di Sergio ROSSI
Il 25 Aprile non va dimenticato
Ormai da qualche anno, alla vigilia del 25 aprile, vengono avanzate le proposte più bizzarre per trasformare la festa della Liberazione in una melassa indistinta che ne cancelli l’originaria (e incancellabile) matrice antifascista. E invece è importante non dimenticare. E’ con questo spirito che sono tornato a leggere quanto avevo scritto nel 2018 sulla rivista T.C.L.A recensendo due belle mostre bolognesi: Revolutija. Da Chagall a Malevich, da Repin a Kandinsky, tenutasi presso il Museo d’Arte di Bologna dal 12 dicembre 2017 al 13 gennaio del 2018 e La mostra sospesa. Orozco, Rivera, Siqueiros tenutasi a Palazzo Fava dal 19 ottobre 2017 al 18 febbraio del 2018. In quell’occasione avevo osservato come entrambe, pur trattando argomenti molto diversi tra loro, avrebbero potuto recare come sottotitolo quello delle “rivoluzione tradite”: ovviamente la “rivoluzione d’ottobre” nel primo caso, quella cilena di Allende nel secondo. Si trattava di due esposizioni che affrontavano argomenti geograficamente molto lontani, ma cronologicamente, politicamente e in parte anche esteticamente assai vicini, inducendomi a qualche osservazione preliminare che voglio ora riproporre.
La prima è che la teoria del cosiddetto “realismo socialista”, diventata soffocantemente egemone nella Russia staliniana, sia stata un colossale fraintendimento, per non dire tradimento, dell’essenza stessa del pensiero marxiano relativo al concetto dell’arte come “rispecchiamento” della realtà sociale. Infatti, una volta accettato il principio che le categorie di sociale ed estetico non vadano considerate come qualcosa di separato o incommensurabile, va pure precisato che esse non sono meccanicamente derivanti l’una dall’altra, ma piuttosto reciprocamente interconnesse. E una volta che si sia riconosciuto il carattere non autonomo e astratto dell’opera d’arte resterà però da analizzare in concreto attraverso quale codice stilistico essa è stata realizzata e quali sono le sue specifiche qualità estetiche.
In Italia, uno dei primi, e secondo me più riusciti tentativi di sottrarre l’estetica di tendenza marxista dalla sudditanza alle teorie del ‘realismo socialista’ si deve a Galvano della Volpe, il quale nella sua fondamentale Critica del gusto dimostra come l’artisticità di un brano letterario, musicale, pittorico non abbia nulla di misterioso o ineffabile ma risponda anzi a precisi criteri semantici e comunicativi. Valgano gli esempi di due autori tra loro lontanissimi se non opposti, come Brecht e Montale che comunque raggiungono entrambi il loro culmine poetico introducendo semplicemente nei loro versi un non quando meno te lo aspetti. Ecco Montale: «codesto solo oggi possiamo dirti/ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Abbiamo qui, come osserva della Volpe la
«perdita della certezza del reale e di ogni fede, l’aridità del puro esistere, la stessa natura decomposta in allusioni, intellettuali, ironiche, e quindi un pathos secco e gelido eppur sottilmente “straziante” testimonianza di una poesia “autentica patita” della crisi».
Circa un decennio dopo, in pieno “terrore e miseria del terzo Reich” Bertolt Brecht esprime come meglio non si potrebbe il senso di smarrimento ed angoscia di fronte al possibile tradimento di tutti contro tutti in Questo mi dissero: «Se incontri i tuoi genitori nella città di Amburgo o altrove/passagli accanto da estraneo/volta l’angolo, non conoscerli […] non mostrare, oh non mostrare il tuo viso/ma invece cancella le tracce!»
Venendo al campo delle arti figurative e concentrandoci ora su due opere dal più evidente messaggio politico, iniziamo con la celeberrima Morte di Marat di Jacques Louis David (Musées des Beaux-Arts di Bruxelles) che, come lucidamente osserva G. C. Argan: «non commenta il fatto, lo presenta; produce la testimonianza delle cose (fig.1). Marat nella tinozza: la forza di volontà del tribuno, che vinceva la sofferenza fisica per servire il popolo. La cassa che fa da tavolino: la povertà, dunque l’integrità del tribuno. Le pagine scritte: gli atti dell’amore dell’eroe verso i concittadini e il tradimento dell’assassina: L’arma del rivoluzionario, la penna; l’arma della reazione, il coltello…E giungiamo così a quella che è la grande novità di David: non è storico il quadro, è storico il pittore che lo dipinge, l’osservatore che lo capisce. Non è dunque eccessivo affermare che la Morte di Marat, dipinto nel momento cruciale della rivoluzione francese, è il solo quadro che si possa chiamare veramente rivoluzionario, che abbia operato nella storia della pittura una rivoluzione simile a quella che si era compiuta o si stava compiendo nell’ordine sociale e politico».
E se si deve trovare un dipinto simile nel XX secolo, non dal punto di vista della forma e dello stile ma dal punto di vista del valore ideologico assoluto non si può non pensare a Guernica (1937) di Pablo Picasso (fig.2), ora al Centro de Arte Reina Sofia di Madrid:
qui, seguendo un percorso inverso a quello di David, si può dire che la storia ridiventi cronaca, perché l’evento tragico della distruzione di un’intera cittadina è narrato in bianco e nero, come una qualsiasi pagina di un quotidiano o un qualsiasi flash di un’agenzia di stampa, tanto più atroce e terribile quanto più dimesso e antiretorico è il modo in cui ci viene rappresentato.[1]. La sofferenza della popolazione civile è nella logica brutale di ogni guerra ma lo è ancor più nelle guerre contemporanee per cui il quadro di Picasso è di un’attualità assolutamente sconvolgente, potrebbe benissimo intitolarsi “Pyongyang” (completamente rasa al suolo dagli americani durante la guerra di Corea anche se non se ne parla più) o “Beirut”, “Mosul” o “Aleppo” e nessuno potrebbe stupirsene.
Per quel che riguarda i giorni d’oggi, solo Banksy, a mio avviso, con i suoi graffiti gelidi, volutamente sgradevoli e “patiti dela crisi” ma anche estremamente coinvolgenti può reggere il confronto con un capolavoro come Guernica. Tra i suoi murales, mi piace citare i due bambini che giocano con secchiello e paletta disegnato sul muro che separa Israele dai territori palestinesi a Betlemme (Untitled 2005); o i due poliziotti che si baciano (Bristol 2005); la bambina che piange davanti a un topolino (New Orleans 2008); la donna che stende miseri brandelli davanti a una zebra su un desolato muro di mattoni rossi che fa da sfondo caravaggesco (Mali 2009). Tra le serigrafie e le opere mobili (alcune delle quali diventate vere e proprie icone del nostro tempo e che purtroppo hanno perso ogni carica trasgressiva, un po’ come le magliette con disegnato su Che Guevara) solo qualche sparsa citazione a cominciare dal manifestante a volto coperto che invece di una molotov lancia un mazzo di fiori (Lovers in the air, 2003); il poliziotto col dito medio alzato (Rude Copper, 2003); e soprattutto l’agghiacciante Napalm del 2004, dove la bambina vietnamita nuda e ustionata dal napalm della indimenticabile foto di Nick Ut viene tenuta per mano da due sorridenti Mickey Mouse e Ronald Mc Donald.
Ma tornando alla Germania che Brecht ha dovuto precipitosamente abbandonare vorrei proporre brevemente due artisti ebrei e perciò perseguitati, di grande qualità ma assai poco noti in Italia e da poco riscoperti anche nel loro Paese. Il primo è Eric Isenburger (Francoforte sul Meno 1902-New York 1994), la cui pittura tra l’altro non ha mai presentato alcuna connotazione politica, essendo dedicata prevalentemente alla moglie Jula (Augustow,1908 – New York 2000) sua musa ispiratrice, se non addirittura suo vero e proprio alter ego (fig.3). In questo caso dunque la persecuzione e la fuga in America nel 1941 è stata determinata solo da assurde motivazioni razziali.
La seconda è Lotte Laserstein (1898-1993) la cui operazione di recupero è stata ancora più significativa, perché si tratta di una pittrice doppiamente “degenerata”, secondo l’aberrante logica hitleriana, in quanto giudaica ed omosessuale; e si tratta soprattutto, al di là di ogni considerazione esteriore, di una splendida pittrice, la cui vita, tra difficoltà, successi, persecuzioni, sterminio dei parenti più cari, è già di per sé quasi un romanzo. Come si diceva è proprio nella resa, insieme provocatoria, sfilacciata e sensuale del corpo femminile (il più delle volte quello della sua musa Taute Rose) che Lotte dà il meglio di sé, come nel Nudo di schiena, dove il corpo dell’amata Rose è ritratto quasi al rallentatore e tutto modellato dalla luce o ripreso Allo specchio (fig.4) mentre l’artista ne riproduce per l’ennesima volta le fattezze.
Il tema della fuga porta inevitabilmente con sé quello della “diaspora” mirabilmente raccontato in tempi recentissimi da Anna Boguiguian (fig.5):
nata al Cairo nel 1969 da genitori armeni, l’artista ha studiato scienze politiche ed economia presso l’Università americana del Cairo fino al 1969 e quindi arte e musica presso la Concordia University di Montreal. Attualmente vive nuovamente nella capitale egiziana, viaggia moltissimo ed è un’autentica cittadina del mondo. E pur avendo conosciuto l’Armenia solo da adulta, io credo che l’impronta che le hanno trasmesso i suoi genitori esuli in Egitto sia rimasta indelebile nella sua mente e nella sua capacità creativa, anche perché l’olocausto cui è stato sottoposto il popolo armeno è qualcosa di inimmaginabile e di cui ci si può rendere conto solo visitando questo piccolo e splendido Paese racchiuso tra le altissime vette del Caucaso.
Ma vi è uno scrittore, che racchiude in sé, sotterraneamente e misteriosamente, le fila sparse di questo mio racconto: mi riferisco a Franz Werfel (Praga, 1890 – Los Angeles 1945) uno dei tanti intellettuali ebrei di origine ceca affermatosi a Vienna, dove tra l’altro divenne il terzo marito di Alma Mahler. Anche lui, come Isenburger, nel 1938 fu costretto ad emigrare in Francia e l’anno dopo, con una rocambolesca fuga attraverso il Portogallo riuscì a raggiungere l’America. Nel 1933 egli pubblicò I quaranta giorni del Mussa Dagh, racconto epico della resistenza armena e del genocidio di quel popolo da parte dei Turchi, ancor’oggi considerata una delle più riuscite testimonianze letterarie su quei drammatici avvenimenti scritte da un non armeno. Ma non è questo il libro cui mi riferivo prima: si tratta invece de Una scrittura femminile azzurro pallido (1941) che mi immagino la Boghiguian potrebbe illustrare in maniera perfetta.
Senza naturalmente volermi dilungare sul racconto, dirò in estrema sintesi che esso è ambientato a Vienna nel 1936 ed ha per protagonista Leonida, un alto funzionario di cinquantuno anni splendidamente portati e che deve la sua fortuna alla bellissima e ricchissima moglie. Ma egli nasconde anche un tragico segreto che di tanto in tanto delle missive vergate da una scrittura femminile azzurro pallido gli riportano, suo malgrado, alla memoria: un amore clandestino con una giovane ebrea, sedotta e abbandonata quando era già sposato e un bambino di cui ha sempre sospettato, ma volutamente ignorato l’esistenza e che è morto subito dopo la nascita. La donna si ripresenta ora, in procinto di abbandonare per sempre l’Austria, chiedendogli aiuto per il figlio di una sua amica, anch’egli ormai in pericolo per la sua origine “non ariana”.
Poco prima di quest’incontro, su una panchina, Leon si incontra con un vecchio decrepito che in realtà ha la sua stessa età «il suo doppio, dunque, il fratello gemello, l’altra possibilità della sua vita, quella a cui solo per un pelo si era sottratto». E quella sera stessa, in un palco dell’opera, elegante e impeccabile come sempre, il protagonista avverte che ormai anche la sua faccia «è una grande radura inaridita. A poco a poco crescono alla rinfusa i sentieri, le carrarecce e le vie di accesso a questa solitaria radura. Che sia già la malattia della morte, quella malattia che altro non è se non misteriosa, logica conformità con la colpa della vita? Mentre continua a dormire sotto la cappa oppressiva di questa musica perennemente eccitata, Leonida sa con chiarezza indicibile che oggi gli è stata inviata un’offerta di salvezza, oscura, sommessa, irresoluta, come tutte le offerte di questo genere. Sa di non essere stato capace di raccoglierla. Sa che a questa non faranno seguito altre offerte».
Sergio ROSSI Roma 25 aprile 2020
Bibliografia