Come scriveva Giotto. Dalla Cappella degli Scrovegni la clamorosa scoperta.

redazione

E’ stata Giulia Ammannati, paleografa, ricercatrice alla Normale di Pisa ad individuare nelle quattordici didascalie poetiche che corredano le allegorie dipinte nello zoccolo delle due pareti laterali della Cappella degli Scrovegni quattro mani “che si spartiscono ordinatamente il lavoro”. Ed è la “mano A” che apparterrebbe a Giotto.

Intitolata a Santa Maria della Carità, la cappella com’è a tutti noto venne realizzata da Giotto tra il 1303 e il 1305 su incarico del ricchissimo banchiere padovano Enrico degli Scrovegni, il quale voleva in questo modo riscattare una vita di prepotenze e strozzinaggio, anche se recenti ritrovamenti documentari attestano altresì la volontà di far risaltare, attraverso un capolavoro memorabile commissionato all’artista già allora all’apice della fama, la forza ed il prestigio del suo casato.

Anche in forza di ciò è da credere che Giotto fu il progettista della struttura architettonica pensata certamente allo scopo di evidenziare nel modo migliore possibile le storie che avrebbe affrescato insieme alla sua equipe, e che infatti insistono un’unica navata con copertuta a botte dove appare un eccezionale cielo azzurro stellato.
Vi sono rappresentate le Storie di San Gioacchino e Anna, le Storie della Vergine e le Storie di Gesù. Ci sono poi altri motivi decorativi come i Coretti e le Allegorie di Vizi e Virtù, ed appare ovvio che, come giustamente nota la Ammannati :”La distribuzione del lavoro riflette una chiara gerarchia fra gli scriventi” ; in particolare nelle quattordici didascalie poetiche che corredano le allegorie dipinte da Giotto, secondo la studiosa vi è una mano che “spicca di gran lunga su tutte per armonia, abilità e padronanza esecutiva”, con un ruolo guida evidente e con interventi in situazioni di particolare impegno prospettico.

E’ proprio qui che la Ammannati ha riconosciuto  tratti assai prossimi a quelli che compaiono in altre opere attribuite a Giotto. Si tratta precisamente della ‘mano A’ che deve aver eseguito i testi più importanti (“le prime quattro virtù: Spes, Karitas, Fides e Iustitia”).

“Abbiamo sufficienti e sicuri elementi per immaginare che questa sia la mano dello stesso Giotto. L’elevata qualità formale ed estetica, il suo ricorrere nelle tappe cruciali della carriera giottesca per oltre due decenni, le modalità d’intervento sono tutti dati perfettamente compatibili con la mano di Giotto più che con quella di qualsivoglia collaboratore o allievo”.

Come confronto si è notato che scritte di questa mano (‘mano A’) si ritrovano naturalmente anche ad Assisi, nella Cappella della Maddalena nella Basilica Inferiore, nella Cappella Peruzzi di Santa Croce a Firenze o nel Polittico Stefaneschi eseguito intorno al 1320 per l’altar maggiore della Basilica di San Pietro in Vaticano.

Ma ad avvalorare la scoperta di un Giotto calligrafo sono anche la competenza e la preparazione, oltre che la bravura, della studiosa, già nota per aver individuato la data ‘vera’ dell’eruzione del Vesuvio rinvenuta in una iscrizione a carboncino recante la data XVI ante Kalendas Novembres, “si trovava nell’atrio di una casa in ristrutturazione forse proprio prima dell’eruzione” e per aver dato il nome all’autore della Torre di Pisa, vale a dire lo scultore e architetto Bonanno Pisano, che appariva  in una pietra usata per la fusione delle lastre di bronzo, finita murata nella parete vicino all’ingresso del Campanile pendente, forse perchè, come nota non senza sarcasmo la Ammannati “la cattiva stella sotto cui nacque il campanile non dovette incoraggiare l’architetto a legare il suo nome a quel palese fallimento”.

Non poteva certo sapere che proprio quel fallimento avrebbe reso il Campanile uno dei monumenti più celebri al mondo

P d L Roma 14 giugno 2020