poco capitale d’ingegno”: egli ostentava così di non esercitare per nulla quella capacità d'”invenzione” sopra citata che era generalmente la più apprezzata (l’Arte), ma non nell’Accademia bleniese, in cui prevaleva il tema del ritorno alla Natura. Non a caso dunque egli era, attraverso i pittori cremonesi Campi, in sicuro rapporto con quell’Accademia.
Anche il Bacchino malato di Caravaggio ha il solo lenzuolo addosso, annodato su una spalla. Ma l’essenziale abbigliamento non ricorda solo il facchino citato. Come osservato a suo tempo dallo storico dell’arte Carlo Bertelli, era anche quello che figurava nei frontespizi di alcune opere del Lomazzo, ispirati ai modi dei filosofi cinici: un abbigliamento che dice la sua vicinanza agli ideali di semplicità e di umiltà professati dall’Accademia.
Così come quel lenzuolo, anche l’uva e il Bacco del dipinto caravaggesco dicono (forse) la persistenza di un ricordo: esperienze riferite dal Peterzano al suo giovane allievo o da lui vissute personalmente a fianco del maestro. Se questo è vero, il pallore del Bacchino, come è stato notato, più che un’allusione a un periodo di convalescenza del pittore, sarebbe una citazione celata delle riunioni notturne bleniesi e delle copiose libagioni in onore del dio.
Pittori e comici, due figure in passato del tutto disprezzate (i comici continueranno a esserlo), paiono in questa stagione a cavallo della fine del Cinquecento davvero alleati e non solo in questa particolarissima Accademia milanese, che appare in questo senso la più impegnata: cito per esempio anche quella romana degli Umoristi o quella fiorentina degli Incostanti.
Non è probabilmente importante capire da chi vengono davvero le capitali trasformazioni di questi anni, se dai pittori o dai comici. E’ questa empatia che è davvero nuova, le amicizie umane che nascono attraverso alcune Accademie, o che da queste sono alimentate e i cambiamenti antropologici e i nuovi pensieri che esse suscitano: se i comici hanno bisogno degli artisti per diffondere le loro immagini e la loro fama, i pittori hanno bisogno di animare le figure con azioni giuste ed espressive. In queste comuni esperienze il teatro si rivela per quello che all’epoca era (e che ancora per lungo tempo sarà, finché occuperà una parte così importante dell’immaginario collettivo): un anello di straordinaria importanza per i rapporti umani e per la circolazione delle culture.
Invece è spesso oscurato, anche quando, come in questo caso e in quello della citata e coeva nascente opera in musica, le sue influenze nei confronti delle discipline più affermate sono davvero evidenti.
Elena TAMBURINI Roma 1 marzo 2020