di Ugo IMPRESCIA
Le tre madri
«Io dormo, ma il mio cuore veglia»
Il versetto del Cantico dei Cantici (Ct. 5,2) è il filo conduttore che collega tre celebri opere nelle quali viene rappresentato lo stesso soggetto della madre con in braccio il proprio figlio.
(seconda parte)
Nella prima parte dell’articolo sono state avanzate alcune ipotesi sulla possibilità che Caravaggio abbia potuto prendere a modello la “Zingarella” del Correggio per comporre la sua Madonna nel “Riposo Doria” (figg. 1 e 2), tramite le varie copie che molto probabilmente circolavano nelle numerose botteghe da lui frequentate durante il suo primo periodo romano.
Ma Caravaggio può avere conosciuto la “Zingarella” anche in ambiente lombardo, prima della sua partenza per Roma, venendo probabilmente a contatto con alcuni di quegli artisti a cui sono riconducibili copie dell’opera del Correggio.
È ancora molto dibattuto tra gli studiosi il problema della sua formazione artistica prima del suo arrivo nella città papale, ma è impensabile che l’artista abbia improvvisamente realizzato opere tra le più grandi della storia dell’arte senza possedere un bagaglio artistico e culturale di elevato rilievo; ed anche se le conoscenze attuali escludono la realizzazione di opere durante il periodo lombardo trascorso per più di metà della sua esistenza, non si può non pensare che Caravaggio abbia potuto conoscere e frequentare gli artisti che hanno lavorato nella terra bergamasca o quelli che hanno operato a Milano dove lui ha vissuto diversi anni, quattro dei quali presso la bottega di Simone Peterzano, studiando e assimilando le opere degli artisti ivi realizzate.
La frequentazione da parte di Caravaggio degli ambienti culturali e artistici lombardi[i] era possibile sia per la sua attività di apprendistato presso la bottega di Simone Peterzano, sia per la sua conoscenza della famiglia Sforza-Colonna, imparentata tra l’altro con Federico Borromeo.
In particolare Muzio II Sforza (Milano, 1576 – Milano, 1622) marchese di Caravaggio e figlio di Costanza Colonna, colei che spesso è stata vicino al Merisi durante la sua turbolenta vita, era un letterato amante delle arti e aveva fondato nel 1594 nel suo palazzo di Milano l‘Accademia degli Inquieti, frequentata da poeti, musicisti e scienziati, oltre che da letterati, alcuni dei quali erano a diretto contatto con i più importanti pittori lombardi del tempo
Nella Milano della seconda metà del ‘500 ed oltre, erano attive, come anche nel resto d’Italia, diverse Accademie fondate da letterati ma aperte anche ad artisti oltre che a musici, comici e attori di teatro; in un saggio di Elena Tamburini pubblicato su AboutArt Online (Roma 1 marzo 2020) si fa riferimento all’Accademia dei Facchini della Val di Blenio come una possibile fonte di ispirazione per la formazione artistica del giovane Caravaggio, ipotesi sostenuta anche da Maria Cristina Terzaghi, in particolare per il suo modo di rappresentare le scene come su un palcoscenico teatrale. L’Accademia dei Facchini aveva il suo massimo rappresentante in Giovanni Paolo Lomazzo; era un’Accademia anticonformista in un contesto milanese in cui vigeva la cultura controriformista di matrice borromaica.
Le attività che si svolgevano nell’Accademia dei Facchini avevano carattere eccentrico e alquanto bizzarro che si confacevano alla personalità e allo stile di vita di Caravaggio; e Federico Borromeo fa riferimento proprio ai facchini parlando dell’artista lombardo:
«Nei miei dì conobbi in Roma un dipintore […] che non fece mai altro che buono fusse nella sua arte, salvo il rappresentar […] i fachini, et gli sgraziati […]. Questo procedeva dai suoi costumi, i quali erano simiglianti ai suoi lavori»
Molti artisti lombardi erano sicuramente in contatto con i letterati dell’Accademia degli Inquieti fondata da Muzio II Sforza, tra i cui affiliati vi era anche il letterato Ludovico Settala, amico del Borromeo e da questi coinvolto nel progetto della Biblioteca Ambrosiana; Ludovico era un grande estimatore della pittrice Fede Galizia (Milano o Trento, 1578 ? – Milano 1630), autrice della copia della “Zingarella” dell’ Ambrosiana; l’artista era molto richiesta dall’aristocrazia milanese anche come copista del Correggio, come ricordato da Giovan Paolo Lomazzo ( Milano, 1538 – Milano, 1592) che nel suo “Idee del tempio della pittura” (Milano 1590, Bologna 1785), parla di Fede Galizia dicendo che la pittrice «imitava i più eccellenti dell’arte nostra».
Fede Galizia era inoltre apprezzata come ritrattista, a lei tra l’altro è attribuito un ritratto di Ludovico Settala, custodito nella collezione dell’Ambrosiana; più famoso è il ritratto di Paolo Morigia[ii], il gesuato che nel suo trattato “La nobiltà di Milano” del 1595 descrive l’attività dell’Accademia degli Inquieti ed i letterati che la frequentavano; tra questi vi era Gherando Borgogni, il letterato che aveva contatti con artisti lombardi, quali ad esempio Giuseppe Arcimboldo, Giovan Ambrogio Ficino e anche Fede Galizia[iii].
Amico del Borgogni era il canonico lateranense mantovano Gregorio Comanini il quale in un suo sonetto elogia il Figino per un ritratto da lui eseguito del marchese Muzio II Sforza[iv]; il Comanini inoltre nel suo trattato d’arte sul Figino cita due sue opere “La Madonna della serpe” e “San Matteo e l’angelo” eseguite dall’artista a Milano, le quali, secondo Roberto Longhi[v], potrebbero essere state prese a modello da Caravaggio per realizzare a Roma le celebri due opere di pari tema.
D’altronde sia il Figino che la stessa Galizia, ma anche Francesco del Cairo, sono artisti di cui si circondava, insieme ad altri, Federico Borromeo; alcune delle loro opere figurano nella Pinacoteca Ambrosiana voluta dal cardinale.
Fede Galizia inoltre è maggiormente conosciuta per le sue nature morte, un genere che si stava affermando verso la fine del cinquecento; la prima certa datazione di una sua natura morta è del 1602, ma non è escluso che vi siano sue opere precedenti; d’altra parte l’unica natura morta attribuita al Figino è stata datata al 1590-1591[vi].
Ciò fa pensare che Caravaggio abbia potuto interessarsi già a Milano a questo nuovo genere di pittura per comporre le sue splendide nature morte, la più famosa delle quali è la “Canestra di Frutta” dell’Ambrosiana, forse commissionata proprio da Federico Borromeo e comunque da questi molto apprezzata.
Nell’Accademia degli Inquieti potrebbe essere passato anche un altro artista, Enea Salmeggia detto il Talpino (Bergamo, 1558 – Bergamo, 1626); un suo quadro tra l’altro era presente nella collezione Settala fino al primo decennio del ‘800 prima di essere venduto ed oggi si conserva nella Pinacoteca di Brera[vii].
Anche ad Enea Salmeggia sarebbe riconducibile una copia della “Zingarella” come ricordato da padre Sebastiano Resta, grande estimatore del Correggio; il Resta nelle sue note nel “Abecedario pittorico” di Pellegrino Antonio Orlandi[viii] ricorda che alcuni disegni del Salmeggia sono passati per successione ereditaria ad un suo allievo Marco Antonio Cesareo, menzionando tra gli altri «un disegno di Enea cavato dall’abbozzo della zingara del Correggio»; secondo Ugo Ruggeri i disegni sarebbero confluiti nell’Accademia Carrara di Bergamo, ma della “Zingarella” se ne sono perse le tracce dopo essere stata venduta da una casa d’aste inglese, come riportato dalla rivista “Illustrated London News” del 18 gennaio 1930.
L’interesse per la “Zingarella” da parte di Enea Salmeggia, artista sensibile alle idee controriformiste, è giustificabile per gli orientamenti fortemente devozionali della sua espressione artistica; di tale aspetto ci parla Girolamo Borsieri, il letterato stimato da Federico Borromeo per i suoi molteplici interessi e con il quale ebbe uno scambio epistolare, dice il Borsieri:
«[…]V’ha il Salmetia, il quale, allo incontro, contento dell’imitar la delicatezza e la semplicità di cui operava i pennelli nel principio del passato secolo, move a mirar devotamente ciascuna sua imagine fino i nemici della stessa devotione […]»[ix].
Tra le commissioni più importanti affidate a Salmeggia nel suo periodo milanese, è bene ricordare la pala dell‘Annunciazione datata 1596 e realizzata nella Certosa di Garegnano, dove Simone Peterzano aveva eseguito un importante ciclo pittorico, terminato circa due anni prima che il maestro accogliesse nella sua bottega il giovane Caravaggio.
Si ipotizza che sia stato lo stesso Peterzano ad introdurre il Talpino nel cantiere della Certosa ed inoltre che proprio presso la bottega del maestro di Caravaggio, Enea Salmeggia abbia effettuato il suo apprendistato artistico; di tale parere è Costantino Baroni, studioso del Peterzano, che evidenzia le attinenze stilistiche[x] tra i due artisti:
«Peterzano, egli pure bergamasco, avrebbe trasmesso all’allievo la sua ricchezza di risorse tecniche […] insieme con la ricerca costante di valori atmosferici e di luce»[xi].
È importante notare come anche Maurizio Calvesi[xii] abbia riscontrato particolari analogie iconografiche tra il Salmeggia e Caravaggio: nel Martirio di S. Alessandro del 1623, dipinto dal Talpino per la chiesa di Sant’Alessandro in Colonna a Bergamo; è singolare la somiglianza della figura (fig.3)
posta in basso a sinistra della tela, del ragazzo che seduto su uno sgabello assume la stessa postura del ragazzo di spalle (fig.4) della Vocazione di San Matteo nella cappella Contarelli in S. Luigi dei Francesi; inoltre il gesto della ragazza (fig.5) in basso a destra del dipinto di Bergamo che tiene in mano un grappolo d’uva ricorda il gesto del “Bacchino malato” (fig.6).
A proposito di quest’ultima analogia, se si scarta l’ipotesi di un viaggio del Salmeggia a Roma, come tra l’altro da alcuni ipotizzato per le influenze raffaellesche nelle sue opere, si potrebbe ritenere che ambedue i pittori abbiano potuto trarre ispirazione da un disegno (fig.7) di Simone Peterzano preparatorio per la Sibilla Persica (fig.8) della Certosa di Garegnano[xiii].
Tale fatto potrebbe avvalorare l’ipotesi, su un possibile comune alunnato dei due artisti presso lo stesso maestro.
Un altro elemento che può aver destato l’interesse di Caravaggio per l’opera del Correggio, è la posizione della “Zingarella” accovacciata per terra, così ritratta anche dal maestro lombardo nel suo “Riposo Doria”, una posizione che evoca la “Madonna dell’Umiltà”, un tema che, secondo i precetti del cattolicesimo pauperistico dei Borromeo, era molto caro a Caravaggio che lo riproporrà per la rappresentazione della Vergine nell’Adorazione dei Magi di Messina e nella perduta “Natività” di Palermo.
La Madonna dell’Umiltà è un soggetto iconografico di derivazione bizantina, una variante della cosiddetta “Maria Glykophilousa o Eleousa” ovvero Madonna della Dolcezza o della Tenerezza, dove il Bambino è raffigurato con la guancia teneramente accostata a quella della Madre; la “Beata Domina de Humilitate” ha avuto diffusione in Italia nei secoli XIV e XV e successivamente ha subito un’evoluzione iconografica venendo scambiata con la Madonna del Riposo durante la fuga in Egitto, come lo è appunto la Madonna del Correggio.
È interessante allora capire se lo stesso Correggio si sia ispirato agli artisti delle generazioni precedenti che hanno trattato l’analogo tema; in effetti è possibile riscontrare analogie tra la “Zingarella” con una Madonna dell’Umiltà rappresentata da Mantegna (Isola di Carturo, 1431 – Mantova, 13 settembre 1506) in una pregevole incisione (fig.9) databile intorno al 1480-1485 e soprattutto con un bassorilievo di Donatello[xiv] del 1430 che rappresenta la Madonna dell’Umiltà, conosciuta come “Madonna delle Nuvole” (fig.10), dove la Vergine ha un atteggiamento simile a quello della Vergine del Correggio.
Secondo gli studiosi, la lastra dell’incisione di Mantegna, considerata dall’esperto di stampe rinascimentali David Landau “la più bella stampa del Rinascimento italiano e una delle più toccanti Madonne con il bambino di tutta la storia dell’arte”, è stata utilizzata dal Maestro per comporre la “Madonna della Tenerezza” (fig.11) dei Musei Civici agli Eremitani di Padova, un’opera recentemente attribuita allo stesso Mantegna e aiuti dallo storico dell’arte Lionello Puppi.
Mantegna ripropone più volte, secondo un’interpretazione personale, il tema della Madonna della Tenerezza (fig.12)
in diverse versioni, tutte accomunate dalla stretta vicinanza del volto del Bambino a quello della Madonna (figg.13-16).
L’analogia tra l’opera del Correggio e l’incisione del Mantegna, trova la sua giustificazione nei rapporti che l’artista emiliano ebbe sin da giovanissimo con la città dei Gonzaga, dove forse ebbe modo di conoscere lo stesso Mantegna ormai sul punto di morte e dove sicuramente poté ammirare le opere che il Maestro aveva lasciato a Mantova. Al giovane Correggio si deve l’ideazione e buona parte della realizzazione del progetto decorativo della cappella funeraria di Andrea Mantegna nella basilica di Sant’Andrea a Mantova, dove erano già presenti opere del maestro padovano realizzate insieme ai suoi due figli poco prima della sua morte.
Ugo IMPRESCIA Roma 26 aprile 2020