di Nica FIORI
Il Monastero dei Santi Quattro Coronati al Celio: un angolo di Medioevo ricco di arte e di spiritualità.
Secondo un’antica tradizione, cinque scalpellini della Pannonia furono giustiziati a Sirmio (attuale Sremska Mitrovica in Serbia) nel 304-306, nel corso della persecuzione di Diocleziano, per essersi rifiutati di scolpire una statua del dio Esculapio. Per uno strano equivoco la loro storia venne confusa con quella di quattro soldati romani (Secondo, Carpoforo, Vittorino e Severiano), che avevano subito il martirio ad Albano per non aver sacrificato a Esculapio, o, secondo un’altra versione, con quattro anonimi cornicularii martirizzati presso le Terme di Traiano, le cui spoglie sarebbero state tumulate da San Sebastiano nelle catacombe dei Santi Marcellino e Pietro sulla via Labicana.
I veri nomi degli scalpellini, i cui resti erano stati poi portati nelle stesse catacombe romane che ospitavano gli altri quattro martiri ignoti, vennero conosciuti solo nel IX secolo (sono Sinforiano, Claudio, Nicostrato, Castorio e Simplicio), ma nel frattempo il loro culto si era già diffuso come quello dei Quattro Coronati, così chiamati dalla simbolica corona del martirio. Raffigurati con gli strumenti del loro lavoro, squadra, compasso, scalpello e libro, divennero nel Medioevo patroni delle corporazioni di marmorari, lapicidi e muratori, da cui avrà poi origine la Massoneria (ricordiamo che la più antica loggia di ricerca di Londra si chiama proprio Quatuor Coronati).
A Roma venne dedicata a questi due gruppi di martiri una chiesa su un’altura minore del Celio (detta Caeliolus), lungo il percorso dell’antica via Tuscolana. Il nucleo originario della chiesa è da identificarsi in un’aula rettangolare absidata risalente al IV secolo, i cui resti sono stati rinvenuti nel 1957 al di sotto dell’attuale basilica. Si trattava probabilmente di un’aula pagana acquisita dai cristiani, forse già prima del 499, quando è lì attestato il titulus Aemilianae, identificato con quello successivo dei Santi Quattro Coronati, risalente all’epoca di Onorio I (625-638).
La chiesa venne trasformata in una basilica a tre navate nel IX secolo, sotto Leone IV (847-855), e dotata in quell’occasione di un massiccio campanile, ora caratterizzato superiormente da quadrifore di epoca successiva. Fu nuovamente trasformata nel XII secolo, dopo l’incendio appiccato dai Normanni di Roberto il Guiscardo nel 1084. In quest’ultimo rifacimento, sotto Pasquale II (1099-1118), la chiesa venne rimpicciolita e vi fu annesso un monastero, affidato nel 1138 ai Benedettini dell’abbazia di Sassovivo. Nel 1521 il complesso venne affidato ai Camaldolesi e nel 1560 alle Monache Agostiniane, che tuttora vi risiedono.
Data la vicinanza all’importantissima basilica patriarcale di San Giovanni, la chiesa divenne quasi immediatamente una delle tappe obbligate dei cortei papali che dal Laterano si recavano al Vaticano e, secondo una leggenda, fu proprio nei suoi pressi, tra via dei Santi Quattro e via dei Querceti, che la Papessa Giovanna (che avrebbe regnato dall’853 all’855 con il nome di Giovanni VIII, nome poi assegnato a un altro pontefice) avrebbe partorito un figlio. Da allora in poi i cortei cambiarono strada e il luogo del sacrilegio venne segnato e purificato con un’edicola dedicata alla Madonna.
Il complesso monastico dei Santi Quattro Coronati, visto dall’esterno, ha tutta l’aria di una fortezza.
Le alte mura, le finestre murate, l’unica porta di accesso sotto la torre campanaria, inglobata nella struttura perimetrale, evocano ricordi di un Medioevo religioso e guerriero al tempo stesso. Ma questa cupa atmosfera svanisce quando si varca la soglia che immette nel primo cortile, cui segue un secondo cortile con un portico di accesso alla basilica.
“Protetta com’è dai fragori della città, con la sua pace tanto gelosamente conservata”, come scrive Maria Giulia Barberini nella guida “I Santi Quattro Coronati a Roma” (edita da Palombi), la chiesa permette al visitatore di immergersi in una dimensione spirituale molto particolare.
Più della ricerca delle memorie storiche e agiografiche, legate ai martiri che vi sono venerati, agli artisti che vi hanno lavorato e ai loro importanti committenti, il senso che si potrebbe dare alla visita di questo luogo, così ricco di bellezza e di silenzio, è quello di ritrovare la pace e l’armonia interiore in ambienti nati per la preghiera e l’incontro con Dio. Come accade nel chiostro della prima metà del XIII secolo, al quale una suora consente l’ingresso se si bussa alla porticina sulla sinistra all’interno della chiesa.
Lo schema è quello dei soliti chiostri romanici, con i quattro lati porticati ad archetti sorretti da colonnine binate, con originali capitelli a foglia di loto. Splendida è la decorazione della cornice che corre al di sopra dei porticati, dove per la prima volta a Roma vengono utilizzate tarsie colorate. I sottarchi sono pure colorati, ma stavolta dipinti a triangoli bianchi e neri o gocce verdi e rosse. Da un lato si accede alla piccola cappella di Santa Barbara, del tempo di Leone IV, con tre absidi e volta a crociera sostenuta da mensole trabeate. Particolare è la fontana, ricostruita nel primo Novecento da Antonio Muñoz utilizzando una precedente vasca romanica a doppia tazza (originariamente posta davanti alla chiesa), che ora poggia su un tronco di colonna, lasciando cadere l’acqua nel bacino sottostante da quattro bocche a testa di leone.
Una curiosità del chiostro è la presenza di alcuni antichi simboli, legati ai marmorari, scalpellini e muratori, che si tramandavano le loro conoscenze architettoniche e spirituali. Ricordiamo in particolare la “triplice cinta druidica”, incisa sul muretto di separazione tra l’area porticata e il giardinetto interno. È una figura costituita da tre quadrati concentrici legati tra loro da quattro linee ad angolo retto che, come spiega René Guénon nei “Simboli della Scienza sacra”, alludono al percorso che dalla periferia porta al centro, ovvero alla realizzazione del proprio Sé. Un simbolo che, partendo da radici sacrali celtiche, ha dato origine nel tempo al gioco del filetto, tanto che in alcune guide si legge che i monaci passavano il tempo a giocare a filetto.
La chiesa colpisce per le tre navate asimmetriche – conseguenza degli interventi del XII secolo – e l’abside che è orientata a ovest, contrariamente al consueto orientamento a est.
Le finestre sono collocate molto in alto, per via della presenza di un matroneo, così che l’ambiente è perennemente in ombra. Solo l’abside è ben illuminata.
Lungo il muro perimetrale della navata destra affiorano i resti del colonnato ionico che limitava la navata centrale al tempo di Leone IV, quando la chiesa era più grande. Alle pareti delle navate laterali si vedono resti di affreschi con funzione votiva. Risalgono al XIV secolo e sono stati fatti eseguire da committenti diversi, che volevano far rappresentare i loro santi protettori, secondo un uso abbastanza comune nel Lazio. Vi si riconoscono, tra gli altri, Sant’Agostino, Sant’Antonio Abate tra due Sante (a sinistra Santa Caterina d’Alessandria), la Pietà tra i Santi Pietro e Paolo, San Bartolomeo. Nel catino dell’abside è un affresco del 1621, di Giovanni da San Giovanni, raffigurante il Paradiso con la gloria di tutti i santi. Al di sotto diverse scene, suddivise in due ordini, sono dedicate alle storie dei martiri titolari (gli scalpellini e i soldati). I colori sono brillanti e l’azione estremamente dinamica.
Notevole è il tabernacolo con bellissimi angeli che adorano l’immagine di Cristo crucigero con accanto il calice, realizzato al tempo di Innocenzo VIII (1484-1492) e attribuito ad Andrea Bregno o a Luigi Capponi. Nel pavimento abbondano i marmi riutilizzati, anche con iscrizioni pagane, mentre le acquasantiere sono state ricavate da basi di colonne antiche.
Nel convento annesso alla chiesa, un’attenzione particolare merita il piccolo Oratorio di San Silvestro (suonare al campanello presso la ruota per avere la chiave).
Eretto nel 1246 in parte di quella che un tempo era la navata destra, ha una volta a botte finemente decorata di stelle policrome e scodelle in maiolica; è celebre per il ciclo di affreschi relativi alle Storie di Costantino e di San Silvestro papa, realizzate con grande efficacia naif in una versione che potremmo definire fiabesca. Del resto le imprese che la tradizione popolare volle attribuire al venerato pontefice Silvestro I, salito sul trono pontificio nel 314, sono straordinarie, se non addirittura magiche.
Secondo una leggenda, papa Silvestro viveva in contemplazione sul monte Soratte quando Costantino si ammalò di lebbra.
Gli aruspici, prontamente consultati dall’imperatore, gli indicarono, come unico mezzo di guarigione, di immergersi nel sangue di tremila bambini, ma Costantino, quando vide la disperazione dei genitori, non se la sentì di guarire a quel prezzo. Subito dopo, gli apparvero in sogno i Santi Pietro e Paolo che gli suggerirono di chiamare papa Silvestro. Tre messi imperiali andarono quindi dal pontefice sul monte Soratte. Saputa la notizia, Silvestro si recò al cospetto dell’imperatore morente e gli mostrò le effigi dei Santi Pietro e Paolo, nelle quali Costantino riconobbe coloro che gli erano apparsi in sogno.
Grazie a San Silvestro, che gli somministrò il battesimo, l’imperatore guarì e per riconoscenza avrebbe concesso al papa il potere temporale con un documento, la cosiddetta “donazione di Costantino”, che in realtà è uno scritto apocrifo, risalente all’VIII secolo.
Abbastanza curiosa è la leggenda secondo la quale il santo taumaturgo avrebbe sconfitto un terribile drago che, nei primi anni del IV secolo, abitava in una caverna ai piedi del Palatino, dal lato del Foro Romano. Di un toro, che era stato ucciso da un sacerdote ebreo, si racconta invece che venne resuscitato dal pontefice ed è per questo che l’episodio è raffigurato nella cappella, accanto al leggendario ritrovamento della Santa Croce da parte di Sant’Elena, la madre di Costantino.
Dal punto di vista storico, ricordiamo che sotto il pontificato di Silvestro I si celebrò il concilio di Nicea contro l’eresia ariana, convocato da Costantino nel 325. Furono forse gli ottimi rapporti tra i due personaggi a far nascere la leggenda del battesimo impartito a Costantino e della conseguente guarigione dalla lebbra. In realtà Silvestro morì il 31 dicembre del 335, mentre Costantino venne battezzato, poco prima di morire, nel 337.
Molte sono le basiliche realizzate all’epoca di Silvestro I, tra cui San Pietro in Vaticano, San Paolo fuori le Mura e San Giovanni in Laterano. Proprio perché fece edificare molte chiese, il suo patronato è stato esteso ai muratori, scultori e tagliapietre ed è forse per questo che l’oratorio passò nel XVI secolo in proprietà all’università dei Marmorari, cui si deve l’aggiunta di un presbiterio decorato con affreschi (1574), che si riferiscono ai Santi Quattro Coronati, attribuiti a Raffaellino da Reggio.
Il monastero possiede un altro ciclo pittorico duecentesco di grande bellezza nella cosiddetta Aula Gotica, costituita dall’unione di due sale coperte da volte a crociera e divise da un’arcata ogivale. Il grande ambiente affrescato si trova sopra la cappella di San Silvestro e l’adiacente sala del Calendario ed è stato aperto al pubblico qualche anno fa (ma solo in giorni determinati e su prenotazione) dopo lunghe trattative, per via della sua collocazione in un convento di clausura (e infatti è stato studiato un percorso che lo isola dagli altri ambienti).
La sorprendente scoperta nel 1996 di questo ciclo di affreschi, da parte della storica dell’arte Andreina Draghi, ha aperto nuove strade interpretative e nuovi punti di vista sulla cultura artistica operante a Roma nel corso del ‘200. Prima di questo ritrovamento si riteneva, infatti, che la grande pittura del Duecento fosse soprattutto toscana, ma questo ciclo pittorico ha restituito a Roma un ruolo centrale nell’elaborazione del nuovo linguaggio artistico di quel secolo. Gli affreschi erano nascosti da una pittura azzurrina (vi erano in realtà molti strati di calce, che abitualmente venivano stesi per risanare le murature dopo le pestilenze) e solo l’intuizione della Draghi ha permesso di capire che lì sotto si celava ben altro. Dopo aver descialbato circa 850 mq di superficie, sono riaffiorati oltre 300 mq di pitture vivacissime, riproducenti un meraviglioso repertorio di motivi e decori parietali, in gran parte ottimamente conservato.
Le suggestive immagini affrescate raffigurano una summa delle concezioni cosmologiche e teologiche dell’epoca in un simbolico percorso dell’uomo verso la conoscenza di Dio, percorso che deve essere guidato dalla Chiesa. Anche se apparentemente laiche, o meglio enciclopediche, le pitture hanno un carattere allegorico di esaltazione della Chiesa e della giustizia e una bellezza formale, che allude a una bellezza spirituale superiore.
Nella campata meridionale sono raffigurati i Mesi dell’anno, i Vizi, le Arti liberali, le Stagioni con i Venti, un Paesaggio marino, lo Zodiaco, le Costellazioni.
Tra i dodici Mesi, che raffigurano i lavori agricoli secondo i loro ritmi stagionali, veramente singolari sono le personificazioni di Gennaio, visto come Giano trifronte e non bifronte, perché guarda al passato, al presente e al futuro, e di Marzo, che si ispira al motivo iconografico dello Spinario, la cui spina viene estratta da una donna.
Nella campata settentrionale grande risalto viene dato alla rappresentazione di Salomone che amministra la giustizia: potrebbe essere un’allusione alla funzione della sala, e quasi certamente è una rappresentazione del suo committente, Stefano Conti, giudice e giurista, oltre che cardinale vicario di Roma e nipote di Innocenzo III. Il re Salomone è circondato dalle Virtù, rappresentate in abiti militari ma non armate. Recano sulle spalle il personaggio che maggiormente si è segnalato nell’esercizio della virtù raffigurata. In contrapposizione, nella parte inferiore della scena, è illustrato il vizio antitetico alla virtù e il personaggio negativo scelto come esempio. Come nel caso della Carità, che reca sulle spalle San Pietro e calpesta Nerone.
In questo caso potremmo anche vedere un secondo significato, ovvero la Chiesa, nella figura del primo Papa, che subentra nel potere all’Impero. In questo settore, certo più spirituale rispetto alla raffigurazione della vita terrena della prima campata, troviamo anche le immagini dei due principali santi del Duecento, San Francesco e San Domenico, canonizzati rispettivamente nel 1228 e nel 1234, data questa che pone un termine post quem alla realizzazione delle pitture.
Tra le raffigurazioni allegoriche sono presenti il Sole e la Luna, da intendersi come Cristo e la Chiesa, e perfino Mitra tauroctono, probabilmente perché l’uccisione del toro dell’antica religione misterica era vista come momento di rigenerazione del creato.
Questa presunta raffigurazione di Mitra doveva contrapporsi, in realtà, a un’altra scena non più visibile. La cosa strana è che Mitra è rivolto dal lato opposto rispetto alle raffigurazioni del mondo romano, pertanto si potrebbe ipotizzare che doveva trattarsi di un’immagine speculare rispetto a quella perduta, che doveva rappresentare probabilmente una scena simile, come per esempio la cattura del toro di Creta da parte di Ercole.
Gli affreschi sono corredati da un ricchissimo apparato di iscrizioni, che spiegano tutto ciò che è raffigurato. Sono pure notevoli i fregi e i motivi iconografici scelti per dividere gli spazi, come le Cariatidi e i Telamoni, presi dal mondo classico e riproposti con grande fantasia.
La datazione dei dipinti dovrebbe essere compresa tra il 1240 e il 1250, al tempo di Stefano Conti. L’Aula all’epoca faceva parte del palazzo cardinalizio e questi affreschi, come quelli della sottostante cappella di San Silvestro (fatta edificare dallo stesso Conti), dovevano lanciare un messaggio politico importante, ovvero la legittimazione del potere del papato, in un periodo in cui era messo in discussione dall’imperatore Federico II. Dal punto di vista stilistico e decorativo i dipinti presentano profonde analogie con gli affreschi della Cappella di San Gregorio a Subiaco (1228) e soprattutto con le immagini dipinte sulle volte della cripta del Duomo di Anagni, attribuite al Terzo Maestro della cripta, un pittore straordinario per l’uso del colore, per la forza espressiva e la sintesi con cui costruisce la composizione.
Indubbiamente questo complesso monastico del Celio offre diversi spunti per addentrarsi nell’arte e nella spiritualità medievali, ma la cosa che ci incuriosisce maggiormente è come in esso si trovino esemplificati alcuni ideali e simboli della Libera Muratoria, che allora erano costruttivi ed edificatorii, mentre oggi sono speculativi.
Anche dal punto di vista religioso sembra di cogliere un nesso con l’arte edificatoria dei protomassoni, che veneravano il Grande Architetto dell’Universo. La stazione quaresimale del lunedì dopo la quarta domenica di Quaresima si tiene a Roma nella basilica dei Santi Quattro Coronati, e forse non è casuale il fatto che, nella messa di questo giorno, il Messale romano incentri le sue letture sul tema della costruzione del Tempio: materiale quello di Salomone a Gerusalemme (III Libro dei Re) e spirituale quello di Cristo (cap. II del Vangelo di S. Giovanni).
Il Tempio di Salomone, che racchiude l’Arca dell’Alleanza, è allo stesso tempo immagine del Tempio interiore e prefigurazione della città celeste ultraterrena. Ricordiamo che il Tempio è il primo e massimo monumento venerato dai massoni, e il suo architetto Hiram, colui che si fa uccidere per non rivelare i segreti della sua opera, rinasce metaforicamente in ogni nuovo Maestro.
Nica FIORI Roma 26 aprile 2020