di Cristano GIOMETTI & Loredana LORIZZO
*Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo di Cristiano Giometti e Loredana Lorizzo sul Busto di Natale Rondinini, che segue il saggio con cui Francesco Petrucci ne attribuiva la paternità a Giuliano Finellli. I due studiosi confermano invece il loro punto di vista circa la paternità berniniana. Mentre ribadiamo che scopo primario di About Art è proprio quello di favorire la dialettica tra studiosi purchè nel rispetto delle reciproche convinzioni (come del resto è fin qui stato e come nel nostro caso è), dobbiamo chiarire che il titolo, richiamato anche da Giometti e Lorizzo, non è di Francesco Petrucci (che aveva intitolato Il Busto di Natale Rondinini del Bode-Museum di Berlino: né Algardi o Bernini, ma Giuliano Finelli) ma redazionale.
Ancora sul busto di Natale Rondinini di Berlino
La pubblicazione dell’intervento di Francesco Petrucci dal titolo perentorio Né Bernini né Algardi, fine di un equivoco. È di Giuliano Finelli il “Busto di Natale Rondinini” del Bode-Museum di Berlino (Cfr. https://www.aboutartonline.com/ne-bernini-ne-algardi-e-di-giuliano-fanelli-il-busto-di-natale-rondinini-del-bode-museum-di-berlino/) ci offre l’opportunità per tornare sulla questione dello straordinario busto ritratto sul quale ci siamo già espressi nel nostro volume I Rondinini le arti e l’Europa, Milano 2019, in cui abbiamo per la prima volta dato un nome all’effigiato identificandolo con Natale Rondinini seniore, capostipite della famiglia che tra Sei e Ottocento ha segnato significativamente la storia del collezionismo di Roma. È il caso quindi di manifestare la nostra perplessità sulle argomentazioni attributive avanzate dallo studioso che, a dire il vero, si limita a riproporre senza addurre veri elementi di novità, una proposta avanzata da Damian Dombrowski nel 1997[1].
Vorremmo quindi chiarire meglio le nostre riserve sull’autografia finelliana del busto Rondinini proposta da Petrucci, poiché la storia dell’opera ha costituito per lungo tempo un enigma per gli studiosi e conoscitori di scultura seicentesca: all’indiscussa qualità eccelsa dell’esecuzione non era corrisposta finora una identificazione certa dell’effigiato né dell’autore, il cui nome era oscillato tra quello di Alessandro Algardi, ipotesi fin qui più accreditata dalla critica sulla scorta dell’autorità di Jennifer Montagu che pure ha avanzato perplessità al riguardo, e quello di Giuliano Finelli, invero sostenuto dal solo Dombrowski.
La nostra proposta di attribuirlo a Gian Lorenzo Bernini si basa su una serie di considerazioni che travalicano l’uso esclusivo della connoisseurship, partendo da un’accurata ricostruzione storica del contesto basata su solidi elementi documentari, e scaturita dall’individuazione dell’effigiato, fin qui associato al nome del cardinale Laudivio Zacchia, per essere entrato a far parte delle collezioni del Kaiser-Friedrich-Museum con un piedistallo – non pertinente – in cui si leggeva “Lavdivivs Card. Zacchia anno MDCXXVI”.
Possiamo dunque oggi affermare che la storia del busto si lega indissolubilmente a quella del ritrattato, Natale Rondinini seniore, il quale muore a Roma nel 1627, e a quella di suo figlio Alessandro seniore, promotore di una delle imprese pubbliche più importanti per eternare la memoria della famiglia Rondinini: costruire una cappella in Santa Maria sopra Minerva affidandola a Gian Lorenzo Bernini, il più importante artista dell’epoca. L’abboccamento da entrambe le parti è ben documentato da un contratto datato 1634 e conservato in Archivio di Stato di Roma, reso noto da Bruno Contardi[2]. Tale elemento, che collega la realizzazione del busto del capostipite con la cappella di famiglia, nella ricostruzione di Petrucci sembra passare in secondo piano per far posto alla proposta di assegnarlo alla mano di Giuliano Finelli che, lo ricordiamo, nei primi anni trenta del Seicento aveva già abbandonato la bottega di Gian Lorenzo Bernini a causa dei noti dissapori tra i due, per approdare definitivamente a Napoli nel 1634.
La mancata lavorazione del marmo nella parte posteriore contribuisce, a nostro avviso, a confermare il legame tra il busto e l’erigenda cappella, ipotizzandone la collocazione entro una nicchia o un ovale, soluzione viceversa assai desueta all’interno di un palazzo nobiliare ove, solitamente, tali effigi venivano esposte su colonne o sgabelloni. Se, come ipotizziamo, il busto di Natale era destinato al pantheon di famiglia in Santa Maria sopra Minerva ci risulta davvero difficile pensare che Bernini avrebbe accettato di progettarvi un sacello per ospitare un ritratto eseguito dal suo inviso ex collaboratore.
Per Petrucci il temperamento di Finelli si tradurrebbe nell’impatto fortemente realistico del busto, in un iperrealismo che va ben oltre Bernini così come la diversa concezione del ritratto, non più istantanea berniniana, ma posa di ferma. Tra le caratteristiche più distintive della ritrattistica finelliana, a nostro avviso, si impone con forza quella tendenza all’ornato ottenuto da un uso sapiente, seppur dilagante, del trapano che insiste in più parti dei suoi autografi ottenendo risultati di sicuro fascino, ben distanti tuttavia dal busto di Berlino.
Nella ricerca del virtuosismo tecnico, Finelli, a dire il vero, fa passare in secondo piano la solidità corporea dell’effigiato, al quale spesso abbrevia l’ampiezza delle spalle, per far posto alla cappa foderata di pelliccia come nel busto di Francesco Bracciolini (Londra, Victoria and Albert Museum) o in quello del canonico Girolamo Manili (Roma, Santa Maria Maggiore); in entrambi i casi il trattamento del manto appare condotto dopo una sbozzatura del marmo che conferisce un carattere vigoroso e ispido al pelo dell’animale, seguendo la scheggiatura della pietra. Di contro nel Natale Rondinini l’effetto ricercato è quello della morbidezza, che a sua volta si associa con la solidità anatomica dell’anziano personaggio, definendone il forte carattere spettante solo ai capostipiti di una famiglia.
La forza espressiva e la presenza viva del Natale Rondini, tutt’altro che fermo, sono caratteristiche che già Jennifer Montagu aveva messo in evidenza; osservando una tale vitalità sotto la pelle del marmo di Berlino, la studiosa aveva dunque escluso l’autografia in favore di Algardi o Finelli[3]. L’intervento di Montagu si pone a due anni di distanza dalla proposta di Dombrowski; non è dunque corretto affermare che l’ipotesi attributiva dello studioso tedesco non sia stata presa in considerazione dalla critica, data la presa di posizione dirimente della studiosa britannica, poi seguita anche da altri autori.
Abbiamo già spiegato tutte le motivazioni che ci hanno condotto a formulare l’attribuzione berniniana e invitiamo i lettori a leggere il paragrafo dedicato all’argomento nel nostro volume per colmare le lacune di cui inevitabilmente la sintesi di Petrucci e le nostre presenti considerazioni risentono[4]. Un dato certo nella vicenda finora esiste, ovvero la completa assenza dalle carte d’archivio di un rapporto tra i Rondinini e Giuliano Finelli, mentre acclarati restano i legami con Bernini e con Algardi ed altri importanti scultori quali François Du Quesnoy e Domenico Guidi.
Prendendo in prestito una riflessione critica di una storica dell’arte di grande acume ed esperienza come Gigetta Dalli Regoli, si può affermare che la proposta di Petrucci in favore di Finelli contenga elementi di sicuro interesse
“ma come altri mutamenti di nome e di data avanzati da brillanti conoscitori dovrà reggere al trascorrere del tempo: in passato numerose sono state le conferme, le correzioni e gli aggiustamenti apportati alle variazioni, senza peraltro dimenticare che qualche isolato sovvertimento di opinione, pur da fonte accreditata, non ha avuto seguito”.
Cristiano Giometti – Loredana LORIZZO Roma 5 luglio 2020
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