di Nica FIORI
GRADIVA. Il bassorilievo che ha ispirato il romanzo di Wilhelm Jensen e un altrettanto celebre saggio di Freud
“I poeti sono alleati preziosi e la loro testimonianza deve essere presa in attenta considerazione, giacché essi sanno in genere una quantità di cose fra cielo e terra che il nostro sapere accademico neppure sospetta”.
Non possiamo che concordare con queste parole di Sigmund Freud, persuasi che per cogliere pienamente certe sensazioni occorre una sensibilità particolare, o meglio la poetica capacità di dar voce a ciò che ci circonda, svelandone i più reconditi significati. Non di rado è proprio la lettura di un testo letterario che ci stimola a vedere le cose o i luoghi in una chiave diversa da quella più esteriore. Come succede per la raffigurazione di una fanciulla in un rilievo marmoreo nel romanzo “Gradiva. Una fantasia pompeiana” di Wilhelm Jensen (1903), un delizioso racconto che forse sarebbe caduto nell’oblio, se Freud non lo avesse analizzato in un suo importante saggio, pubblicato nel 1906 con il titolo “Delirio e sogno nella Gradiva di Jensen”. Fu Carl Gustav Jung a segnalare il racconto a Freud, il quale esaminò la fantasia letteraria come un caso psichiatrico, per spiegare come le sollecitazioni esterne possano portare in superficie tensioni psichiche nascoste nell’intimo (v. foto1).
Il rilievo antico, ritrovato nella villa Palombara all’Esquilino (ora corrispondente ai giardini di Piazza Vittorio) e conservato nei Musei Vaticani, è parte di una composizione in marmo pentelico di epoca romana (prima metà del II secolo d.C., probabilmente derivata da un originale greco del IV secolo a.C.), che prevedeva tre figure femminili che avanzano da destra: di esse l’unica integra è la prima a sinistra, la seconda è acefala e della terza è rimasta solo la mano che versa un liquido da un’ampolla. Le figure dovevano essere contrapposte a un gruppo speculare di altre tre fanciulle, raffigurate su rilievi che si trovano in altri musei. Mentre queste ultime vengono identificate con le Horai (divinità della vegetazione e delle stagioni), quelle dei Vaticani rappresenterebbero le Aglauridi, le mitiche sorelle che dovevano custodire per volere di Atena la cesta contenente il mostruoso bambino con due serpenti al posto delle gambe, Erittonio, che sarebbe poi diventato re di Atene (v. foto 2).
Non conoscendo questa identificazione con le Aglauridi, alla prima fanciulla del gruppo Jensen diede nel suo romanzo il nome latino di Gradiva, ovvero colei che cammina. Il termine sembra rifarsi all’epiteto Gradivus di Marte, il dio della guerra che incede in battaglia. Ma il passo aggraziato della Gradiva non è marziale e somiglia semmai al movimento di una Menade nella danza dionisiaca, come possiamo vedere in un rilievo dei Musei Capitolini (v. foto 3, 4 e 5). Ed è forse per questo che, sotto l’influsso arcano di Dioniso, il suo passo conduce il protagonista del romanzo verso il delirio.
Ma la stessa Aglauride, secondo il mito greco, era stata colta da pazzia dopo aver sbirciato nella cesta e aver visto un serpente, e si era poi gettata dall’Acropoli, seguita secondo altre versioni del mito dalle sorelle.
Jensen racconta come il giovane archeologo tedesco Norbert Hanold fosse particolarmente attratto dalla figura della fanciulla raffigurata nel rilievo, che aveva visto in un museo romano e del quale si era procurato un calco in gesso:
“L’immagine rappresentava, a circa un terzo della grandezza naturale, una figura femminile nell’atto di camminare: una giovane non più bambina né tuttavia ancora donna, una virgo poco più che ventenne … La giovane donna non colpiva tanto per la bellezza plastica, quanto perché aveva in sé qualcosa che raramente affiora nelle antiche sculture in pietra: una grazia naturale, semplice, virginea, che sembrava infondere vita alla materia. A produrre quest’effetto era essenzialmente il movimento in cui ella era raffigurata. Il capo lievemente chino, con la mano sinistra teneva leggermente sollevata la veste che le ricadeva in ampi drappeggi dalle spalle alle caviglie, sicché sotto si scorgevano i piedi calzati di sandali. Il piede sinistro era appoggiato a terra, davanti, e il destro, nell’atto di seguirlo, sfiorava appena il terreno con la punta delle dita mentre la pianta e il calcagno salivano pressoché verticali”.
Norbert, che aveva trascurato completamente il mondo reale per immergersi nei suoi studi, immagina che il rilievo raffiguri una giovinetta pompeiana, forse figlia di un magistrato di rango edile, e a poco a poco trasforma le sue fantasie in autentici deliri. La storia diventa così l’occasione ideale per far immergere il lettore nelle sottili malìe di un luogo misterioso, come Pompei, sospeso tra sogno e realtà (v. foto 6). Spinto da un sogno angosciante, in cui gli appare Gradiva il giorno dell’eruzione del Vesuvio, Norbert parte per l’Italia (v. foto 7). Dopo una sosta a Roma, si reca a Pompei, e qui, mentre cammina per la città deserta nell’ora calda del meriggio, “quando la vita deve tacere e nascondersi al fine che i morti risorgano e comincino a parlare il loro muto linguaggio”, a un tratto gli appare la fanciulla del rilievo.
La riconosce all’istante per il modo inconfondibile di camminare, leggero e sicuro al tempo stesso, particolare che lo aveva indotto a chiamarla Gradiva. Certo non può che essere il suo fantasma che risorge dagli scavi e continua a incedere sui “conci di lava” (gli antichi blocchi di pietra vulcanica per il passaggio pedonale) nella via di Mercurio. Strano, però, che una lucertola fugga proprio davanti a lei, come se sentisse il suo passo (v. foto 8)!
La fanciulla scompare ma poi riappare davanti alla casa di Meleagro. Norbert, pur assai turbato, le rivolge la parola prima in greco e poi in latino, ma quella gli risponde in tedesco.
Grazie alle virtù “magiche” del luogo e al felice incontro con l’incarnazione dei suoi desideri, nel giro di pochi giorni l’archeologo riesce a rigenerarsi e a guarire dalla sua follia, fino a ritrovare l’amore per quella che era stata una sua compagna d’infanzia, Zoe Bertgang.
Il nome della giovane, Zoe, allude alla vita, e non alla morte, e il cognome in tedesco vuol dire proprio “colei che cammina”.
È lei la vera Gradiva che, non contraddicendo inizialmente il fatto che lui la ritenga una pompeiana morta, risveglia a poco a poco in lui i ricordi del passato e ben presto l’amore verso una donna in carne ed ossa e non più di pietra (v. foto 9).
Un lieto fine, quindi, assai diverso dal drammatico evento che colpì Pompei il 24 agosto del 79 d. C., quando il Vesuvio la ricoprì di una coltre di cenere e lapilli: uno strumento di sterminio per i suoi 25.000 abitanti, ma allo stesso tempo un sigillo protettivo che avrebbe salvaguardato la città, permettendo la conservazione di architetture, suppellettili e arredi che altrimenti sarebbero andati perduti: una vera gioia per gli scopritori che alla metà del XVIII secolo la riportarono alla luce.
Certo è che questa città offre al visitatore la romantica visione della sua antica vita con un’incredibile forza evocativa e Jensen riesce con la sua storia fantasiosa a farci assaporare il fascino che la città morta doveva avere nei primi anni del Novecento, quando il turismo era riservato agli appassionati di cose antiche, per lo più inglesi che arrivavano “in piccoli drappelli capitanati dalla guida obbligatoria e armati del Baedeker rosso”. Ma il suo Norbert riusciva a liberarsi della guida, grazie a un’adeguata mancia, e preferiva girovagare da solo per la città, contando sulla sua ottima memoria, che gli permetteva di riconoscere ogni cosa:
“Gli era d’aiuto il sole, padre eternamente giovane che rinforzava l’alito bruciante e completava l’opera del vento stendendo su ogni cosa la sua luce tremolante, scintillante, abbagliante. Come impugnando un raschietto d’oro, toglieva ogni ombreggiatura dai bordi delle case lungo le semitae e le crepidines viarum, come un tempo erano detti i marciapiedi, gettava fasci di luce sfolgorante dentro i vestibula, negli atria, nei peristila, nei tablina … “.
Più volte nel romanzo sono descritti alcuni luoghi pompeiani (case, cauponae, vie, vicoli, ecc.) con un linguaggio poetico e qua e là Jensen ci fa sapere attraverso il pensiero del protagonista quello che si diceva all’epoca riguardo a certi edifici, come per esempio la casa di Meleagro, dove avviene il primo incontro con la giovane donna. Norbert si chiede, infatti, se il Meleagro che dà il nome all’edificio sia il mitico uccisore del cinghiale calidonio, innamorato della cacciatrice Atalanta (personaggi che aveva visto raffigurati in un affresco pompeiano nel museo archeologico di Napoli), o non piuttosto l’omonimo poeta greco (v. foto 10).
A Freud, che era un appassionato collezionista di arte antica, non sfuggì certo l’analogia tra la psicoanalisi e l’archeologia, che riporta alla luce ciò che è celato sotto terra, spesso in frammenti che vanno decifrati e sistemati come in un puzzle (v. foto 11).
I pazienti che si recavano da lui entravano in un luogo dove i ricordi personali si confondevano con quelli delle civiltà passate. Anche egli, proprio come l’archeologo ideato da Jensen, era ossessionato dagli oggetti antichi, soprattutto dalle statuine egizie, romane, greche e da ultimo anche cinesi, tanto che la sua casa era una sorta di museo. Dopo aver divorato il libro di Jensen e aver scritto il suo celebre saggio, che è quasi un romanzo parallelo, Freud si recò prima a Pompei e poi a Roma, dove ebbe modo di ammirare la “Gradiva” e, proprio come aveva fatto Norbert Hanold, acquistò un calco del rilievo, che tenne appeso alla parete del suo studio viennese vicino al suo celebre divano-lettino (v. foto 12).
Nel 2007 una copia della stessa Gradiva è stata collocata a Berlino in Kurfürstenstrasse, nell’aiola spartitraffico di fronte ai numeri 115-116, per ricordare che qui, in quella che era la Haus der jüdischen Brüdervereins gegenseitiger Unterstützung (Casa di Mutua assistenza della Fratellanza giudaica) si è tenuto il 7° congresso internazionale di psicoanalisi dell’Associazione IPA (International Psychoanalytical Association) dal 22 al 25 settembre 1922, l’ultimo al quale partecipò Sigmund Freud (v. foto 13). L’associazione si sciolse nel 1938 e Freud abbandonò nello stesso anno Vienna e si trasferì a Londra, dove morì il 23 settembre 1939.
È proprio grazie a Freud che la Gradiva ha goduto di un grande successo internazionale ed è stata rivisitata più volte da artisti (tra cui Salvador Dalì) e registi cinematografici.
Ricordiamo in particolare il film “Gradiva”, diretto e interpretato da Giorgio Albertazzi (1970), con una bellissima Laura Antonelli che si aggira tra le case pompeiane: spettacolare è la sua figura che incede con eleganza, mentre inizia l’eruzione del Vesuvio, come nel sogno del protagonista del libro (v. foto 14).
Anche Alain Robbe Grillet si è cimentato con il tema del sogno e dell’identificazione di una donna viva con un’altra morta nel film “Gradiva (C’est Gradiva qui vous appelle)” del 2006, ambientato però in Marocco, dove uno storico inglese si reca sulle tracce di Eugene Delacroix, del quale la Gradiva sarebbe stata un’amante.
Nica FIORI Roma 19 luglio 2020