di Nica FIORI
I mosaici di Pasquale I nella basilica di Santa Prassede. La spiritualità medievale espressa nell’Hortus Paradisi e nella Gerusalemme celeste
Sul colle Esquilino, a due passi da Santa Maria Maggiore, si trova l’antica basilica dedicata a Santa Prassede, la cui vita è in realtà molto oscura, tanto che i classici manuali di agiografia le dedicano solo poche righe o addirittura la saltano. Un racconto del VI secolo, la Passio Pudentianae et Praxedis, la qualifica come sorella di Santa Pudenziana, e figlia del senatore Pudente, che ospitò nella sua dimora l’apostolo Pietro e fu discepolo di San Paolo, il che ci riporterebbe alle origini del cristianesimo a Roma. Si racconta pure dei loro fratelli Novato e Timoteo, entrambi santi e accomunati nel martirio. La figura di Prassede viene ricordata come quella di una fanciulla devotissima dei martiri, dei quali avrebbe raccolto il sangue e conservato le spoglie, e qui le cose si complicano perché la Passio fa riferimento alla persecuzione sotto Antonino Pio (imperatore dal 138 al 161), mentre lei dovrebbe essere vissuta nel I secolo.
Sul presunto luogo di raccolta di reliquie venerande da parte di Prassede sarebbe sorto all’epoca di Pio I (metà del II secolo) un primitivo luogo di culto, al quale si sarebbe sovrapposta più tardi la basilica del IV-V secolo, ricostruita con un diverso orientamento all’epoca di Pasquale I (817-824) e poi più volte rimaneggiata. Un documento del 499 attesta la presenza del titulus Praxedis, che un secolo dopo (nel 595) prese il nome di “Santa Prassede”, lasciandoci così il dubbio che possa anche trattarsi di uno di quegli esempi di trasformazione in santi dei fondatori delle chiese di Roma. Fu allora che nacque probabilmente la “leggenda” della sua vita, forse per la vicinanza della chiesa alla vicina basilica di Santa Pudenziana, sorta sui resti della presunta domus di Pudente, nel vicus Patricius, ora via Urbana. Del resto anche la vita di Pudenziana non è certa, in quanto il suo nome potrebbe essere derivato dall’Ecclesia Pudentiana, ovvero chiesa di Pudente. La Chiesa di Roma ha comunque posto le due sorelle tra le sante preferite, le vergini del tempo delle persecuzioni, e i loro resti, traslati dalle catacombe di Priscilla, sono stati sepolti nella cripta di Santa Prassede.
Mentre la basilica di Santa Pudenziana è caratterizzata da un ingresso abbastanza scenografico, alla basilica di Santa Prassede si accede da una semplice porta laterale nell’omonima stretta via. Dall’esterno non appare niente che lasci sospettare quello che si nasconde al suo interno, perché la facciata è nascosta entro un cortile che si apre (attraverso una scalinata) su via di San Martino ai Monti, dove troviamo il protiro d’ingresso, ma purtroppo sempre chiuso (foto 1, 2 e 3). Pur vantando numerose opere d’arte e reliquie (vi si conserva anche la colonna della Flagellazione di Cristo), l’originalità di questa basilica consiste nella ricchezza di mosaici del IX secolo, voluti da Pasquale I. Oltre alla zona absidale e all’arco trionfale, i mosaici decorano anche un piccolo oratorio, fatto realizzare dal pontefice come tomba per la madre Teodora, definita Episcopa in quanto madre del Vescovo di Roma.
Quest’oratorio, intitolato ai Santi Zenone e Valentino, è un monumento assolutamente imperdibile.
Nonostante le modeste dimensioni o forse proprio per questo, sprigiona una forza spirituale non comune e un’armonia unica, tanto che i contemporanei lo chiamarono Hortus Paradisi (giardino del Paradiso). Ma anche l’osservatore moderno, indubbiamente animato da uno spirito diverso rispetto ai fedeli del Medioevo, rimane letteralmente ammaliato dalla sua ricchezza cromatica e dall’iconografia paradisiaca, che ricorda alcuni celebri mosaici bizantini di Ravenna.
La decorazione musiva di Santa Prassede è in realtà opera della scuola romana, che aveva ricevuto nuovo vigore dalla venuta di monaci e artisti provenienti dall’Oriente sconvolto dalle lotte iconoclaste, e alla quale si devono anche i mosaici delle chiese di Santa Cecilia e di Santa Maria in Domnica, tutti commissionati da Pasquale I, che si è fatto sempre raffigurare con il modellino della chiesa in mano e con il nimbo quadrato dei viventi, derivante dall’iconografia imperiale (foto 4). E qui un pensiero mi viene spontaneo: se questo papa, per quanto santo, non avesse fatto realizzare questi mosaici, nessuno forse si ricorderebbe di lui, mentre grazie all’opera d’arte ha sigillato davanti al mondo intero il suo operato.
Ben poco sappiamo dei santi venerati nella cappella dei Santi Zenone e Valentino, che conteneva anche i resti di molti altri martiri, qui traslati dalle catacombe romane e i cui nomi risultano da una lunga epigrafe di Pasquale I. Zenone avrebbe subito il martirio nel III secolo d.C. e viene indicato come “fratello di Valentino” dall’autore del De locis sanctis martyrum. Questa notizia, la cui attendibilità non può essere verificata, spiegherebbe perché nella cappella essi siano stati sepolti e venerati insieme. Quanto a Valentino, non si tratta del vescovo di Terni (che è sepolto a Terni), ma potrebbe essere il presbitero che, al tempo dell’imperatore Claudio il Gotico (268-270), sarebbe stato martirizzato e sepolto lungo la via Flaminia nella catacomba detta di San Valentino.
Così come gran parte della decorazione marmorea della chiesa, che è di reimpiego, pure il portale dell’oratorio, posto quasi al centro della navata destra, è sormontato da un antico blocco di marmo, che poggia su due colonne (di diametro diverso), una di granito e l’altra di serpentino nero, inserite tra basi e capitelli medievali. Al di sopra è poggiata un’urna cineraria romana, sullo sfondo di una finestra a grata attorno alla quale si svolge un mosaico costituito da due archi decorati a clipei (medaglioni), dove, accanto a Cristo e alla Vergine col Bambino, si riconoscono le immagini degli Apostoli e dei Santi titolari. Al di sotto vi sono due ritratti di papi totalmente rifatti e contrastano con lo stile più antico dell’insieme (foto 5 e 6).
Il motivo decorativo dell’immagine clipeata aveva precedentemente avuto larga diffusione, specie a Ravenna, ma in questo caso esso assume tale preponderanza da essere il solo protagonista dell’ornato. La viva bellezza di questo prospetto fa da introduzione al giardino paradisiaco raffigurato all’interno. Ma per vedere il Paradiso è consigliabile evitare di accendere subito la luce (a pagamento) e lasciare che gli occhi si abituino a poco a poco a percepire lo splendore dell’oro e degli altri innumerevoli colori delle tessere che tappezzano la parte superiore della cappella. D’altra parte queste forme espressive sono state concepite per essere ammirate nella semioscurità e non con l’illuminazione elettrica.
L’interno è quadrangolare con un nicchione absidale e due laterali che immettono negli ambienti adiacenti (in quello di destra è conservata la colonna della Flagellazione). La volta a crociera è interamente rivestita di mosaici a fondo oro, come pure la parte superiore delle pareti e i sottarchi dei nicchioni. Agli spigoli sono collocate quattro eleganti colonne di granito, con splendide basi del IX secolo e capitelli dorati, dalle quali sembrano sorgere quattro figure angeliche con le braccia alzate a sostenere il medaglione centrale raffigurante l’immagine del Redentore contro uno sfondo azzurro (foto 7 e 8).
Gli angeli biancovestiti con i capelli biondi e gli occhi azzurri aderiscono alla volta del soffitto, mimetizzando le strutture portanti. Questo motivo degli “angeli telamoni” deriva sicuramente da quello analogo che decora il presbiterio di S. Vitale a Ravenna; il concetto che vuole esprimere è quello dell’Empireo sostenuto dai quattro pilastri angelici che poggiano sulla Terra e vanno oltre la sfera del cielo stellato.
Sulle pareti laterali sono rappresentati a figura intera santi e sante (c’è anche Santa Agnese accanto a Prassede e Pudenziana) su prati fioriti; sulla parete di fronte all’ingresso la Vergine e San Giovanni Battista; sopra l’ingresso il trono gemmato di Cristo, adorno della sua croce, fra gli apostoli Pietro e Paolo (foto 9 e 10).
In un sottarco è raffigurata la discesa di Cristo al Limbo. Nella lunetta del sottarco si vede l’Agnello sul mistico monte della Grazia con i quattro fiumi del Paradiso terrestre nelle cui acque si dissetano quattro cerve, biblicamente simboleggianti le anime. Più in basso troviamo a sinistra il ritratto di Teodora Episcopa, con in testa il nimbo quadrato dei viventi; vicino a lei Santa Prassede, quindi la Vergine e Santa Pudenziana. Nella lunetta di fronte i ritratti dei Santi Zenone e Valentino sono raffigurati ai lati di Cristo (foto 11 e 12).
Sulla parete di fondo della cappella, sopra l’altare, entro una piccola abside, c’è la rappresentazione, anch’essa a mosaico, della Madonna Liberatrice col Bambino. Quest’immagine, che è del XIII secolo, ha preso il posto di una precedente del tempo di Papa Pasquale I, il quale, in seguito a una visione, le aveva riconosciuto il privilegio di far liberare un’anima del Purgatorio per ogni messa celebrata al suo altare (foto 13).
L’altro splendido apparato musivo della basilica decora il complesso absidale (fig 14) e l’arco trionfale della grande navata centrale, che nel presbiterio è tappezzata di marmi, fino a raggiungere il suo culmine nello scintillio dell’oro e dei mille colori delle tessere mosaicali nella parte superiore, ricordato dallo stesso Pasquale nella scritta in latino, inserita nella decorazione del catino, che tradotta suona così:
“Risplende l’aula della pia Prassede decorata da tessere d’oro, Prassede che al Signore è grata più delle stelle, in onore della quale per lo sforzo di Pasquale discepolo sommo pontefice della sede apostolica qua e là raccogliendo innumerevoli corpi santi sotto queste mura pose confidando di conquistare l’accesso al cielo“.
Per ammirare il catino absidale, che da lontano è in parte nascosto dal ciborio (realizzato nel 1730) bisogna avvicinarsi e illuminare con una moneta a tempo la splendida visione di Cristo, che scende dal cielo con il rotolo della nuova Legge nella mano sinistra e la destra sollevata nel gesto allocutorio di derivazione classica. Alla sua destra è raffigurato San Paolo, che presenta al Signore Santa Prassede, sontuosamente vestita e adornata di gemme preziose, e con in mano la corona del martirio. Accanto alla Santa, a sinistra di chi guarda, è raffigurato Pasquale I che offre il modellino della chiesa da lui voluta e ancora più a sinistra una palma che ospita su un ramo la fenice, il mitico uccello simbolo di Resurrezione (foto 15 e 16).
Alla sinistra di Cristo è San Pietro che presenta a Dio Santa Pudenziana, anche lei sontuosamente vestita e ornata come la sorella. Segue un diacono (forse San Zenone) e un’altra palma. I due gruppi si corrispondono simmetricamente e tutta la composizione ricorda quella del mosaico absidale (VI secolo) della basilica dei Santi Cosma e Damiano, sorta sull’antico Foro della Pace (l’ingresso è su via dei Fori Imperiali), ma le figure appaiono più statiche e quasi prive di volumetria, secondo il nuovo stile che punta al concetto di eternità dell’evento e non al naturalismo di impronta romana.
Tutti i personaggi, tranne Cristo, poggiano i piedi sulla superficie terrestre, dove è raffigurato il fiume Giordano. Al di sotto della scena dodici simboliche pecorelle sono disposte (sei per lato) ai lati dell’Agnus Dei. Caratteristica è la raffigurazione del cielo, variegato da vivide nubi policrome intorno a Cristo. Del resto l’apostolo Giovanni ha scritto:
“Ecco, egli viene con le nuvole; ed ogni occhio lo vedrà; lo vedranno anche quelli che lo trafissero, e tutte le tribù della terra faranno cordoglio per lui” (Apocalisse 1, 7).
Nell’arco absidale sono raffigurati i 24 Seniori dell’Apocalisse (12 per lato), tutti uguali nella tipologia, con le vesti bianche (con una fascia di porpora) e le mani coperte dal manto, secondo un’iconografia orientale, che offrono corone di gloria all’Agnello mistico, che sta sul libro dei sette suggelli, in mezzo ai sette candelabri e ai simboli degli Evangelisti (foto 17).
Sull’arco trionfale appare la Gerusalemme celeste dalle auree mura gemmate. Al centro è raffigurato Cristo tra due angeli, la Madonna, Santa Prassede, e San Giovanni Battista, i 12 apostoli suddivisi in due gruppi, e Mosè ed Elia in secondo piano, mentre gli angeli collocati alle due porte della città introducono schiere di eletti guidate nel gruppo di destra da San Pietro e San Paolo. Nel cielo appaiono le solite nuvolette e i piedi poggiano su un giardino paradisiaco. Più in basso, lateralmente, altre schiere di martiri sono quasi completamente cancellate dalla costruzione di due armadi per reliquie voluti dal cardinale San Carlo Borromeo nel 1564. Quest’abbondanza di martiri voleva probabilmente alludere alla traslazione di reliquie operata dal santo pontefice nell’817, proprio all’inizio del suo papato, in occasione della ricostruzione della basilica di Santa Prassede (foto 18 e 19).
È indubbio che la tecnica del mosaico, oggi poco esercitata, era concepita per durare nel tempo, grazie alle tessere in materiale inerte (pietra, marmo, pasta vitrea), e quindi si prestava bene, come aveva intuito Pasquale I, a dispensare le immagini di luce e di sapienza dell’arte sacra, ovvero di quello straordinario patrimonio dello spirito che rende visibile l’invisibile: un tipo di arte che fa rivivere le emozioni di una storia religiosa che si ripete innumerevoli volte, senza esaurirsi nella ripetizione.
Dal punto di vista tecnico, questi mosaici del IX secolo non sono forse raffinati come quelli paleocristiani (pensiamo in particolare al mosaico absidale della basilica di Santa Pudenziana del V secolo e al già citato mosaico dei Santi Cosma e Damiano del VI), ma trasmettono una sublime spiritualità. L’estrema stilizzazione dei fiori e delle nuvole, la simmetria rigorosa dei gruppi, le tessere scabre e disunite che provocano lo scintillio della luce decomposta trasmettono un senso di irrealtà e di trascendenza, ulteriormente evidenziata dall’uso dell’oro in alcuni sfondi. Un oro che non è tanto un segno di ricchezza o di sfarzo, quanto un mezzo per rendere l’idea dell’astrazione, dello scioglimento delle figure dei santi o degli angeli da ogni vincolo temporale e spaziale.
Nica FIORI Roma 24 maggio 2020