Le Idi di Marzo nei Fasti di Ovidio. La festa di Anna Perenna e il ricordo della morte di Giulio Cesare

di Nica FIORI

Statua di Giulio Cesare in via dei Fori Imperiali

Il 15 marzo nel calendario romano corrispondeva al giorno delle Idi, che cadevano il 15 anche nei mesi di maggio, luglio e ottobre, e il 13 negli altri mesi. Residuo dell’originario calendario lunare, in cui ricorrevano nei pleniluni, le Idi erano giorni consacrati a Giove, come scrive Ovidio nel I libro dei Fasti:

Nel giorno delle Idi un sacerdote casto nel tempio del grande Giove / sacrifica alle fiamme le viscere di un agnello castrato”.

Il tempio cui si riferisce il poeta è quello di Giove Capitolino e il sacerdote era il flamen Dialis, che non era abitualmente casto, in quanto sposato (la moglie aveva il titolo di flaminica), ma doveva osservare una rigida astinenza sessuale in occasione dei sacrifici rituali.

Quando si parla del calendario romano, è quasi d’obbligo consultare I Fasti, l’opera forse più seria di Ovidio, nella quale, procedendo da gennaio a giugno per un totale di sei libri (pubblicati nel 9 d.C.), egli spiega mese per mese i riti, le leggende e gli episodi storici, con raffinato spirito erudito e una punta d’ironia. L’opera prevedeva dodici libri, ma non è stata portata a termine, perché Ovidio venne costretto da Augusto all’esilio a Tomi, sul Mar Nero, per una colpa rimasta a tutt’oggi misteriosa. Ricordiamo che il titolo deriva dai giorni fasti, quelli in cui era lecito compiere determinate azioni, contrapposti ai giorni nefasti.

Le Idi di marzo più celebri dell’antichità sono quelle del 44 a.C., ovvero la data in cui venne assassinato Giulio Cesare, presso la Curia di Pompeo in Campo Marzio (da situare topograficamente nell’area archeologica di Largo Argentina). La sua morte, ordita da un gruppo di senatori, capeggiati da Bruto e Cassio, diventò uno degli episodi più noti dell’antichità romana, interpretato in più modi nei secoli successivi.

Per alcuni divenne il simbolo della giusta uccisione di un tiranno, necessaria per salvare le istituzioni della Repubblica: come per esempio nel busto di Bruto scolpito da Michelangelo (1538 ca., Firenze, Museo Nazionale del Bargello) o nella tragedia Bruto II di Vittorio Alfieri. Per altri Bruto e Cassio erano il simbolo del tradimento dei benefattori, come per Dante, che nel XXXIV canto dell’Inferno li sprofonda nella Giudecca, facendoli dilaniare dai denti di Satana, insieme a Giuda.

La storia ci racconta che Ottaviano (pronipote e figlio adottivo di Cesare) e Marco Antonio, volendo vendicare Cesare, intrapresero una guerra contro Bruto e Cassio, che si concluse a Filippi (42 a.C.) con il suicidio dei cesaricidi, ma poi si scontrarono tra di loro, finché Ottaviano sconfisse Marco Antonio e Cleopatra nella battaglia di Azio (31 a.C.), conquistando così il regno d’Egitto. E nel 27 a.C., dopo aver formalmente restaurato l’antica repubblica e rimesso nelle mani del Senato e del popolo tutti i poteri e le province, Ottaviano fu proclamato Augusto, dando inizio al regime imperiale.

Le Idi di marzo sono rimaste nell’immaginario collettivo come simbolo di un giorno fatidico, perché, come raccontano gli storici antichi, la morte era stata preannunciata a Cesare dall’aruspice Spurinna proprio per quella data. Molti capolavori d’arte e opere letterarie le hanno usate nel titolo o come momento clou della narrazione, dal Giulio Cesare di Shakespeare alla poesia Idi di marzo del poeta greco Costantino Kavafis, dal romanzo Idi di marzo di Thornton Wilder, a quello omonimo di Valerio Massimo Manfredi.

In campo artistico si ricordano soprattutto alcuni dipinti ottocenteschi, tra cui La morte di Cesare di Vincenzo Camuccini (1806, Napoli, Museo di Capodimonte),

V. Camuccini, La morte di Cesare, Napoli

un’opera neoclassica dalle dimensioni gigantesche (m 7×4) e dal tono aulico tipico della pittura storica. Il pittore, nato a Roma, si avvalse della consulenza dell’erudito Ennio Quirino Visconti per ricostruire la scena, e in particolare la sala con le nicchie ospitanti le divinità capitoline e la statua di Pompeo, ai piedi della quale, come afferma Plutarco, era stato colpito Cesare (statua che all’epoca veniva identificata con quella di Palazzo Spada, che dà il nome alla Sala di Pompeo).

Anche l’Assassinio di Cesare di Karl Theodor von Piloty (1865, Hannover, Niedersächsisches Landesmuseum) mostra la statua di Pompeo, ma solo inferiormente,

K. T. von Piloty, Assassinio di Cesare, Hannover

dando più importanza alle figure dei protagonisti. Cesare è raffigurato con una corona dorata in testa, mentre Lucio Tillio Cimbro gli mostra una petizione: è il segnale per dare il via alle pugnalate, secondo quanto racconta Svetonio.

Ne La morte di Cesare di Jean-Léon Gérôme (1859-1867, Baltimora, The Walters Art Museum), Cesare appare invece già morto, steso a terra sulla sinistra e coperto da una veste, dove si vede una macchia di sangue.

J.L.Gerome, La morte di Cesare, Baltimora

Al centro del dipinto ci sono i suoi uccisori, con le loro toghe bianche, che contrastano con l’oscurità dell’ambiente circostante (anche in questo caso si vede la statua di Pompeo). Non c’è nessun protagonista in primo piano, perché è la vittoria del popolo contro il potere che l’artista vuole esprimere.

Ma, tornando al calendario romano, vediamo cosa scrive Ovidio sulle Idi di marzo. Nel III libro dei Fasti leggiamo che in quel giorno a Roma si celebrava una divinità arcaica, dal curioso nome di Anna Perenna:

Nelle Idi si celebra la gioiosa festa di Anna Perenna, / non lontano dalle tue rive, o Tevere, che giungi qui forestiero. / Viene la plebe e sparsa qua e là per la verde erba / s’inebria di vino e ognuno si sdraia con la propria compagna. / … si scaldano di sole e di vino, e si augurano tanti anni / quante sono le coppe che tracannano, e le contano bevendo. /… Al ritorno barcollano, dando spettacolo di sé a tutti, / e la gente che li incontra li chiama fortunati”.
Museo nazionale Romano. Sala di Anna Perenna

Secondo quanto ci fa sapere il poeta, la festa doveva consistere in una scampagnata fuoriporta dalle connotazioni orgiastiche, che celebrava il primitivo capodanno (quando marzo era il primo mese, prima del calendario di Numa Pompilio, che aggiunse gennaio e febbraio ai 10 mesi romulei) in una sorta di ribaltamento dei costumi abituali. Marziale in un epigramma specifica che la festa aveva luogo in un bosco sacro (nemus), presso la riva del Tevere, in via Flaminia ad lapidem primum, ovvero alla prima pietra miliare della Flaminia.

La scoperta della Fonte di Anna Perenna, avvenuta casualmente nel 1999 durante i lavori per un parcheggio interrato nella zona di piazza Euclide, alle pendici dei Monti Parioli, ha gettato nuova luce sul suo antico culto, evidenziando nella festa altre componenti importanti, oltre a quella orgiastica, come quella ludico-agonistica, quella magica e allo stesso tempo il concetto del fluire dell’acqua, che era strettamente legato al fluire del tempo.

La sua scoperta è da mettere in relazione, secondo la direttrice degli scavi Marina Piranomonte, con un grande edificio di epoca arcaica in blocchi di tufo, rinvenuto nel 1996 durante la costruzione dell’Auditorium, che ha restituito una grande tegola di terracotta con la testa di Acheloo, divinità fluviale padre delle ninfe (raffigurato con due corna).

Testa di Acheloo, dalla Villa dell’Auditorium

L’ipotesi che quell’edificio, precedentemente proposto come una villa, potesse far parte del santuario di Anna Perenna è  abbastanza plausibile, perché dista solo 200 metri dalla fonte di acqua sorgiva e dal bosco sacro alla dea, che la studiosa individua nella collina dei Monti Parioli.

Iscrizione con dedica alle ninfe di Anna Perenna

Dagli scavi è emersa una vasca rettangolare di oltre 4 m di lunghezza, chiusa con cocci di anfore vinarie intorno al V secolo d.C. Sono state rinvenute tre iscrizioni murate sulla vasca stessa, delle quali due (del II secolo d.C.) con dedica alle ninfe consacrate ad Anna Perenna, numerosissime monete di età imperiale, lucerne e scatoline di piombo trovate in una cisterna comunicante con la fontana. Una delle iscrizioni, inserita in un’ara marmorea, allude all’aiuto ottenuto da una coppia per vincere una gara. Evidentemente durante la festa si svolgevano attività agonistiche, ma poteva anche trattarsi di una competizione basata sul numero di coppe di vino bevute. Quanto alle monetine, venivano gettate nell’acqua per buon augurio, mentre le lucerne erano in gran parte delle offerte votive. Dai vari materiali ritrovati, attualmente conservati nel Museo nazionale Romano, alle Terme di Diocleziano, si deduce che la fonte è stata in funzione dal IV secolo a.C. al V d.C.

Lucerne, dalla Fonte di Anna Perenna
Figurina di cera, della Fonte di Anna Perenna –
Pentolone per pozioni magiche, dalla Fonte di Anna Perenna

Sorprendente è stato il contenuto delle scatoline di piombo ritrovate nella cisterna. Si tratta di figurine antropomorfe di cera, impastata con farina intorno a un osso, con chiodi infissi sulla pancia come si usa fare nelle fatture. Anche un pentolone di rame rinvenuto nello stesso contesto fa pensare alla preparazione di pozioni magiche .

Riproduzione del testo di una defixio

Si è visto inoltre che sei lucerne contenevano al loro interno delle lastre di piombo con defixiones, ovvero testi con maledizioni o richieste di punizione contro qualcuno. Ricordiamo che il termine defixio deriva dal latino defigere (inchiodare), in quanto il supporto scrittorio veniva arrotolato e inchiodato. Tra queste maledizioni, c’è un’invocazione al demone Abraxas, e un’altra, scritta presumibilmente da un cristiano, nella quale compare anche il nome di Cristo (e più esattamente “Cristo nostro” contrapposto alle “ninfe vostre”), che evidentemente era considerato come un grande guaritore e mago. Tutto ciò fa pensare a dei riti magici, vietati dallo stato romano, che si possono spiegare in parte tenendo conto che Anna Perenna è una divinità arcaica, estranea alla città e piuttosto misteriosa.

Ma chi era Anna?

Sulla sua identità si sapeva in realtà molto poco già al tempo di Ovidio. Egli non tralascia alcuna congettura e ci fa sapere che taluni la ritenevano una personificazione della Luna (le Idi corrispondevano anticamente alla luna piena), altri una ninfa, nutrice di Giove. Altri ancora pensavano che fosse la vecchia che da Boville portava ogni giorno cibo e conforto ai plebei secessionisti che si erano raccolti sul Monte Sacro; a ricompensa di tale servizio, la plebe romana, una volta tornata in città, volle erigerle una statua..

La versione più accreditata, secondo Ovidio, era che Anna fosse la sorella di Didone che, profuga e raminga dopo il suicidio di Didone,

Guercino, Morte di Didone, Roma, Galleria Spada

approdò un giorno sul lido italico e venne riconosciuta e accolta da Enea, che nel Lazio si era sposato con Lavinia:

Come entrò nel suo palazzo vestita in costume tirio, / Enea cominciò così, nel silenzio di tutti gli altri: / «Ho il sacro dovere, o Lavinia mia sposa, di affidarti costei: / quando sono stato naufrago, ho beneficiato del suo aiuto. / Ella è originaria di Tiro, ed ebbe un regno sul lido di Libia: / ti prego di amarla come s’ama una diletta sorella»”.

Ma Lavinia era insofferente verso la straniera, proveniente da Cartagine (e prima ancora dalla fenicia Tiro), perché con la sua presenza avrebbe potuto risvegliare troppi ricordi nell’amato sposo. Anna, che a sua volta diffidava di Lavinia, ebbe un sogno premonitore in cui le apparve l’amata sorella Didone, che l’avvertiva di una trama ai suoi danni. E fu così che in piena notte scappò. Nella sua folle corsa incontrò Nùmico, dio del fiume omonimo, che la invitò nel suo letto offrendole eterna pace. Anna si gettò nel fiume e diventò ninfa perenne.

Non trovandola più a casa, Enea mandò dei servi a cercarla e quelli, seguendo le sue orme, la videro alfine tra le acque.

Il consapevole fiume fermò e tacitò le sue acque, / e sembrò che lei stessa parlasse: «sono una ninfa del placido Numico: / celata nell’onda perenne mi chiamo Anna Perenna»”.

Per festeggiare la nascita della nuova divinità, i servi si misero a banchettare e da quel momento iniziò l’uso di festeggiarla in quel luogo. Il verbo annare indicava l’introduzione del nuovo anno e perennare il ripetersi della prosperità attraverso le stagioni fino all’anno seguente.

Anna potrebbe essere vista come una dea Madre simboleggiata dalla luna piena, che nel suo ciclico movimento nutre le creature terrestri. Anna Perenna, in effetti, era nutrice, sempre in movimento e allo stesso tempo vecchia, annosa. Forse non a caso il suo nome è molto vicino a quello della divinità induista Annapurna, pure legata alla nutrizione, che denomina una nota montagna del Nepal.

Materiali dalla Fonte di Anna Perenna

Ovidio ci fornisce anche una spiegazione del perché nelle Idi di marzo ci si lasciasse andare nel corso della festa ad atteggiamenti burleschi e osceni. Secondo una leggenda Anna Perenna sarebbe stata una vecchietta – la vecchia di Boville che portava rustiche focacce alla plebe -, che, dopo essere stata divinizzata, avrebbe preso il posto della dea Minerva per burlare Marte in un farsesco incontro amoroso.

Da poco Anna s’era mutata in dea e Gradivo (Marte) / va da lei, e trattala in disparte, le disse così: / «Ti si onora nel mio stesso mese: ho congiunto il mio tempo con il tuo: / dai tuoi buoni uffici dipende una mia grande speranza. / Io guerriero ardo d’amore per Minerva guerriera, / e da lungo tempo alimento questa ferita. / Fa’ dunque che noi, divinità unanimi, possiamo congiungerci: / non ti è sconveniente un simile ufficio, o cortese vecchia»”.

Dopo questa richiesta di Marte, lei si fa beffe del dio con una vana promessa e alla fine gli fa sapere che Minervaa stento ha ceduto alle preghiere” e acconsente a unirsi a lui. Al posto di Minerva va nel talamo la vecchia, coperta da un velo. Quando Marte sta per baciarla, riconosce Anna, si sente beffato e “prova ora vergogna ora collera”.

Solo dopo aver spiegato del perché “si cantano antiche celie e versetti osceni” nelle Idi di marzo, Ovidio finalmente accenna alla data fatidica della morte di Cesare, da lui definito principe.

Ero sul punto di tralasciare le spade che trafissero il nostro principe, / quando dai suoi casti focolari Vesta mi parlò così: / «Non esitare a ricordare; egli fu mio sacerdote, / è me che quelle mani sacrileghe colpirono con le loro armi. / Io stessa sottrassi l’eroe, e lasciai un suo nudo simulacro; / quella che cadde sotto il ferro fu solo l’ombra di Cesare». / Egli, in realtà collocato in cielo, vede gli atrii di Giove / e ha nel grande Foro un tempio a lui consacrato”.

Il poeta si serve del suggerimento di Vesta per solennizzare in pochi versi il ricordo di Giulio Cesare, evocato nella sua dignità di sacerdote (Cesare era Pontefice Massimo), assunto in cielo dalla stessa dea, che al suo posto avrebbe lasciato una parvenza di uomo, un’ombra. Cesare fu il primo romano in epoca storica a essere divinizzato post mortem, come si faceva per i sovrani ellenistici. L’edificazione del santuario del divus Iulius fu decretata nel 42 a.C. dai triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido. Dedicato nel 29 a.C., dopo la definitiva affermazione di Ottaviano, il tempio “nel grande Foro” si trovava vicino alla Regia (la dimora del Pontifex Maximus, accanto alla Casa delle Vestali), nei pressi del luogo dove Cesare fu cremato e dove ancora oggi vengono deposti dei fiori.

Nica FIORI   Roma 15 marzo 2020

Bibliografia:

Ovidio, I Fasti, traduzione di Luca Canali, Milano 1998
Piranomonte (a cura di), Il santuario della musica e il bosco sacro di Anna Perenna, Milano 2002