di Nica FIORI
Tra le feste popolari di un passato neanche troppo lontano, quella di San Giovanni è stata sicuramente una delle più sentite.
Ancora adesso sopravvive qualche tradizione, ma è solo un pallido riflesso della magica atmosfera di un tempo. Per capire il significato di questa ricorrenza cristiana bisogna tener presente che si è sovrapposta a una festa pagana, quella del solstizio d’estate, che una volta cadeva il 24 giugno. Nella stessa data la Chiesa ha voluto festeggiare il giorno della nascita di San Giovanni Battista, il Precursore di Cristo. E già questo è un fatto strano, perché tutti gli altri santi vengono festeggiati nel giorno della morte, il cosiddetto dies natalis, in quanto si nasce alla vita eterna (Fig. 1).
Il solstizio presenta un simbolismo naturale estremamente chiaro. In questo giorno il sole raggiunge il suo punto più alto. Vi si può vedere quindi il trionfo del Cristo-Sole. Ma subito dopo l’astro comincia a calare, simboleggiando così il Battista che, riferendosi al Cristo, aveva pronunciato le seguenti parole: “Egli deve crescere e io invece diminuire” (Vangelo di Giovanni, 3, 29-30) (Fig.2).
Secondo una credenza popolare ancora diffusa in alcuni paesi dell’Abruzzo, le giovani che all’alba del 24 giugno si volgono verso oriente possono vedere sul disco solare la testa decapitata del Battista: la prima a vederlo si sposerà entro l’anno. Gabriele d’Annunzio riferisce quest’usanza nella Figlia di Jorio, quando fa dire a Ornella:
“E domani è San Giovanni, fratel caro … Su la Plaia me ne vo’ gire, per vedere il capo mozzo dentro il sole, all’apparire …“.
In Sardegna si dice invece che il sole saltelli tre volte come la testa del santo dopo la decollazione. Queste leggende sembrano alludere al fatto che dopo il solstizio il sole decresce: è quindi un sole colpito a morte. E nel folclore si parla di “San Giovanni che piange”, che viene contrapposto a “San Giovanni che ride”, ovvero la festa di San Giovanni Evangelista che cade il 27 dicembre, non lontano dal solstizio d’inverno. Nella tradizione greca antica i due solstizi venivano visti come due porte simboliche, una degli uomini (solstizio estivo) e l’altra degli dei (solstizio invernale), che servivano da comunicazione con il cielo.
Nella tradizione romana il custode delle porte era Giano, il dio bifronte. L’etimologia del suo nome deriva dalla radice indoeuropea y-a, passaggio, da cui il latino ianua, porta. Egli tiene nella mano destra un bastone, simbolo di regalità, e nella sinistra una chiave, emblema sacerdotale. In questo suo duplice aspetto egli è il signore dell’eternità, il custode dell’universo. Sembrerebbe proprio che i due Giovanni, probabilmente per l’assonanza del nome, si siano sovrapposti al dio Giano, che era festeggiato a Roma ai due solstizi.
La festa di San Giovanni è preceduta da una notte di sortilegi e incanti, nella quale il sogno si confonde con la realtà, come è stato magistralmente descritto da Shakespeare nel suo “Sogno d’una notte di mezza estate“. Nell’immaginario popolare le acque e le erbe acquistano poteri soprannaturali e gli animali parlano nelle stalle. Può accadere anche che tesori nascosti rivelino la loro presenza e città sommerse divengano visibili. In tutta l’Europa, poi, si narra di schiere di streghe e demoni che si recano in volo al loro convegno annuale (Fig. 3 e 4).
Nella Roma pagana il solstizio era ritenuto un momento critico dell’anno, che segnava il capodanno estivo. Si celebrava Fors Fortuna, la dea della casualità, con una festa orgiastica che aveva delle somiglianze con i Saturnali di fine anno, quando cadevano tutti i divieti sociali in una sorta di annullamento delle regole. Ci si augurava la buona sorte, l’abbondanza, l’inizio dell’amore e si purificava la campagna con il fuoco e l’acqua (Fig. 5).
Quando la festa è stata cristianizzata i fuochi solstiziali che si accendevano alla vigilia della festa estiva sono diventati i “fuochi di San Giovanni”, l’acqua purificatrice è diventata la “rugiada di San Giovanni” e le antiche “striges” (le mitiche creature notturne metamorfizzate che succhiano il sangue dei bambini) si sono trasformate nelle “streghe di San Giovanni”.
Il corteo selvaggio di queste è guidato da Erodiade, la crudele compagna di Erode Antipa che ottenne la testa del Battista, facendo danzare la figlia Salomè. Pentita poi della sua azione, Erodiade avrebbe baciato la testa del santo, ma dalla bocca di lui sarebbe uscito un vento che avrebbe costretto la peccatrice a vagare eternamente nell’aria.
A Roma si racconta che nella notte del 23 giugno due donne in catene si aggirino volando nei pressi della basilica di San Giovanni. “Madre, madre, perché chiedesti?”, chiede una e l’altra risponde: “Figlia, figlia, perché facesti?”. Si tratta ovviamente di Salomè ed Erodiade che si rimproverano a vicenda la responsabilità della morte del Battista (Fig. 6 e 7).
Comunque il nome di Erodiade deve essersi sovrapposto a quello di Diana, la dea lunare terrestre (Selene era invece la dea lunare celeste ed Ecate quella sotterranea) adorata dalle streghe, prima di venire sostituita dal diavolo. E quindi prima che maturasse l’immagine mitica del sabba, col quale ha inizio il fenomeno stregonico di età moderna. Diana non aveva in origine una connotazione malvagia, anzi insegnava alle sue seguaci a guarire le malattie con le erbe e ad acquisire poteri magici positivi. Ma poi tutto si è ingarbugliato e le sue seguaci, che inizialmente combattevano demoni e spettri notturni, sono diventate maligne (Fig. 8).
Le precauzioni da prendere nella notte solstiziale per sfuggire agli influssi negativi delle streghe sono varie, dalla testa d’aglio portata addosso, alle spighe, ai campanacci, come ricorda il Belli in un sonetto romanesco. L’aglio viene anche mangiato insieme al grano abbrustolito – e in alternativa nella bruschetta – perché è ritenuto da sempre un antidoto contro la stregoneria. Ma a Roma, come del resto in altre località, si mangiano anche le lumache, perché anticamente ritenute “custodi della pioggia” e quindi, essendo associate simbolicamente all’acqua e alla luna, fonte di rigenerazione fisica e spirituale.
Il noce di Benevento
Quando si parla di streghe, il nostro pensiero corre subito a Benevento, la città campana che, pur avendo un cospicuo patrimonio storico-artistico e archeologico, è forse più nota per il noce leggendario presso il quale si recavano in volo le streghe nella notte di San Giovanni (Fig. 9).
Anche se il frutto del noce è simbolo di abbondanza, l’albero è considerato da sempre una pianta malefica; ancora adesso nelle campagne si dice che attiri il fulmine, che la sua ombra faccia male, che sostare a lungo sotto i suoi rami produca avvelenamento. Quello di Benevento non era un noce comune, dal momento che, almeno secondo alcune testimonianze, era sempreverde. Un poemetto ottocentesco lo descrive così:
“Una gran noce di grandezza immensa / germogliava d’estate e pur d’inverno; / sotto di questa si tenea gran mensa / da streghe, stregoni e diavoli d’inferno”.
Sorgeva presso la “ripa delle janare”, lungo il fiume Sabato, dove le streghe (janare) si bagnavano. Forse l’acqua era un elemento necessario per i loro riti, che prevedevano danze e congiungimenti carnali con uomini, grazie ai quali rimanevano gravide anche se prima erano sterili (Fig. 10).
Nel VII secolo l’albero fu fatto sradicare da San Barbato, quando era vescovo della città, per troncare le pratiche pagane che vi si celebravano. Come riferisce l’anonimo autore della Vita Barbati:
“non lontano dalle mura di Benevento in una specie di ricorrenza adoravano un albero sacro al quale appendevano una pelle di animale; tutti coloro che lì si erano riuniti, voltando le spalle all’albero, spronavano a sangue i cavalli e si lanciavano in una cavalcata sfrenata cercando di superarsi a vicenda. Ma durante questa corsa, girando i cavalli all’indietro, cercavano di afferrare la pelle con le mani e, raggiuntala, ne staccavano un pezzetto mangiandolo secondo un empio rito. E poiché ivi scioglievano voti insensati, da questo fatto a quel luogo dettero il nome di Voto, in uso ancora oggi”.
All’epoca l’imperatore bizantino Costante II decise di riconquistare le terre che erano sotto il dominio dei Longobardi e, sbarcato a Taranto, avanzò verso Benevento. I Longobardi della città campana, temendo una sconfitta, avevano già deciso di aprire le porte all’esercito nemico, quando Barbato promise loro che i Bizantini si sarebbero diretti altrove, se loro avessero abbandonato le pratiche pagane. Fatto sta che i bizantini, limitandosi a prendere in ostaggio la sorella di Romualdo (il capo della sparuta guarnigione di Benevento), si diressero verso Napoli. Allora il comandante, per mantenere la promessa fatta a Barbato, “prese la scure, si recò a Voto e con le sue mani dissotterrò e tagliò alle radici l’albero nefando presso il quale da tanto tempo i Longobardi adempivano al loro funesto sacrilegio” (Fig.11).
Alla morte del santo vescovo, però, un altro noce rispuntò nello stesso luogo, dove ripresero i convegni stregoneschi finché, nel XVII secolo, anche quell’albero morì. Ma la leggenda non cessò per questo e, ancora nel XIX secolo, le donne accusate di stregoneria confessavano sotto tortura di recarsi al sabba presso il noce di Benevento.
Sappiamo bene che tradizioni simili sono diffuse un po’ dappertutto in Europa, ma, allora, perché proprio questa città, più di altre, è ricordata come luogo di raduno di streghe? In realtà nessuna donna beneventana è mai finita sul rogo, eppure la città venne definita dall’imperatore Federico II, in quanto covo di streghe, “la pietra dello scandalo del nostro regno”.
Benevento era allora un possedimento papale in mezzo al regno svevo e accoglieva alcuni eretici patarini. Federico, che mal sopportava tutto questo, la rase al suolo nel 1241, accusando il papa Gregorio IX di essere in combutta con il diavolo. Secondo un’ipotesi, risale proprio a quel particolare momento storico la leggenda delle streghe di Benevento, montata ad hoc dalla corte imperiale per giustificare l’attacco alla città. È interessante notare che il termine “sabba”, ovvero la riunione delle streghe, è assai vicino a quello del fiume Sabato di Benevento e forse proprio questa assonanza linguistica potrebbe aver favorito la fama del noce di Benevento rispetto a quelli di altre località.
Ci sono stati, però, altri elementi che hanno contribuito al diffondersi della credenza. Primo fra tutti il culto di una divinità femminile, già attestato in età sannitica, che aveva tra le sue cerimonie la danza magica intorno a un albero sacro. Questa divinità era in origine Mefite, il cui santuario sorgeva in un ambiente saturo di zolfo, poi Diana-Ecate, e infine, in epoca imperiale, Iside, la divinità importata dall’Egitto che era insieme sposa, madre, vedova e maga. Il tempio della dea era dedicato a Iside Pelagia, protettrice della navigazione. Un grande frammento marmoreo conservato nel Museo del Sannio riproduce una nave con un piede femminile. È evidentemente ciò che resta della statua della dea che sormontava l’imbarcazione. Un’altra immagine locale la mostra seduta in trono, con il figlio Horus in braccio; un’altra ancora in marmo pavonazzetto la raffigura in piedi, ma è acefala (Fig. 12).
La scoperta di materiale egizio a Benevento è avvenuta in più riprese tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Un’intera sala del museo è dedicata a questi reperti, ma anche in città si possono ammirare un obelisco del I secolo d.C. in piazza Papiniano e una statua del toro Api in viale San Lorenzo.
È stato detto che Iside, in quanto dea delle arti magiche, può essere considerata “la prima strega di Benevento”. Una definizione che sembra apparentemente in contraddizione con il fatto che il suo culto potrebbe essere stato assimilato a quello locale della Madonna delle Grazie. In realtà, prima del culto di Iside era diffuso il culto di Diana, il cui nome ha dato origine al termine locale di “janara”. Diana era equiparata a Ecate durante la fase di luna calante e in quel suo aspetto infernale era invocata da maghi e streghe. Ecate era, in effetti, la dea dell’oscurità, della morte, dei fantasmi e del terrore, e allo stesso tempo favoriva la prosperità materiale e proteggeva le strade e i crocicchi. Per questo motivo veniva anche chiamata Trivia ed era rappresentata con tre teste: ”Vedi che con tre facce Ecate guarda tre vie, che poi riescono tutte in una”, scrive Ovidio nei “Fasti” (1, 141). Le teste erano talvolta di animali: una di cavallo, una di cane e una di cinghiale o leone (Fig. 13 e 14).
Una sua caratteristica era quella di calzare un unico, pesante sandalo di bronzo che risuonava cupamente nella notte. A Benevento, nel quartiere chiamato Triggio, e più esattamente nei pressi del Teatro romano, appare talvolta la Zucculara.
Paola Caruso nel suo libro “Santi spiriti streghe ed altre figure della storia e del folclore beneventano” specifica che
“alcuni dicono che si tratti di una donna che calza rumorosi zoccoli; altri dicono che è una donna che batte con uno zoccolo contro le inferriate del teatro; infine si dice pure che si tratti di una donna che cavalca un cavallo, dai cui zoccoli prenderebbe il nome”.
Questo fantasma femminile, del quale a volte si avverte soltanto il passo rumoroso, incute terrore e il suo nome è usato dalle madri per scoraggiare i bambini che vogliono rimanere per strada quando è buio. Secondo la Caruso, la “Zucculara” non è altro che “una versione popolare e moderna dell’antica dea Ecate”. In effetti, presenta alcune affinità con la dea, come la rumorosa calzatura, l’aspetto spaventoso, e il luogo in cui appare. Il nome del quartiere Triggio (dal latino “trivium”) è dovuto evidentemente al ricordo di un antico incrocio di tre strade. Tutto ciò potrebbe giustificare la presenza di streghe a Benevento già in età antica, quando non erano ancora adoratrici del “Diavolo”, bensì di Diana-Ecate.
Come spiega Selene Ballerini nel suo libro “Il corpo della dea”, prima dell’irrompere degli elementi satanici nella stregoneria, quando le streghe-maghe diventano quelle “presunte megere che continuano a popolare il nostro immaginario collettivo”, dovevano esserci
“società segrete di donne, le quali si raccoglievano intorno a una figura femminile, indicata come Diana o Signora del Buon Gioco, per apprenderne i segreti della magia. Accolsero con il tempo al centro dei loro riti anche un “sacerdote” che, presentatosi inizialmente come una sorta di Dio cornuto paredro di Diana, assunse poco a poco le sembianze del Diavolo, detronizzando la Dama del gruppo”.
Il noce di Roma
A Roma, soprattutto durante il Medioevo, il cristianesimo cercò di appropriarsi dei resti della grandezza imperiale, adeguandoli alle proprie esigenze, ma, quando ciò non era possibile, li additava come luoghi diabolici, animati da misteriose presenze.
Nella fantasia popolare l’imperatore Nerone era ritenuto la personificazione stessa del Male, in quanto si era macchiato di atroci delitti, come il matricidio, e delle prima persecuzione contro i cristiani (Fig. 15).
Non può stupirci, quindi, il fatto che il sito della sua sepoltura sulla collina Pinciana (presso l’attuale piazza del Popolo) divenisse ben presto ritrovo notturno di demoni, maghi e streghe, che si riunivano intorno a un noce che superava di molto gli altri alberi dinanzi alla Porta Flaminia.
I demoni che custodivano il corpo di Nerone spaventavano oltre ogni dire gli abitanti dei dintorni e chiunque transitasse di notte per la porta. Si dovette arrivare all’elezione di papa Pasquale II, nel 1099, perché a tale situazione, che tanto turbava la popolazione, si ponesse rimedio. Il pontefice ordinò preghiere e digiuno a tutto il Popolo Romano e alla terza notte gli apparve la Vergine Maria in sogno, che gli disse di andare presso Porta Flaminia e di tagliare e sradicare il noce più alto e di costruire al suo posto una chiesa in suo onore.
Dopo una solenne processione l’albero maledetto, che intanto aveva raggiunto l’altezza di 15 metri, fu tagliato e le presunte ceneri di Nerone, che erano interrate in un’urna proprio sotto il noce, furono disperse nel Tevere, e sul luogo fu costruita una cappella a spese del Popolo Romano, chiamata per questo motivo Santa Maria del Popolo. La cappella fu poi trasformata in chiesa e più volte modificata, ma una lapide del tempo di Urbano VIII ricorda il luogo dell’altare originario, posto nel sacello dietro l’altare barocco, a circa sette metri sul limitare del coro ligneo. Nell’iscrizione, redatta in latino, si fa preciso riferimento all’abbattimento del noce frequentato dai demoni, per ispirazione divina (divino afflatu). E la Visione di Pasquale II è raffigurata in stucco dorato sull’arcone che immette nel vano del coro, al centro di altri due riquadri raffiguranti il taglio del noce e lo scavo delle ossa di Nerone. Questi stucchi sono stati fatti realizzare dal card. Antonio Sauli nel 1627, in occasione della traslazione della sacra icona della Madonna del Popolo dall’ancona di Andrea Bregno sul nuovo altare maggiore della chiesa (Fig. 16 e 17).
Il fatto che la fondazione di questa chiesa risalga proprio al 1099 può essere spiegato, secondo Cesare D’Onofrio (in Roma val bene un’abiura), con un avvenimento importantissimo per la cristianità, verificatosi il 15 luglio di quell’anno, e cioè la presa di Gerusalemme a conclusione della prima crociata. Allora, così come il Santo Sepolcro veniva liberato dalle forze infernali dell’Islam, anche la tomba di Nerone veniva a essere liberata dai demoni e cristianizzata con la sacra presenza della Madonna (Fig. 18).
Nica FIORI Roma 21 giugno 2020