di Monica LA TORRE
Come navigavano dei ed eroi “dei miti falsi e bugiardi”? Su quali imbarcazioni è avvenuta la colonizzazione magnogreca? Chi muoveva i giganti del mare dell’età imperiale romana? Un viaggio lungo le rotte della classicità, con un’appendice per tutti gli appassionati di vela
Le autostrade del Mare sono sempre quelle, da migliaia di anni. Correnti, venti e confini ne determinano quelle costanti, correnti e venti, le cui geometrie finiscono per trasformarsi in informazioni preziose. Pensiamo al Mediterraneo, alle rotte agevolate da Eolo, agli approdi naturali che ne hanno segnato la colonizzazione magnogreca: ripercorrerle oggi significa tracciare linee che collegano le aree archeologiche più importanti. Da Chio a Sibari, dall’Acaia a Crotone, dall’Eubea ad ischia, dalla Locride Greca alla Locride calabrese.
E da un punto di vista strettamente marinaresco?
Studiando le sfide poste all’uomo dal dover sfruttare queste compagne costanti dei mari, venti e correnti, per potersi spostare da un luogo ad un’altro, salta agli occhi una constatazione affascinante. La tecnologia servita all’uomo per costruire i primi natanti atti alla navigazione, è ancora in uso. Le canoe degli albori non sono state soppiantate dai giganti del mare. Nelle acque del sud est asiatico o nei delta africani, troviamo le une accanto alle altre; nel Golfo Persico è possibile incrociare prima una barca a vela latina e poi una petroliera.
La navigazione nel Mare Nostrum, sarà l’oggetto di questa trattazione, prima di una serie dedicata al mare. La marineria antica, la protagonista di oggi.
La marineria antica
L’evoluzione della marineria antica coincide con la genesi dell’Occidente, per come lo intendiamo oggi. Quello cioè che affonda filosofie e valori nella cultura greca. E nella parte che ci interessa, vede i minoici prima, ed i bizantini poi, dominare le acque del Mediterraneo, e segnare i passi dell’evoluzione del natanti. Questo contributo vuole far luce su come il mare era vissuto ed inteso sino a qualche secolo fa: e soprattutto, da cosa era attraversato, e con quali tecnologie.
L’evoluzione dello scafo, dalla piroga alla zattera alla trireme, segue con fedeltà impressionante le varie fasi della colonizzazione magnogreca, arriva sino alla potenza di Roma, e ne predice il declino. Ci accompagna Raffaele Laino, archeologo subacqueo attivo essenzialmente nel Tirreno meridionale, ed esperto di navigazione e marineria antica.
L’autostrada del Mare
«Per capire come si siano evolute le tecnologie necessarie ad andar per mare, e gli scafi che ne solcavano le onde, serve una premessa geomorfologica – precisa l’archeologo -. Il Mediterraneo è un mare chiuso tra il Sahara a Sud, e l’Atlantico ad Nord-Ovest. Questo lo rende da sempre soggetto a giochi di alta e bassa pressione, che influiscono sui venti e sulle correnti: le stesse che troviamo anche oggi, e che ogni diportista ben conosce. Di diverso c’è la stagionalità. Anticamente – siamo nel Mediterraneo centro orientale – andare per mare era fattibile solo da maggio settembre: i restanti mesi erano quelli del Mare Clausum, del Mare Chiuso. Le tecnologie non permettevano di avventurarvisi in inverno, o di notte (Bisognerà attendere l’età classica, il rafforzamento degli scafi e le prime strumentazioni, per far sì che questo gap si colmi, ndR).
Per questo, la navigazione dell’età arcaica, siamo sempre nel Mediterraneo centro-orientale, avviene prevalentemente nel periodo estivo, e sfrutta i venti dominanti: quelli cioè che portano dalla Cirenaica verso il Peloponneso e l’Italia meridionale (Scirocco) e dalla Libia – Tunisia verso la Sicilia (Ghibli e Chili). Lo stesso dicasi per le correnti superficiali e intermedie che influenzavano l’andamento delle navi: queste, partendo dallo Stretto di Gibilterra e costeggiando il Nord Africa con andamento antiorario toccano rispettivamente il Vicino Oriente, la Grecia e l’Italia. Sono costanti rimaste inalterate nel tempo, ed oggi costituiscono delle informazioni che tracciano l’evoluzione stessa della navigazione – e della conseguente colonizzazione -del Mediterraneo».
La grande avventura della navigazione
È grazie a loro, ai venti ed alle correnti, che durante i periodi estivi inizia nella protostoria narrata da Omero la grande avventura della navigazione occidentale: con le rotte di Odisseo.
«Le rotte omeriche sono quelle tracciate originariamente dai Micenei. E su queste rotte – precisa Laino – assistiamo ad una formidabile evoluzione tecnologica. In età Neolitica la struttura dell’imbarcazione era unitaria: la piroga monossile, ancora in uso in Africa e nel Sud est asiatico, è ricavata da un unico tronco di albero piallato lateralmente, e modellato con il fuoco, con una brace all’interno del tronco che determina la cavità, che permettee di lisciare il legno laddove serve».
L’imbarcazione cicladica
«Una grande innovazione l’abbiamo con l’imbarcazione cicladica tipica del mare Egeo. Non se ne conservano esemplari, ma abbiamo da Naxos tre modellini di imbarcazioni in piombo: siamo nel III millennio. E la codificazione di questo modello rimarrà invariata per millenni: poppa alta e prua dritta e perpendicolare alla chiglia. Lo scafo raggiungeva 15 m di lunghezza e 2 di larghezza, e le sue componenti erano prima legate con fibra vegetale e successivamente impeciate, al fine di rendere la barca impermeabile. Presentava la parte prodiera quasi ortogonale alla chiglia ed in posizione rialzata: angolo che portava ad evitare “scuffie” in caso di vento laterale. Erano imbarcazioni molto leggere, che si affidavano essenzialmente alla forza di locomozione del remo: e avevano difatti un equipaggio di circa 15 rematori».
La cucitura dello scafo
Importanti anche le specifiche dell’assembramento. «Oggi sappiamo dunque che le prime navi avevano il fasciame laterale probabilmente in legno morbido e facilmente lavorabile, tipo pino o abete: mentre la chiglia, ovvero la spina dorsale della barca, era in legno di quercia, più resistente, poiché tenuta a resistere a sollecitazioni più forti – dichiara Laino – . I collegamenti tra fasciame e chiglia erano realizzati in ulivo o frassino, e comunque con legni duri e resistenti. In generale, le imbarcazioni fino al periodo arcaico erano assemblate con il sistema della legatura, erano cucite: ovvero, avevano le assi tenute insieme da sparto e fibre vegetali, da cordame impeciato, e la tecnica dominante era pertanto quella del guscio portante. Prima veniva poggiata la chiglia, definite le prime costolature, e successivamente su queste venivano addossate ed erette le pareti della barca. Solo all’ultimo veniva realizzato l’interno. Pertanto, stabilità, forza e resistenza dello scafo erano garantiti dalle assi che formavano il guscio: non dallo scheletro, come avviene oggi. A partire dal VI secolo avanti Cristo le navi cucite lasciano pian piano il posto ad un utilizzo sempre maggiore delle giunzioni classiche con biette fermate da cavicchi, perni capaci di garantire maggiore stabilità e resistenza allo scafo ed alle sue strutture interne. Il sistema tuttavia, come accade spesso nella marineria, non scompare del tutto: tanto che nel Mar Adriatico incontreremo barche assemblate col metodo della cucitura sino a tutto il periodo medioevale».
Le rotte dall’Egeo all’Italia
Ma dove andavano queste navi? Come si spostavano? «Seguendo le correnti superficiali in senso antiorario ed i venti del periodo estivo – specifica l’archeologo -, è facile risalire ai tracciati originali dei primi esploratori, dei primi viaggi. Lo stesso Odisseo naviga in un’età molto più antica della poesia in versi di Omero: siamo intorno al XIII secolo a.C. Ed il mare che ci viene raccontato, ha più di tremila anni di età. In questo periodo, ad arrivare in Italia, sono le prime imbarcazioni micenee. Seguono le rotte che dalla Grecia conducono nel nostro Mezzogiorno. I micenei toccano certamente Capo Santa Maria di Leuca, Capo Colonna, Punta Stilo, Capo Spartivento, instaurando sicuramente i contatti con la futura Magna Grecia. Le testimonianze giunte sino a noi sono diverse: vanno dalle decorazioni vascolari agli stessi versi omerici. Pensiamo all’immagine delle navi greche alla fonda davanti Troia.
Omero racconta che le corde delle barche si allentano: ed ovviamente fa riferimento alle legature del fasciame, e che dopo 10 anni di incuria, tanto durava l’assedio, si allentavano, compromettendo la tenuta dello scafo».
La Diere
Con la fine dell’età micenea, l’inizio del periodo oscuro, e l’avvio della prima, grande fase della colonizzazione magnogreca (XII-VIII secolo a. C.), la marineria antica è rivoluzionata da una terza, grande innovazione tecnologica, la Diere, nave a propulsione mista sospinta sia dalla vela che dalla voga, e prima imbarcazione adatta alle lunghe navigazioni. «Lunga sino a 35 metri, la Diere presentava ancora un albero solo, era larga circa 6/7 metri – ci racconta Laino -. avendo ancora un duplice utilizzo, sia come nave da guerra (con i rematori che diventavano guerrieri) che a scopi commerciali, e quindi bisognosa di spazio, era priva di ponte. Nasce intorno al 700 avanti Cristo ed è caratterizzata da due ordini sovrapposti di rematori, che potevano arrivare al numero di 80/100. Caratteristiche di questa imbarcazione sono innanzitutto un secondo albero verso prua, più piccolo ed inclinato in avanti, utile per le manovre; lo sperone, spesso a muso di cinghiale, era un prolungamento della chiglia; l’occhio come decorazione apotropaica ora ben rappresentato sulla prua; àncore ora costituite da un trave in legno con marre rinforzate in piombo e ceppo in pietra.
Le ancore
È proprio nel VII sec. infatti che si ha un cambiamento tecnico nella produzione delle àncore. Si passa infatti dall’ancora in pietra detta eunè alla ankura, il cambiamento di nome sottolinea la trasformazione strutturale: da semplice corpo morto in pietra a struttura che si “ancorava” sul fondale. La novità di questa imbarcazione salta agli occhi soprattutto se paragonata alle precedenti navi le “pentekontoroi” ovvero navi con 25 rematori per lato lunghe 30 metri e larghe 5 ce ne parla Apollonio Rodio nelle Argonautiche. La duplicazione della forza motrice nella Diere assicurava maggiore velocità all’imbarcazione e contemporaneamente aumentava la capacità di trasporto merci».
Navigazione, colonizzazione, pirateria
A determinare l’innovazione della Diere, la rinnovata compagine economica e sociale. «Nel periodo Miceneo, avevamo degli aristocratici che inviavano per mare piccole barche con piccoli oggetti di pregio, o magari vasi con olio e vino, sempre in quantità ridotte per contenere il danno in caso di perdita. Ora, con la prima colonizzazione della Magna Grecia abbiamo dei gruppi, delle forme di commercio organizzato, e quindi la necessità di ricorrere a navi più grandi, capaci di trasportare beni e persone: i coloni – specifica Laino -. La colonizzazione della Magna Grecia fu un evento connotato da spinte demografiche come quella che diede vita alla colonia di Sibari (fondata da genti provenienti dall’Acaia, area montuosa dedita alla pastorizia della parte centro-settentrionale del Peloponneso) e da spinte puramente commerciali come fu per la fondazione di Pihtecusa, l’odierna Ischia (fondata dagli Euboici, che da quello sperone di roccia, nell’VIII secolo a. C. diedero vita ad un fiorentissimo scambio di metalli)».
Migrazioni, economia, navigazione
Insomma: migrazioni ed economia si intrecciano, ora come allora, influenzando profondamente la navigazione. Una navigazione del resto molto diversa da quella odierna, nella sua accezione culturale. «Prediamo ad esempio la pirateria – prosegue l’archeologo -: quando si parla di pirateria tirrenica nell’età antica, dobbiamo pensare che i pirati ai quali fanno riferimento i greci altro non erano che gli Etruschi non ignari di commercio. Gli stessi commercianti, alla bisogna, si trasformavano essi stessi in predatori di carichi altrui. I rematori, i marinai, per secoli, furono al contempo mercanti, combattenti, pirati». La differenziazione tra nave da guerra e nave commerciale arriverà infatti non prima del VII-VI secolo avanti Cristo. «Se possiamo studiare il fasciame – prosegue l’archeologo – è per lo più grazie ai relitti delle navi commerciali, il cui carico, ricoprendo il legno e preservandolo dalla Teredo Navalis o verme del mare che divora i legni sott’acqua, lo ha sigillato, restituendocelo integro».
La trireme
Altermine della prima fase della colonizzazione e l’ingresso nell’età arcaica, dal VII secolo avanti Cristo, assistiamo alla differenziazione tra nave da guerra e nave commerciale. «L’imbarcazione votata all’uso militare è ormai la trireme, Trières, il gioiello della marineria antica creata molto probabilmente a Corinto all’incirca nel 650 a. C. (La sua coeva commerciale, la Olkas si distinguerà sia nella forma che nelle “prestazioni”).
Le caratteristiche tecniche
La trireme era un’imbarcazione agile e veloce, bassa sul livello dell’acqua, aveva una propulsione fondamentalmente a remi, con tre ordini sfalsati di rematori (il terzo ordine era posizionato nella parte superiore della nave, aggettante tramite un corridoio laterale), un albero con vela quadra. Fornita di sperone, era dotata di un doppio timone, in caso lo sbandamento portasse l’uno o l’altro a non pescare più l’acqua». Ma è con Atene nel V sec. che la trireme raggiunge il perfezionamento tecnico oltre a cambiare anche l’organizzazione dell’equipaggio: i rematori erano esclusivamente votati a questo compito, e lo stesso dicasi per i guerrieri e i membri dell’equipaggio. «La nave – specifica Laino – era lunga 35 metri e larga 5,50; i remi, lunghi 4 metri, erano ricavati da giovani abeti con pala rettangolare inserita nel fusto; due timoni ai lati della poppa; lo sperone era in bronzo e pesava circa 200 kg».
La vela
E la vela? «L’albero centrale, lasciato a terra prima della battaglia, era lungo 13 metri con vela quadra di 95 mq, in più c’era un albero più piccolo a proravia; le vele erano in lino lavorato formate da pezze cucite insieme o in un’unica tessitura, ma rinforzata anteriormente da reti o corde, per evitare strappi. La forma della vela, nel Mediterraneo, rimase quadra almeno sino all’età romana. La navigazione avveniva prevalentemente con il vento in poppa. La novità medievale della vela latina, mutuata dall’uso arabo, trova infatti la sua anticipazione in alcuni accorgimenti tecnici studiati dai Romani. Su tutti, l’accorciamento della vela quadra lungo un lato, a creare quasi una forma triangolare, e la vela di gabbia, sempre romana ma più tarda, d’età imperiale, che aggiunge due piccole vele triangolari sulla sommità dell’albero». Della trireme si conservano rarissimi esemplari: non essendoci un carico commerciale a ricoprire il legno dopo l’affondamento, i relitti non sono stati protetti dalla Teredo Navalis o verme del mare.
L’Olkas
«Passando alla nave commerciale, l’Olkas appunto, ci troviamo di fronte una imbarcazione tonda, panciuta, ben più corta della sua sorella guerriera, di circa 13 metri di lunghezza, ma con una proporzione di 1 a 3 per la larghezza. Simile volume, ma ben più alto tonnellaggio – dichiara l’archeologo-. Destinata al carico delle anfore, variava in base alla portata: ed a seconda della tipologia arrivava a contenere dalle 100 alle 10 mila anfore sovrapposte. I ritrovamenti frequenti di queste imbarcazioni ne attestano perfettamente forma, dimensioni, carico e persino suppellettili di viaggio.
Molte di loro avevano una cucina, alcune persino piccoli altari». Del resto, i viaggi duravano diverse giornate: i tempi di percorrenza dei tragitti, erano circa circa il doppio della odierna navigazione a vela da diporto, condotta da skipper esperti. (Per questo, rimandiamo in calce all’intervista con il presidente del circolo velico Magna Graecia di Pisticci, Antonio Marsano). A esempio, per il periplo della Sicilia si impiegavano anche 8 giorni. Da Azio a Brindisi, 9 ore, come attesta Livio
Seconda parte
I giganti del mare
Se nella fase arcaica avevamo assistito al dominio del mare della trireme, arrivando al periodo ellenistico ci troviamo di fronte un’ulteriore evoluzione, figlia, ancora una volta, dei profondi mutamenti socioeconomici. «La centralità della città-stato viene meno, il potere è nelle mani di grandi dinastie, e le esigenze reali chiedono anche al mare imponenza e potenza – specifica Laino a tale proposito -. Nascono le grandi flotte: e soprattutto, è in questo periodo, a partire dal IV sec. a.C., che ci troviamo al cospetto dei primi colossi del mare: imbarcazioni da guerra tese ad esaltare la grandezza e la divinità del sovrano, lunghe anche 60 metri, e questa volta dotate di ponti, dove alloggiavano le macchine da guerra: catapulte, baliste, oltre alle truppe per gli arrembaggi. Navi non più semplici e leggere come la trireme classica, ma pesanti e complesse: e classificate in base al numero di rematori di cui disponevano. Ad esempio la Sedici di Demetrio Poliorcete (301 a.C.) aveva tre ordini di remi con 5 o 6 uomini a remo, ipotizzando quindi 480 rematori, e con equipaggio e soldati si poteva arrivare a 600 uomini».
Le stelle, l’orientamento, la navigazione
Le tecnologie ormai permettono anche la navigazione notturna: le conoscenze astronomiche greche erano arrivate ad un livello altissimo, come dimostra il calcolatore astronomico di Anticitera conservato presso il Museo archeologico nazionale di Atene, che trae il nome dall’isolotto dell’Egeo dove è stato trovato, insieme ai resti di un naufragio avvenuto nel I secolo a.C.
È un sofisticato “planetario”, mosso da ruote dentate, che serviva per calcolare il sorgere del sole, le fasi lunari, i movimenti dei cinque pianeti allora conosciuti, gli equinozi, i mesi, i giorni della settimana e, secondo uno studio pubblicato su Nature, le date dei giochi olimpici. È il più antico calcolatore meccanico conosciuto, e anche un calcolatore di rotta, che si bastava sulle stelle, insomma, un vero e proprio strumento astronomico del I secolo avanti Cristo.
Roma all’orizzonte
Allafine dell’età ellenistica, vediamo emergere la potenza di Roma – prosegue Laino – e con lei, un’impressionante varietà di imbarcazioni. Dalla trireme alla quadrireme, dalla quinquereme alla esareme oltre a diverse imbarcazioni militari ausiliarie: actuariae (trasporto truppe), lintres (imbarcazione fluviale a fondo piatto), hippago (battelli per trasporto cavalli), scapha (imbarcazione d’avanguardia). A bordo, i dispositivi di combattimento più disparati. Catapulte, lanciafrecce, baliste ed il corvus, (foto corvo) un ponte che permetteva di abbordare le navi nemiche. Ancor più ricca la varietà commerciale con imbarcazioni già utilizzate tra le militari ausiliarie come le lintres o le simili caudicariae, ma vi erano anche lenunculi e rates veri e propri traghetti.
Troviamo inoltre le naves vinariae (trasporto vino), le naves granariae (trasporto grano), le naves lapidariae per il trasporto delle pietre o dei marmi». Una nave di tal genere portò l’obelisco che ora si trova a piazza S. Pietro a Roma e che Caligola fece venire dall’Egitto: il suo trasporto avvenne grazie ad una mastodontica imbarcazione appositamente costruita e capace di condurre il monolite da Alessandria fino a Roma. Tanto che al termine del viaggio, la nave stessa venne poi utilizzata come cassaforma per il faro del porto di Claudio (Fiumicino). Insomma, la complessità della società romana si riflette nella ricchezza delle tipologie di navi commerciali e belliche.
Dall’apice al declino
E proprio nel fulgore della potenza di Roma, appaiono i primi segnali, anche nella tecnologia marinaresca e nell’arte della guerra. «Una prima cesura nel dominio delle tecnologie del gigantismo «si ha già nel primo secolo, con la battaglia di Azio (31 a.C.) tra Marco Antonio e Ottaviano. Antonio, munito di enormi navi di tradizione ellenistica perde contro Ottaviano che adotta navi più agili e veloci chiamate liburne. Il modello (di origine illirica) senza ponte a due ordini di rematori che ripete il principio della trireme, avrà ancora fortuna nei secoli a venire, tanto che la ritroveremo in uso nell’Impero Bizantino, col nome di dromone.
Nei secoli a venire la crisi dell’Impero, il mutato equilibrio socioeconomico, la drastica riduzione di scambi e circolazioni di merci e denaro impone il ridimensionamento delle imbarcazioni e delle flotte. Stati capaci di movimentare simili tonnellaggi e simili quantitativi di uomini, merci, derrate alimentari scompaiono dal Mediterraneo: è la fine dei giganti del mare. Nel Mediterraneo, il tonnellaggio delle imbarcazioni romane, la loro grandezza non verrà più raggiunta da nessun altro stato della storia antica, medioevale e moderna. Ed il mondo, per rivedere qualcosa di simile, dovrà attendere le grandi navi oceaniche del XVIII secolo.
APPENDICE
Sulle rotte di Ulisse
Il fascino senza tempo dell’andar per mare
Se il Mediterraneo è e rimane una delle più potenti attrattive del diportista, e se ancora oggi da tutto il mondo viaggiatori in cerca di storia, suggestioni, cultura o semplicemente bellezza paesaggistica solcano le acque del Mare Nostrum, è anche per la potente carica evocativa dei luoghi che hanno fatto da culla alla nascita ed allo sviluppo dei miti più radicati e fondanti dell’Occidente. Ripercorrere le rotte di Ulisse, sentirsi avvolgere dalla temperie greca e romana, veleggiare lungo i tragitti della storia è esperienza imperdibile.
Inseguendo il vento degli antichi greci
Lo sanno bene i velisti più esperti, e gli skipper professionisti, che ben conoscono l’allure dei viaggi alla scoperta degli approdi, delle isole, dei luoghi del mito. E lo sanno anche i presidenti di federazioni e circoli velici, che puntano sulle rotte solcate da millenni per dare ulteriore carica agonistica ai propri federati, in competizioni attesissime. L’attrattiva delle regate che dall’Adriatico o dallo Ionio si dirigono verso la Grecia, alla stregua di quelle che dalle coste tirreniche puntano alle isole, contano indistintamente su questo straordinario fascino antico. Ed alcune, hanno un richiamo pari a quello delle sirene di Ulisse. Antonio Marsano, presidente del Vela Club Magna Grecia di Pisticci, ci aggiorna sulle gare che traggono ispirazione dal mondo classico.
«La regata più importante che in qualche modo ci ricollega alla storia dei collegamenti tra Italia e Grecia è la Brindisi Corfù, una competizione internazionale che si tiene ogni anno la seconda o la terza settimana di Giugno».
Anche quest’anno – specifica lo skipper – avremmo dovuto disputarla dal 7 al 9, ma per ovvi motivi, abbiamo rimandato a data da destinarsi. In generale – prosegue – va detto che la maggior parte di queste competizioni passano per l’isola di Othonì, Fanò per gli italiani, celebre per essere stata la baia dove la ninfa Calipso stregò Ulisse (e dove l’eroe rimase per 7 anni, fin quando Zeus non impose all’oceanina di lasciarlo ripartire, ndr). Un luogo d’incanto, e teatro sia della stessa Brindisi Corfù, che della Tricase – Othonì – Tricase»
Come è cambiata la vela
Certo, i tempi di navigazione sono cambiati: «Oggi – prosegue Marsano – le imbarcazioni sono più performanti, più leggere, ed ovviamente più veloci. Nei secoli si è passati dagli scafi dislocanti, che prediligevano la stabilità, agli scafi plananti. Le vele stringono il vento in modo maggiore, e la barca reagisce più velocemente: se prima non si andava oltre ad un 70% , oggi è possibile l’andatura di bolina (andatura che consente alla barca di risalire il vento mantenendo un angolo rispetto al vento reale compreso fra i 60° e i 37,ndr)».
La Calabria? Parla la Presidente della VI Zona Fiv
E la Calabria? La regione che assistette alla colonizzazione magnogreca più poderosa, soffre di un gap infrastrutturale, specie nella regione ionica, che ne penalizza fortemente lo sviluppo. Anche turistico. Ne è ben consapevole Valentina Colella Presidente della Federazione Italiana Vela per la VI zona ricomprendente Basilicata e Calabria, che stigmatizza: «Data la scarsità dei porti turistici, i pochi posti barca che troviamo, sono totalmente assorbiti dai privati. E questo penalizza fortemente le attività diportistiche, siano esse sportive o turistiche. Insomma, pochi porti e troppo lontani tra loro. Per questo, è urgente un’azione importante, volta a favorire la nascita di infrastrutture turistiche adeguate ed intermedie. La regione – prosegue la Presidente – a parte qualche approdo sulla fascia tirrenica e la realtà di Crotone, non ha strutture che possano ospitare velisti. E per questo rimane ancora oggi una meta di transito, non una destinazione, se non in rarissimi casi. In passato, diversi progetti destinati ad esempio a Bagnara, sono caduti nel vuoto. Tanto che oggi Reggio Calabria non dispone dei posti barca necessari a programmare attività adeguate. Roccella Ionica, Tropea e Vibo Valentia, Cetraro, sono tra le poche possibilità di attracco che si presentano al diportista. Per questo, le barche proseguono per la Sicilia.
Ben altro discorso per la Basilicata, dotata di strutture attrezzatissime, moderne e ben servite. In Calabria le località belle non mancano di certo. Abbiamo approdi da sogno. Quello che manca, invece, è solo una programmazione seria, che rilanci il settore della blue economy. Aldilà delle considerazioni sulla difficoltà oggettiva, sui rischi dell’investire sul territorio, da noi c’è molto, molto da fare».
Eppure, in questo scenario complesso, alcune realtà legate ai luoghi del mito omerico danno speranza agli scenari futuri: ed entrambe partono da Tropea, dirette alle Eolie. Citiamo in primis la Cyclops Route, organizzata dal Circolo Velico Santa Venere di Vibo Valentia Marina, un percorso di 120 miglia a slalom tra le isole vulcaniche. E citiamo anche la Tropea Strombolicchio, del Vela Club Tropea, che avrebbe visto l’esordio proprio nei primi giorni di maggio di quest’anno: un’andata e ritorno dalla capitale balmeare allo sperone di roccia tra i più suggestivi del Tirreno Meridionale. Purtroppo, l’emergenza sanitaria ha fatto ammainare le vele di tutti. Ma siamo certi che per presidenti di federazione, di circoli, ed armatori di Basilicata e Calabria, come nel resto d’Italia, la lontananza dal mare non farà che accrescere l’entusiasmo del ritorno.
Monica LA TORRE Tropea 26 aprile 2020