di Rita RANDOLFI
Le peripezie del mezzo busto di Giunone in Galleria Borghese.
Nel 1828, tra i beni dei Lante che, per sentenza dell’Uditore di Rota Giuseppe Bofondi, finirono ai Borghese, compare: «Una testa di marmo rappresentante una Giunone esistente nel di lui Palazzo»[1] (fig. 1). Il palazzo cui si faceva riferimento era quello di piazza dei Caprettari, dimora di rappresentanza dei Lante.
Il costo della scultura, 70 scudi, era stato stabilito, come del resto recitava la stessa sentenza, il sei luglio del 1827[2], da Filippo Albacini, figlio del più famoso Carlo, da tempo in contatto con Antonio Canova che, nel 1811, lo aveva introdotto all’Accademia di San Luca[3].
L’artista era stato convocato da Giulio Lante, figlio di Vincenzo e nipote del cardinale Alessandro, per stimare la raccolta delle sculture destinate al mercato dell’arte[4]. Giulio, infatti, riuscì ad ottenere dalla depositeria urbana la licenza di mettere all’asta gli oggetti appartenuti alla propria famiglia per estinguere i debiti contratti con diversi creditori[5].
Il pezzo sarebbe difficilmente identificabile se non si fossero ritrovati gli inventari della collezione Lante redatti da artisti diversi e in epoche differenti. Infatti la Giunone, descritta velocemente nei documenti fin qui esaminati, non era di marmo bianco, come farebbe pensare la laconica citazione della sentenza del 1828, bensì di rosso antico e proveniva dalla raccolta di Flavio Orsini, duca di Bracciano.
Nell’inventario post mortem delle sculture appartenute a Flavio, compilato da Pietro Papaleo nel 1698 era, infatti, catalogata al n. 99: «Una testa più del naturale con poco petto rappresentante Giunona con tiara in capo alta p.mi 2 di pietra rossa s. 50»[6].
L’opera non compare nell’inventario di Marie Anne de la Trémoille, seconda moglie di Flavio ed erede universale del patrimonio Orsini[7], ma si rintraccia, invece, in un elenco di opere di Luigi II Lante del 1781. Nel testamento, rogato nel 1722 dal notaio capitolino Giromamo Sercamilli, Marie Anne aveva lasciato l’intera raccolta ereditata dal marito e dal cognato Lelio, al nipote prediletto Luigi I, figlio della sorella Luisa Angelica e di Antonio Lante. Luigi morì precocemente il 14 agosto del 1727, e i suoi beni passarono al primogenito Filippo e da questi al nipote Luigi II.
Nel documento del 1781 la Giunone era descritta come: «molto fragmentata con busto moderno», ed era ancora valutata 50 scudi[8].
Nel 1794 il busto compariva nella stima che Vincenzo Pacetti fu chiamato ad effettuare sull’intero patrimonio scultoreo della famiglia di origine pisana, che già navigava in cattive acque e cominciava a pensare di contenere l’imminente dissesto finanziario con la vendita delle opere d’arte[9]. Di estremo interesse si rivela la lettura che l’artista fornì del pezzo. Si trattava, infatti, di un mezzo busto: «con testa di rosso antico e busto impiallacciato»[10].
Tuttavia maggiori chiarimenti vennero forniti da Antonio d’Este, il quale, nell’inventario dei beni di Vincenzo Lante, stipulato il 16 novembre del 1811, a un mese dalla morte del duca, dichiarò il busto di alabastro e giudicò l’opera di «mediocre stile» attribuendogli il valore di 250 scudi[11].
Da una perizia del 1814, sempre compilata dal D’Este, si viene a sapere che la scultura era collocata: «Principiando dalla cima della scala»[12]. Più tardi fu invece trasferita: «Nell’anticamera di Monsignore» da riconoscersi in Alessandro Lante, fratello di Vincenzo, che sarà eletto cardinale l’8 marzo 1816 da Pio VII[13].
Alessandro, tenterà invano di convincere la Depositeria Urbana ad acquistare per intero la collezione scultorea della sua famiglia, contando soprattutto sulle sue amicizie importanti, in particolar modo sul suo rapporto con Bartolomeo Pacca[14]. Questi, in un primo momento, si dimostrò favorevole all’affare, convinto da Alessandro stesso e dalle opinioni di Antonio Canova e del suo collega e collaboratore D’Este[15]. Il computista di casa Lante, Pietro Ferrari ricevette l’incarico di approntare un elenco di opere che il prelato intendeva cedere. Tale elenco fu inviato, nel 1818, al cardinale Attanasio, che allora rivestiva la carica di Uditore del cardinal camerlengo[16]. Tuttavia, dopo la morte di Alessandro Lante, sopraggiunta il 14 luglio dello stesso anno, l’affare non andrà in porto, e soltanto molti anni più tardi, esattamente nel 1827, come si diceva all’inizio, il nipote di Alessandro, Giulio, riuscirà ad ottenere la licenza di alienazione per l’intera collezione di famiglia.
Nella copia della sentenza di Monsignor Bofondi, rintracciata tra le carte dell’archivio Borghese e resa nota da Moreno e Sforzini era stato trascritto erroneamente «giovane» al posto di Giunone[17]. I due studiosi, infatti, affermavano che la scultura non si trovava citata nei documenti Borghese prima del 1832, anno in cui compariva menzionata nella Galleria al pian terreno della villa pinciana insieme ai dodici Cesari e a due colonne di alabastro e aggiungevano, inoltre, che nell’Ottocento si riteneva che la testa fosse antica e impostata su un busto moderno la cui datazione oscillava tra il XVI e il XVII secolo.
Antonio d’Este, come già del resto il compilatore dell’inventario del 1781 e lo stesso Pacetti, ribadirono che il busto era impiallacciato ed il redattore del primo elenco specificava anche che non era contemporaneo alla testa di rosso antico.
L’artefice del ripristino potrebbe identificarsi in Gaspare Sibilla[18] che, nel 1763, per il cardinale Federico Marcello Lante, aveva restaurato le sculture conservate nel cortile e lungo lo scalone del palazzo di piazza dei Caprettari[19]. Il busto di Giunone risultava, infatti, fin dal 1781 esposto strategicamente sulla sommità dello scalone e, soltanto nel 1814, Alessandro, forse conscio della bellezza del pezzo, l’aveva trasferito nel suo appartamento.
L’intervento di Sibilla, che in un certo qual modo aveva restituito un’immagine integra, dotando la testa della dea di un busto che potesse sostenerla, spiega anche la levitazione del prezzo dell’opera, che da 50 scudi ascenderà a 250. Nel Settecento, infatti l’originale, mutilo, acquistava valore se integrato, nonostante l’intervento dei restauratori fosse meno arbitrario rispetto alla prassi del secolo precedente, e più aderente alle idee, almeno così si credeva, del creatore del prototipo[20].
I Borghese furono ben contenti di appropriarsi del mezzo busto della dea. Attualmente, infatti, la Giunone si trova collocata nella IV sala della Galleria del Casino della villa Borghese, secondo una disposizione ideata da Giuseppe Gozzani, figlio del cavaliere Evasio, a lui succeduto nell’amministrazione del patrimonio di Camillo[21], che aveva pensato di raccogliere in un unico ambiente tutte le sculture policrome della collezione di famiglia.
Il pezzo, che tra l’altro presenta dimensioni analoghe a quelle dei busti dei dodici Cesari, provenienti dalla raccolta di Guglielmo della Porta, ne completa idealmente la serie, essendo collocato su un piedistallo esattamente come i suoi “compagni” di cui costituisce un anomalo pendant.
Rita RANDOLFI Roma 3 maggio 2020
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