di Claudio STRINATI
Quando Calvesi arrivò sulla Cattedra di storia dell’arte a Roma, avevo da poco intrapreso la mia attività in Soprintendenza che all’epoca si chiamava alle Gallerie e alle opere d’ arte. Era il 1976. Mi ero laureto appena cinque anni prima con Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan e il nome di Calvesi era quello dell’ erede designato.
Calvesi aveva compiuto la stessa parabola che loro stessi da giovani avevano vissuto. Prima il servizio presso le Soprintendenze e i musei di Stato come ispettore e direttore storico dell’arte e poi, raggiunto o non raggiunto il grado di Soprintendente quando non di Direttore Generale, la Cattedra universitaria. Era il percorso destinato ai migliori. In Soprintendenza si imparava il mestiere, ci si facevano le ossa e si sperimentava la funzione sociale e didattica dello storico dell’arte. Le Belle Arti, del resto, erano ancora un comparto del Ministero della Pubblica Istruzione.
L’ esercizio e l’insegnamento di quel comparto specifico della cultura erano affidati alle stesse persone formatesi nell’ ottica della tutela del territorio quale fattore fondante della disciplina che, coniugando al più alto livello di concretezza l’ Estetica e l’ Etica, caratterizza la nostra storia e la nostra mentalità.
Calvesi era stato a Bologna e Ferrara, era stato a Roma alla Calcografia e alla Galleria Nazionale d’arte moderna. Lo conoscevo appena ma presto potei entrare in contatto con lui nel modo più felice. Ci faceva sentire di essere uno dei nostri, ma il più capace e il più autorevole, studioso competente e dedito sul serio alla ricerca filologica e critica.
Pochi anni dopo, nel 1978, la Soprintendenza di Palazzo Venezia passò sotto la direzione di Dante Bernini un funzionario esemplare nella sua rettitudine e saggezza. Calvesi cominciò a stringere i rapporti con la Soprintendenza proprio nel nome di un lavoro comune che gli era ben noto, che amava profondamente e che voleva ora incrementare.
Stava sempre più sviluppando le sue ricerche sull’ età dell’ Umanesimo e del Rinascimento che per lui comprendeva anche l’ epoca caravaggesca. Era il momento della sua memorabile riscoperta della cultura alchemica e simbolica fondamento della creatività di alcuni dei giganti di quella stagione culturale.
Era l’ erede dell’ Iconologia di Panofsky e delle ricerche sulle forme simboliche junghiane. Certo già Argan aveva assimilato da par suo quel nuovo e mirabile filone di studi ma Calvesi, già alla metà degli anni cinquanta, aveva fatto il passo decisivo e operato la scelta metodologica perentoria. Le sue conclusioni, del resto, erano nettamente diverse da quelle dei padri fondatori della dotta disciplina, basti pensare alla sua presa di posizione clamorosa su Duerer che contestava tutto l’ apparato deduttivo di Panofsky stesso. Il che acuiva, già alla fine degli anni sessanta, l’ interesse e l’appassionata attenzione di noi giovani dell’ epoca desiderosi di portare un ulteriore contributo auspicabilmente altrettanto innovativo alla disciplina.
Intanto Calvesi aveva concentrato i suoi studi, onorando la territorialità della sua Cattedra, proprio sull’ambiente romano dell’ Umanesimo e Rinascimento, sempre rimasto un po’ in ombra nell’ambito delle ricerche specifiche.
Era ormai l’inizio degli anni ottanta, una stagione decisiva per la piena affermazione culturale di Maurizio Calvesi e della sua prima scuola. Propose al Soprintendente amico Bernini di creare una sorta di vero e proprio pool di esperti tra Università e Soprintendenza dedito a ricostruire il tessuto profondo del mondo umanistico a Roma e nel Lazio attraverso una serie di catalogazioni, indagini d’ archivio e bibliografiche, restauri, pubblicazioni, incontri di studio, mostre sul territorio, coniugando gli strumenti tipici delle Soprintendenze con quelli tipici dell’ Università
Io ebbi l’ onore e la gioia di fare parte di questo gruppo che comprendeva, appunto, cattedratici, Soprintendenti, Direttori di musei, giovani ricercatori alle prime armi, cultori della materia.
La prima mostra di questo ciclo di manifestazioni fu creata all’ interno della chiesa di Santa Maria del Popolo. Una commissione specifica composta da Roberto Cannatà, Anna Cavallaro e dal sottoscritto ebbe l’incarico di organizzare mostra e catalogo. Fu un’esperienza meravigliosa di cui è anche testimonianza un piccolo ma credo pregevole catalogo edito da De Luca con contributi nostri ma anche di altre personalità, come il celebre restauratore Pico Cellini, tutt’altro che incardinate alla scuola di Calvesi.
Ma è quello che Calvesi voleva: creare un vero e proprio cenacolo di dotti in un lavoro comune dove la più alta specializzazione è garanzia di fare cultura popolare concretamente utile al progresso della Nazione.
Altre mostre seguirono e Calvesi era sempre lì a indicarci come muoverci e a guidarci sia nella parte di studio sia in quella realizzativa. Tutto quello che so in questo campo l’ ho imparato in quel momento.
Mi ricordo Argan, esterrefatto di una simile iniziativa. Venne a controllare la mostra di Santa Maria del Popolo a pochi giorni dall’ inaugurazione. Non credevo ai miei occhi: si divertiva, parlava con noi ragazzi con una amabilità e un affetto che mai avevo pensato albergassero in lui.
Parlava di Calvesi come del maestro che aveva adesso preso in mano le redini dei nostri amati studi. I frati lo accompagnavano con una deferenza e un rispetto che pure mi sorpresero.
Era contento sul serio. E noi con lui.
Claudio STRINATI Roma 25 luglio 2020