di Donatella BIAGI MAINO
Spero che in molti si preparino per un periodo di riposo. Di conseguenza, voglio segnalare, a chi li avesse persi due libri a mio parere molto importanti che concedono riflessioni di non poco momento in un periodo, questo, in cui si discute, al di là dell’emergenza pandemica che ci ha costretto ad una didattica a distanza e a essere lontani dalle opere d’arte, sull’uso dello strumento informatico e sull’opportunità di ripensare i metodi di insegnamento. La didattica a distanza deve essere solo per l’emergenza; le opere d’arte abbisognano di una conoscenza diretta. Può parere una ovvietà, per molti di noi lo è, ma forse non è tale per tutti. I due testi che qui si commentano hanno tutte le risposte all’inquietante ipotesi, da più parte formulata. (Donatella Biagi Maino, Università di Bologna)
Da Francesco Arcangeli a Maurizio De Luca, per un nuovo umanesimo
Francesco Arcangeli, Corpo, azione, sentimento, fantasia. Lezioni 1967-1970, a cura di V. Pietrantonio, Tracce 3*, 2 voll., il Mulino, Bologna 2015, pp. 336 (vol. 1), pp. 270 (vol. 2), ill. b/n.
Maurizio De Luca, Verità nascoste sui muri dei Maestri. Michelangelo, Raffaello, Perugino, Pintoricchio e gli altri in Vaticano, Editoriale Artemide, Roma 2016, pp.168, numerose ill. c/l.
A breve distanza di tempo, tra la fine del 2015 il maggio del successivo, sono stati editi due libri che nulla, apparentemente, hanno in comune, trattando argomenti diversi, essendo frutto dell’esperienza di vita e di cultura di due autori che hanno condotto mestieri differenti anche se complementari; che hanno operato in tempi tra loro lontani, avviando la sua carriera l’uno nel medesimo anno, il 1967, in cui il primo rendeva invece ragione di un lungo e meditato percorso di ricerca, indagine sull’arte e su sé stesso, ciò che per il secondo appunto a quella data prendeva inizio.
Eppure, se ho scelto di presentarli brevemente insieme è perché a mio parere in entrambi, oltre la sapienza della discussione e dei raggiungimenti dibattuti, emerge chiarissima in ambedue gli autori la capacità, la volontà quasi di sottoporsi a giudizio, mettersi in gioco dinanzi a chi li leggerà nella concretezza di un vissuto fatto di onestà, coerenza, impegno e che vuole al centro dell’opera, della ricerca, del mestiere l’applicazione costante di una individualità che nulla concede a più facili percorsi di soluzione.
Mi riferisco, dunque, alla pubblicazione, curata nel centenario della nascita del grande critico e scrittore da una agguerrita studiosa bolognese, Vanessa Pietrantonio, delle dispense delle lezioni che Francesco Arcangeli tenne all’Università di Bologna tra il 1967 e il 1970, e al volume, splendidamente illustrato, che Maurizio De Luca ha steso quasi a compendio del più di un quarantennio di lavoro presso il Laboratorio di Restauro dei Musei Vaticani, che avviò in quello stesso 1967 come apprendista per concluderlo in questo secolo come responsabile di alcuni tra i cantieri di restauro più importanti, possiamo dirlo, del mondo.
Quasi teoria e prassi della conoscenza per la conservazione, lo studio appassionato e approfondito della cultura e della sua espressione di una sequenza di artisti individuati in ragione di un fil rouge che li contraddistingue nel pensiero di Arcangeli e l’attenzione alla materialità dell’opera d’arte, nello specifico alcuni degli affreschi vaticani, nello scritto, caratterizzato da understatement tale da rendere agevole la lettura anche ai meno esperti, del De Luca: ma sono le due facce della stessa medaglia, il modo unico possibile per avvicinarsi alle arti visive. Bisogna conoscere per conservare, e la lettura dell’opera d’arte trascorre attraverso la consapevolezza della materia che la compone, il suo stato, gli espedienti messi in opera dal suo autore per ottenere un determinato risultato; la cultura di questi e del suo tempo, la formazione, la poetica e ciò che l’artista ha voluto tramandare si esplicitano attraverso il pensiero che si trasforma in immagine attraverso la materia, cui è nostro compito assicurare la più lunga durata nel tempo.
L’arte è coscienza, è sapere, conoscenza, è comunione attraverso i secoli di spiriti diversi che possono comunque dialogare tramite testimonianze che vanno preservate nella loro integrità, possibile con la comprensione del messaggio che l’autore affidò al suo creato e che lo storico deve portare alla luce e il restauratore salvare, proteggere, secondo il crisma di una sapienza consapevole del significato per la civiltà; secondo un’etica che non deve mai cedere a lusinghe di poteri politici o economici, nel pieno rispetto di sé stessi, dell’altro, del futuro.
Queste parole suonano retoriche e ridondanti, forse, ma viviamo tempi in cui si assiste al progressivo sperpero di una eredità cospicua dal passato che viene dilapidata o compromessa non solo nei casi, i più drammaticamente eclatanti, delle distruzioni compiute per annullare con la memoria del passato la coscienza di un popolo, stupri culturali che fanno parte di una strategia guerresca e di dominio così come tattici sono gli assalti a monumenti e siti e musei dei nuovi terroristi, ma anche allo scempio di valori culturali universali che una politica occhiuta perpetua riducendone il segno e l’importanza ai soli esiti economici, all’immediato riscontro in valore monetario: ciò che significa svilire il portato di un immenso lascito spirituale.
Il mercimonio dei beni culturali, così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi decenni, la significativa riduzione dell’importanza dello studio e la ricerca dei percorsi storici vanno combattuti con fermezza a partire dalle Università, disciplinate nella loro importanza dalle recenti riforme che hanno diminuito il significato e la dolcezza della trasmissione del sapere sino a farne contingenze numericamente quantificabili.
Il corretto studio della storia, nel nostro caso dell’arte e della materialità di questa, deve tornare ad essere fondamento dell’operatività che vediamo con sgomento sempre più affidata a strumenti scientifici talvolta senza corretto approccio critico e senza riflettere su quanto indispensabile, prioritario sia il portato del sapere e della passione di chi a quell’opera, umilmente, si accosta. Spaventa l’autorità che viene data all’indagine scientifica in campo conservativo, il dominio di ciò che non più scienza ma scientismo rischia di diventare, per l’impari attenzione che, anche nei corsi formativi persino universitari dei restauratori, è riservata alle materie umanistiche.
Merita di essere ben ponderato quanto scrive Claudio Strinati nella Presentazione al testo sugli affreschi vaticani, per la certezza che condividiamo che per comprendere l’arte figurativa “la cognizione della tecnica e del restauro non è un orpello. E’ indispensabile”, che De Luca
“nel campo del restauro… è stato molto più vicino a direttori di lavori in ambito vaticano come Cesare Nebbia e Giovanni Guerra alla fine del Cinquecento che all’organizzazione attuale del cantiere, sempre più basato sul ‘politically correct’”,
ciò che può essere
“un sommo bene per l’arte e la scienza del restauro, nonché della storia dell’arte in generale… ma il racconto di De Luca ha un formidabile valore aggiunto che è quello di un capocantiere che opera sugli amati maestri del passato da collega a collega, nulla di più e nulla di meno” (1),
in ragione del giusto e non facile atteggiamento intellettuale e mentale che riconosciamo nell’opera dei maggiori storici d’arte e restauratori.
In sintesi: nel suo libro Maurizio De Luca ripercorre i tempi e i modi della decorazione quattrocentesca della Cappella Sistina, il cui restauro ha diretto dal 2000 al 2005 in qualità di Capo Restauratore, offrendo informazioni più che suggestive sull’andamento di un cantiere così complesso che vide all’opera Perugino, Botticelli, Ghirlandaio, Cosimo Rosselli e le loro botteghe.
Fu Sisto IV a volere la realizzazione alle pareti della grande stanza, già denominata Cappella Magna e che poi prese il nome dal committente primo, di queste “gigantesche pagine miniate” (2) nelle quali si trovano riassunte tutte le possibilità tecniche e immaginative offerte dalla pittura murale, una sequenza di immagini significative della vita di Mosè che trasse in salvo la stirpe ebrea dalla schiavitù egiziana, e del Salvatore, che ha liberato il suo popolo dalla oppressione del peccato; un cantiere straordinario per dimensioni, necessità organizzative, tempi di esecuzione, per le materie prime usate ma soprattutto per la contemporanea partecipazione all’impresa dei maggiori maestri delle scuole umbra e toscana.
La metodologia operativa di costoro è stata indagata nella pratica restaurativa ed è a noi spiegata dal De Luca che in questa sede abbandona il lessico degli addetti ai lavori che è proprio del suo percorso di studioso per rivolgersi al pubblico più ampio, in virtù della capacità rara di illustrare pratiche complesse in termini di accattivante chiarezza. Alcune questioni quali quella dell’identità tra i grandi maestri coinvolti dell’artista che assunse il ruolo di coordinatore delle diverse botteghe, già dubitativamente indicato in Perugino, è risolta in tal senso, in ragione della sua scoperta e interpretazione di due “firme” dell’artista; il carattere dell’arte del Botticelli a pulitura ultimata si conferma contraddistinto dalla vivacità che lo differenzia dalla pittura di altri, ad esempio il Rosselli, che per l’escamotage del soverchio ricorso a dorature per compiacere il pontefice era stato stigmatizzato dal Vasari quale pittore “non però eccellente e raro”: ma all’esame del restauratore si mostra più accorto del previsto per la sapienza nell’uso materico dei pigmenti, soprattutto gli azzurri.
Si trascorre alle modalità della decorazione dell’appartamento di papa Borgia, Alessandro VI, ad opera del Pintoricchio, che nella lunetta con la Resurrezione di Cristo lo effigiò inginocchiato accanto al sarcofago antico, un ritratto che tanto irritava Giulio II che scelse di far decorare le stanze soprastanti per non essere costretto a vederlo, abitando nel medesimo luogo.
Allo scopo fu chiamato Raffaello. Il De Luca ci guida alla comprensione del crescere della sua poetica e dell’alta spiritualità che si palesa anche attraverso l’abilità inventiva e la tecnica stupefacente, dai primi momenti segnati da alcune incertezze per la complessità dei materiali in uso a Roma in brevissimo tempo superate, e illumina l’evoluzione sicura del suo pensiero e la straordinaria sua onestà intellettuale, che lo portò a fare omaggio a Michelangelo inserendo la figura detta del “pensieroso”, il personaggio che siede in primo piano nell’affresco della Scuola di Atene, immerso in meditazione, non previsto in origine, come mostra il cartone dell’Ambrosiana di Milano: per ritrarre il pittore/rivale, Raffaello smantellò una porzione di affresco ed operò su intonaco essiccato, come mostra la traccia lasciata “dalla cosiddetta ‘sanguigna’, al tempo definita anche ‘lapis roscio’, utilizzata per contrassegnare la superficie d’intonaco da demolire”, secondo quanto è stato rilevato durante il restauro.
La lettura del De Luca degli affreschi delle Stanze è luminosa e coinvolgente, per la passione e la chiarezza che lo hanno guidato nell’opera di restauro prima e di scrittura poi; attraverso le sue parole siamo resi partecipi della riflessione dell’artista, nella lettura di quanto messo in opera per corrispondere alle necessità del dettato narrativo e per coinvolgere lo spettatore, dal modo in cui Raffaello risolve la cecità di Omero nel Parnaso, “quasi con delicatezza”, al sistema messo in opera per “farci percepire l’effetto ottico del surriscaldamento e della rarefazione dell’aria che si produce attorno alle candele accese ricorrendo magistralmente alla tecnica ‘del togliere’”.
Ho ammirato particolarmente le pagine dedicate all’uso della luce – Gestire e vincere la luce – che indagano sul pensiero del pittore nella difficile rappresentazione della Liberazione di san Pietro, che ricorre a “cinque origini luminose… che convivono tutte nella stessa composizione, generando un conflitto di ombre impazzite non più assoggettate a canoniche regole accademiche. Da questo momento in poi la luce irromperà nell’universo della pittura europea”. L’immensità dell’opera di Raffaello trova nella compiuta lettura del restauratore espressione piena.
L’ultima sua intrapresa in veste di direttore tecnico è stato il restauro della cappella Paolina, con la Conversione di Saulo e la Crocefissione di Pietro, quest’ultima opera restaurata personalmente, di Michelangelo.
Di lui il De Luca ha saputo cogliere il tormento spirituale e intellettuale in termini assolutamente nuovi, attraverso lo studio della tecnica e dei diversi sistemi usati per sopperire alle difficoltà sopraggiunte dai tempi dilatati di lavorazione, sovente interrotta e poi dolorosamente ripresa, con tale intensa partecipazione da capire, primo tra i tanti che a quell’opera si sono nei secoli accostati, il reale assetto voluto dall’autore per la figura del santo, che non ebbe in origine i chiodi a trafiggergli mani e piedi, dipinti con ogni probabiità ad inizio Seicento, in età di Controriforma, così come si presentava nell’interezza della pura nudità.
Ma soprattutto ha compreso la dinamica del corpo, che l’artista ha rappresentato non mentre solleva il capo come si è inteso sino al restauro bensì
“nel breve attimo che precede la completa distensione del corpo sull’asse della croce. Lo sconfinato genio michelangiolesco ci restituisce la tensione fisica di un preciso movimento descrivendo un solo, significativo fotogramma di tutta la sequenza. E’ proprio in questo fugace momento che Pietro lancia il suo messaggio a coloro i quali entreranno in futuro nella cappella”,
che sino al 1670 venne usata durante il conclave per raccogliere i voti,
“per eleggere il nuovo papa con lo sguardo ammonitore che sembra dire severo: ’Ecco come i miei successori dovranno servire Cristo!’”.
Come sarebbe possibile arrivare a tale nuova, e completa lettura dell’opera se non attraverso uno studio, una dedizione al mestiere di chi sa mettere in gioco tutto sé stesso, e che è improntata al solo servizio dell’arte e della civiltà? L’odierna concezione che assoggetta la conservazione dei beni culturali, la realizzazione di mostre o di libri sul tema principalmente a scopi economici, che invoca criteri manageriali per la conduzione di musei e soprintendenze non è neppure proporzionabile alla passione e il rigore che ha mosso Maurizio De Luca, che mosse Francesco Arcangeli alla ricerca e alla docenza.
Allorché, nel 1967 più volte ricordato, avviò il suo percorso di insegnamento all’Università di Bologna, sulle orme tracciate dal suo maestro, Roberto Longhi, il cui magistero lui stesso ricorda in apertura di discorso, l’Arcangeli, storico d’arte e critico militante, aveva piena coscienza della responsabilità del ruolo assunto, nei confronti dei discenti e della disciplina stessa.
Le dispense sono la testimonianza più alta di un modo di intendere il proprio mestiere che è sempre più difficile perseguire in una istituzione oppressa da indicatori numerici e valutazioni di qualità occhiute, per non dire assurde; attestano, della capacità di offrirsi nell’interezza del proprio pensiero e nella sensibilità del proprio essere agli allievi, la cui crescita intellettuale è lo scopo primo dell’insegnamento. Se la scienza diviene scientismo e l’attribuzione scade in attribuzionismo e lo studio della filosofia e della storia è quasi accessorio alla formazione, il sistema di docenza di molti che ancora credono nella libertà di pensiero, e di quanti in questo ci hanno preceduto, sarà sempre più in conflitto con quanto imposto dalla politica culturale degli ultimi decenni, che per di più valuta il docente senza tener conto dei risultati dell’insegnamento medesimo.
Nella densissima Introduzione Arcangeli ha scritto: “L’attacco principe” al modo di intendere l’arte principiato dal Longhi e da lui appassionatamente perseguito, che esige il rapporto concreto con le opere – altro legame intellettuale col De Luca -, per il quale essa, l’arte, “è anche, e soprattutto, un rapporto perpetuamente rinnovato tra l’espressione individua e il mondo della vita”, è rivolto “al concetto di intuizione, soprattutto perché esso non sembra scientificamente razionalizzabile, e, anche, al concetto di individualità personale ed espressiva come fondamento dell’arte” (3).
Una così netta dichiarazione di indirizzo e di metodo che si svilupperà nel prosieguo dell’indagine del lungo periodo preso in esame, dal medioevo di Wiligelmo alla contemporaneità di Morandi, è una coraggiosa presa di posizione in difesa dell’essenza dell’espressione artistica: “La mia generazione ha, prima di tutto, creduto e lavorato e sofferto perché si riaffermasse un inscindibile rapporto, di radice esistenziale, fra l’arte e la vita”. E cita, inesorabile, una allocuzione di Longhi: “L’opera d’arte” va compresa “come liberazione di sentimenti in forma di gratuito, irretribuibile lavoro umano” (4).
Il percorso sottoposto agli allievi prende avvio dalla forza vitale della scultura di Wiligelmo nel Duomo modenese che lui individua quale fonte inesausta di ispirazione, “un legame di vita… una tradizione forse non sempre cosciente e chiarita dall’intelletto, ma certo vera in fatti e ricorsi capitali” e informa di sé la pittura di Vitale da Bologna, artista singolarissimo e profondamente innovativo, capace di unire ”una fantasia estrosa, improvvisa, violenta, ad un senso vivo… della quotidianità fisica delle cose e degli eventi”. Poi, lo stesso senso forte e pieno della fisicità, della concretezza del vivere trascorre nella pittura di un artista eccentrico, che nelle parole dell’Arcangeli si disvela convinto e polemico oppositore del Rinascimento maturo impersonato dal Raffaello dello Sposalizio della Vergine di Brera, cui lo studioso contrappone la Pala del tirocinio dell’artista padano, nella quale convivono corpo e fantasia e scopre il suo autore quale uomo di crisi.
Ludovico Carracci, “vero maestro… d’una pittura… semplice come la vita”, è spiegato nella temperatura sentimentale che gli concede un’opera modernissima quale l’Annunciazione della Pinacoteca bolognese, nei fondamenti della sua cultura pittorica e dell’animo suo profondamente religioso, è seguito, in questa sorta di sintesi dell’arte padana che appassionò lo studioso e che trova motivo nella ricerca di un motivo comune che unisce artisti di così lontane epoche, diverse contingenze sociali e storiche, da Giuseppe Maria Crespi, uno dei più grandi artisti del Settecento europeo, capace di rispondere al fenomeno di Arcadia nella reazione al Barocco, con le pitture dell’Olimpo e delle Stagioni di Palazzo Pepoli, incantevoli figurazioni di sensualità e vitalità immediata, che lui definì splendidamente una “sorta di Arcadia rustica”.
Infine, Giorgio Morandi, alla cui pittura ha dedicato poche ma densissime pagine. Non è chi non ha riconosciuto, in questo percorso dell’arte bolognese, il “brogliaccio”, se così si può chiamare, di quella che sarà una mostra memorabile che l’Arcangeli ideò per Bologna nel 1970, Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana (5), quasi il testamento spirituale del grande storico d’arte, che dunque trae le mosse da un lungo percorso di indagine e di riflessione che proprio l’impegno richiesto dalla tensione derivante dalla scelta di dare conto agli studenti “d’una verità che avevo sperimentato in me stesso e che, per averne preso coscienza, potevo comunicare con qualche utilità” ai discenti.
Di questa lezione di umiltà e rispetto per l’altro gli siamo debitori, e siamo grati a chi ha messo a nostra disposizione, dopo così tanto tempo, queste lezioni il cui impatto il tempo non ha alterato.
Donatella BIAGI MAINO Bologna 12 luglio 2020
Note
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C. Strinati, Introduzione, in M. De Luca, Verità nascoste, p. 7.
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Tutte le citazioni che seguono nel testo sono tratte dal libro del De Luca.
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Citazione, come le seguenti, dalle Lezioni 1967-1970 dell’Arcangeli.
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R. Longhi, Proposte per una critica d’arte, in “Paragone”, 1950, poi ripubblicato in Critica d’arte e buongoverno, Opere Complete XIII, Firenze 1985, p. 18.
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L’espsizione fu la VIII Mostra Biennale d’Arte Antica dell’Ente Bolognese Manifestazioni Artistiche e si tenne a Bologna, Palazzo dell’Archiginnasioi (catalogo Edizioni Alfa, Bologna 1970)