di Sergio ROSSI
Che Ridolfo del Ghirlandaio avesse una particolare predilezione per il tema la Madonna della Sacra Cintola è cosa nota, tanto che sono ben tre i dipinti di questo soggetto ascrivibili al nostro artista. Ma che questo soggetto appassionasse anche Raffaello è un dato finora trascurato alla storiografia e che è emerso molto di recente, come questo studio intende dimostrare. Infatti finora si riteneva che solo nella Pala Oddi della Pinacoteca Vaticana (fig.1) il Sanzio avesse usato questa iconografia; e invece Raffaello raffigura la Vergine mentre si sfila la cintola che le cinge la vita e con essa regge Gesù bambino nell’atto di cavalcare un agnello anche nella cosiddetta Madonna del Fieno o dell’agnello di collezione privata (fig.2), splendida tavola praticamente sconosciuta al grande pubblico ma ritenuta opera certa del grande urbinate già da Giuseppe d’Ayala nel 1874 e poi a partire dagli anni Venti del secolo scorso dai principali esperti raffaelleschi, dal Fischel al Bode, dal Voss al Morassi, dal Camesasca al Rearick, dall’Emiliani a Briganti, dal Marabottini Marabotti a Federico Zeri, da Claudio Strinati fino a Jürg Meyer zur Capellen.
Ed è proprio dai rapporti di amicizia che sono intercorsi tra Il Sanzio e Ridolfo del Ghirlandaio che intendo iniziare la mia analisi: su di essi si dilunga il Vasari nelle Vite di entrambi gli artisti. Per quel che riguarda Raffaello lo storico scrive che questi, arrivato a Firenze da Siena:
«perché non gli piacque meno la città, che quell’opere [di Leonardo e Michelangelo] le quali gli parvero divine, deliberò di abitare in essa per qualche tempo; e così, fatta amicizia con alcuni giovani pittori, fra’ quali furono Ridolfo del Ghirlandaio, Aristotele da San Gallo e altri, fu nella città onorato e particolarmente da Taddeo Taddei … tornato a Fiorenza [da Perugia] gli fu dai Dei, cittadini fiorentini, allogata una tavola [la Madonna del Baldacchino] che andava alla cappella dell’altar loro in Santo Spirito; et egli la cominciò e la bozza a bonissimo termine condusse, e intanto fece un quadro che si mandò in Siena, il quale nella partita di Raffaello rimase a Ridolfo del Ghirlandaio, perché gli finisse un panno azzurro che gli mancava».
Nella vita di quest’ultimo scrive invece:
«Ridolfo, disegnando al cartone di Michelagnolo, era tenuto de’ migliori disegnatori che vi fussero e perciò molto amato da ognuno, e particolarmente da Raffaello Sanzio da Urbino, che in quel tempo, essendo anch’egli giovane di gran nome, dimorava in Fiorenza, come s’è detto, per imparare l’arte. Dopo aver Ridolfo studiato al detto cartone, fatto che ebbe buona pratica nella pittura sotto fra’ Bartolomeo di San Marco, ne sapea già tanto, a giudizio de’ migliori, che dovendo Raffaello andare a Roma, chiamato da papa Giulio Secondo, gli lasciò finire il panno azzurro et altre poche cose che mancavano al quadro d’una Madonna che egli avea fatta per alcuni gentiluomini sanesi, il qual quadro, finito che ebbe Ridolfo con molta diligenza, lo mandò a Siena. E non fu molto dimorato Raffaello a Roma, che cercò molte vie per condurre là Ridolfo, ma non avendo mai perduta colui la cupola di veduta (come si dice), né sapendosi arrecare a vivere fuor di Fiorenza, non accettò mai partito che diverso o contrario al suo vivere di Firenze gli fusse proposto».
Proprio nel periodo descritto dal Vasari si pone il più importante capolavoro ridolfiano degli anni giovanili e cioè La Madonna della Cintola con i Santi Stefano, Agostino, Lorenzo, Tommaso, Margherita e Caterina d’Alessandria, commissionata nel 1507 (fig.3) e collocata nella controfacciata interna del Duomo di Prato il 31 maggio del 1509. Si tratta di un dipinto di grande equilibrio compositivo e assoluto rigore formale (1) orientato verso quella sorta di “protoraffaellismo” coniugato con una vena più discorsiva e colloquiale tipica del miglior Ridolfo di questi anni. Valga su tutti l’immagine di Santa Margherita mutuata senza dubbio dalla figura della Vergine nella raffaellesca Madonna della palma, o ancora la netta divisione tra la parte superiore e quella inferiore della scena o ancora il sarcofago posto in diagonale che conferisce profondità all’insieme ed al contempo è come se conducesse lo sguardo verso la Vergine che sta per essere assunta in cielo.
Certo i due angeli in alto sono piuttosto sgraziati e con le braccia troppo allungate, segno che sono stati dipinti da un collaboratore meno esperto, ma anche questo particolare non ha minimamente nociuto all’enorme successo dell’opera, divenuta subito uno dei simboli stessi della devozione pratense. A proposito dell’allogazione dell’opera al Ghirlandaio, poi, Ferdinando Baldanzi ci narra un aneddoto assai interessante, che ci illumina ancora una volta sul particolare tipo di committenza del Bigordi jr., una committenza spesso legata a lui da rapporti amichevoli e non solo strettamente e freddamente professionali:
«Presero certamente motivo gli amministratori della Cappella di allogare a Ridolfo questo lavoro dalla celebrità sua nell’arte; ma vi furono indotti da un sentimento di affezione speciale per lui perché era conservata in molti la memoria della guarigione operata nella persona di Ridolfo, quando bambinello e mortalmente infermo fu condotto in Prato dalla sua nutrice davanti all’immagine di Maria Vergine delle carceri, che intorno a quel tempo erasi mostrata portentosa».
Questo successo deve aver sicuramente spinto il nostro artista a replicare questo tema nella Madonna della Cintola con i Santi Francesco, Giovanni Battista, Tommaso, Orsola ed Elisabetta, ora conservata al Museo di S. Marco a Firenze (fig.4) e proveniente dal convento di Sant’Orsola in Cafaggio, nell’odierna via Guelfa, molto vicina, per diversi aspetti, alla tavola appena citata. L’impostazione complessiva di questo dipinto deriva chiaramente dal suo omologo di Prato, ma altri riferimenti stilistici ad opere quali L’Incoronazione della Vergine del Museo del Petit Palais di Avignone o gli Angeli della Galleria dell’Accademia di Firenze ci fanno collocare il dipinto negli anni immediatamente successivi al 1510, quelli cioè in cui Ridolfo andava elaborando un proprio stile autonomo ed inconfondibile.
E’ per questo che risulta assolutamente incomprensibile come un’altra pala, indubitabilmente ghirlandaiesca è già a lui attribuita ab antiquo dal Richa, che la definiva «opera bellissima di Ridolfo del Ghirlandaio» possa invece oggi passare, del tutto erroneamente e con una concordia degna di miglior causa, come opera di Giovanni Antonio Sogliani. Mi riferisco ad una Madonna della Cintola con i SS. Giovanni Battista, Miniato, Tommaso, Francesco e Giacomo, datata al 1521, già ubicata presso la chiesa di S. Giuseppe alla Porta ai Pinti e ora al Museo di S. Marco di Firenze (fig.5).
E la cosa è tanto più strana in quanto, come già detto, proprio presso il Museo di S. Marco si conserva un’altra Madonna della Cintola di Ridolfo talmente simile alla tavola in questione, nello stile come nell’iconografia, da non consentire nessun dubbio attributivo. Tutt’al più si può concedere che un certo irrigidimento accademico della seconda pala rispetto alla prima, tra l’altro precedente di quasi dieci anni, possa dipendere dal fatto che Ridolfo si sia già potuto servire, nell’esecuzione dell’opera, della parziale collaborazione dell’allora giovanissimo Michele Tosini, detto appunto Michele di Ridolfo.
Ma in ogni caso Giovanni Antonio Sogliani con l’opera in questione, non ha assolutamente nulla a che spartire. Pur appartenendo alla medesima cerchia di Ridolfo, egli risulta infatti più ascetico e pateticamente caricato, ma quindi anche meno comunicativo, del nostro artista, come testimonia ad esempio la sua austera S. Brigida che impone la regola, ora conservata presso il Museo del Cenacolo di S. Salvi, tutta giocata su un freddo equilibrio di grigi e di bruni assai distanti dalla calda luminosità della pala di S. Marco. (2)
Venendo a Raffaello è noto come il suo primo contatto con il tema della Madonna della Cintola si abbia nell’Incoronazione della Vergine o Pala Oddi conservata presso la Pinacoteca Vaticana ed eseguita tra il 1501 ed il 1503 per l’altare della chiesa di S. Francesco al Prato di Perugia dove rimase fino al 1797. Inviata in Francia in seguito al Trattato di Tolentino rientrò in Italia nel 1815 ed entrò a far parte della nuova Pinacoteca Vaticana. Secondo il Vasari l’opera fu commissionata da Maddalena degli Oddi
«ma in un contratto del dicembre del 1512 il Perugino si impegnò a dipingere una pala con L’Assunzione della Vergine per la chiesa di Santa Maria a Corciano seguendo il modello della tavola in S. Francesco al Prato che, nel documento, si dice fatta eseguire da Alessandra di Simone degli Oddi»,
poi identificata con Leandra, figlia di Baccio Baglioni e sposa di Simone degli Oddi. Ulteriori ricerche
«hanno risolto l’apparente contraddizione di fonti e documento: Maddalena di Guido degli Oddi, sorella di Simone e cognata di Leandra, fu probabilmente la fondatrice della cappella, per la quale Leandra fece in seguito dipingere la pala, il cui tema appare del tutto appropriato alla funzione eminentemente funeraria della cappella stessa». (3)
La grande tavola presenta una netta divisione, di matrice peruginesca, tra la parte superiore con la scena dell’Incoronazione e quella sottostante con il corteo dei dodici apostoli disposti in semicerchio intorno al sarcofago posto in diagonale; tra di essi il ruolo principale è attribuito proprio a San Tommaso, raffigurato al centro della scena con in mano la Sacra Cintola che per colori e dimensioni è esattamente quella conservata nel Duomo di Prato tanto che sono convinto che Raffaello debba aver visto di persona la reliquia.
Del resto, dato che in questo periodo egli si spostava continuamente tra Urbino, Perugia, Città di Castello, Siena, Firenze (certo anche prima del 1504) è del tutto ipotizzabile che egli possa aver fatto anche una breve sosta a Prato. Prima di chiudere con questo dipinto un’ultima considerazione:
«L’accostamento della parte superiore a quella inferiore appare piuttosto insolito. In un disegno conservato a Budapest Sylvia Ferino ha riscontrato un primo abbozzo della scena dell’Assunzione della Vergine. Come sarebbe avvenuto anche inseguito, Raffaello presenta qui una più ampia e teologicamente versione del soggetto, in cui i fiori del sarcofago, come la cintola di Tommaso, simboleggiano l’assunzione al cielo anima e corpo della madre di Dio». (4)
Tornando infine alla raffaellesca Madonna del fieno o dell’agnello da cui siamo partiti, possiamo ribadire che si tratta di una splendida tavola integralmente autografa ed eseguita dal Sanzio durante l’ultimo periodo del suo soggiorno fiorentino e da identificarsi con quel “quadro che si mandò in Siena, il quale nella partita di Raffaello rimase a Ridolfo del Ghirlandaio, perché gli finisse un panno azzurro che gli mancava” citato proprio da Giorgio Vasari.
E’ evidente come sia lo schema piramidale della Vergine con il Bambino inseriti en plein air in un verdeggiante paesaggio, sia il particolare del piccolo Gesù che cavalca un giovane agnello siano di chiara matrice leonardesca ed alludano da un lato alla futura Passione ed al sacrificio volontario di Cristo e dall’altro all’umanità tutta che il figlio di Dio è chiamato a salvare. Ma Raffaello introduce in quest’opera un’importante novità iconografica legata proprio al tema della Sacra Cintola. Infatti, come molto opportunamente osserva Paolo Violini nella Relazione tecnica al restauro del dipinto da lui effettuato nel 2014: «se da un lato il motivo della Madonna che trattiene il Bambino con una striscia di tessuto si ritrova spesso nelle opere di Raffaello di questo periodo e anche degli anni successivi, come nella Madonna della Palma o nella Madonna di Foligno, in questo caso la somiglianza della fettuccia di stoffa verde con la Sacra Cintola originale la fa apparire come una citazione precisa e non casuale. La Vergine, infatti, si è tolta la cintola dal proprio vestito e la usa, con atto materno, per cercare di trattenere il Bambino mentre gioca con l’Agnello. Il delicato naturalismo del gesto, nella sua spontaneità narrativa, in realtà sottintende un profondo significato iconografico e teologico: la Madre vorrebbe trattenere il Figlio dal suo drammatico destino, rappresentato dall’Agnello sacrificale che lui stesso nutre con il fieno tra le mani». Da sottolineare inoltre il delicato gioco degli sguardi e la splendida resa psicologica dei due personaggi: mentre infatti il Bambino guarda con serena fideità verso l’esterno del quadro e dunque verso una fonte luminosa che è quella della grazia divina, la madre appare pervasa da una sorta di malinconica rassegnazione che la porta a comunque a piegarsi anch’essa ad un volere superiore per il bene dell’umanità.
Si deve di recente a Claudio Falcucci (5) uno studio approfondito del nostro dipinto con la relativa conferma della sua piena autografia, come sottolinea nell’introduzione al volume Jürg Meyer zur Capellen, che parte dall’attribuzione della tavola a Raffaello da parte di Oskar Fischel, confermata più tardi da Wilhem Bode: «Per questi studiosi l’autografia di Raffaello era indubbia. In particolare Fischel, ancor oggi apprezzato come profondo conoscitore di Raffaello, aveva analizzato attentamente il dipinto ed esso, come opera originale del Sanzio fu inserito nel suo Catalogo delle opere pubblicato nel 1948. Con argomenti convincenti egli propose una datazione verso il 1506 e avanzò l’ipotesi di una provenienza senese. La lettura del dipinto è stata recentemente chiarita dalle analisi scientifiche di Claudio Falcucci che ha potuto dimostrare come nella tecnica del disegno e nella resa pittorica vi siano forti analogie con altre opere di Raffaello, in particolare con la pala Baglioni…[E nella nostra opera]…particolarmente interessanti sono i suoi numerosi pentimenti soprattutto nella zona del Bambino e dell’agnello e proprio qui si esprime l’idea centrale dell’opera».
Osservazioni confermate da Paolo Violini che nella sua già citata Relazione del 2014 si sofferma sulla tecnica pittorica molto particolare tipica del Raffaello dell’ultimo periodo fiorentino e così continua: «la pulitura ha restituito a tutti gli incarnati un colore denso e di compattezza quasi smaltata, riportando alla luce le originali cromie chiare e luminose, con ombre fredde velate di azzurro e chiari rosati con intonazioni di cinabro, secondo una prassi pittorica tipica delle produzioni raffaellesche di questo periodo, che dimostra la conoscenza della tecnica leonardesca. Il ductus pittorico mostra una pennellata sottile e condotta con velature di colori che creano sfumature e passaggi tonali morbidissimi ed impercettibili. Si vedano, per esempio, le delicatissime modulazioni chiaroscurali dell’incarnato del piede sinistro della Madonna, completamente occultate dallo spesso strato di vernici alterate, ed assolutamente inimmaginabili prima della pulitura. La zona del Bambino con l’agnello, inoltre, è apparsa come una delle parti meglio conservate ed in particolare gli incarnati del Bambino mostrano una carnagione chiara e luminosa, accesa dai rossi di cinabro della bocca e delle guance. Raffinatissima anche l’esecuzione dei capelli, con ciocche bionde e lumeggiature realizzate con sottilissime pennellate di bianco, che mostrano una definizione da miniaturista. Anche nelle zone in ombra dell’incarnato del Bambino, così come per le ombreggiature della pelliccia dell’agnello, è possibile riscontrare la stessa velatura di azzurro già notata nelle ombre del collo della Madonna.
Anche il disegno del Louvre (Inv. 3861), che viene normalmente riferito ad un’idea di composizione adottata nella Madonna della Palma della National Gallery di Edimburgo, appare in realtà molto aderente alla composizione della Madonna del Fieno. Sia nel disegno che nel dipinto, infatti, la Madonna trattiene il Bambino con due dita per mezzo di una vera e propria cintola, ribadendo il significato simbolico di quest’invenzione iconografica, diversamente da quanto accade nella Madonna della Palma, dove la Vergine trattiene il Bambino con un velo che scende dalle sue spalle. Tuttavia sia la Madonna del Fieno, sia la Sacra Famiglia con la Palma e la Sacra Famiglia Canigiani potrebbero derivare da questo stesso studio preparatorio.
Il gesto della mano che morbidamente trattiene il Bambino con due dita si ritrova infatti in tutti e tre i dipinti, con varianti come il velo (nella palma) o il libro (nella Canigiani), così come la postura della Vergine, morbidamente assisa su un gradino di pietra».
Ho voluto qui anticipare per About Art alcuni degli aspetti principali di un mio studio di imminente pubblicazione, più articolato e complesso, nel quale fornirò gli elementi definitivi per confermare la committenza senese del dipinto intuita a suo tempo dal Fischel; ricostruirò la genesi dall’opera a partire da un disegno perduto di cui parlano già le fonti seicentesche (6) e darò conto al contempo di tutti quegli autori che al dipinto si sono ispirati già a pochi anni dalla sua esecuzione come proprio Ridolfo del Ghirlandaio (fig. 6); pubblicherò i testi integrali delle perizie e delle schede di tutti gli autorevoli esperti raffaelleschi che hanno scritto dell’opera e che ho citato in apertura; ma aprirò anche la mia indagine a tutte le Madonne col Bambino eseguite da Raffaello nel suo soggiorno fiorentino e fornirò infine, anche se solo in estrema sintesi, quel Catalogo completo e aggiornato dei dipinti di Ridolfo del Ghirlandaio che ancora manca, pur se stiamo parlando di uno tra i più significativi e misconosciuti geni del nostro primo Cinquecento.
Sergio ROSSI Roma 10 maggio 2020
Note:
-
Rossi, Ridolfo del Ghirlandaio e i suoi committenti, tra “borghesia” e devozione, in “Humanistica” Dossier, V.1.2010, pp. 89-100.
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ibidem, pg. 95 e sgg.
-
De Vecchi, in Raffaello in Vaticano, Milano 1984, pp. 14-18.
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ibidem, p.18.
-
Falcucci, Raffaello. La Madonna dell’agnello, indagini diagnostiche, Roma 2008.
-
si veda al riguardo J. D. Passavant, Raffaello d’Urbino e il padre suo, vol. III, Firenze 1891, p.280.