di Stefania SEVERI
Il pavimento del Duomo di Siena: un libro di storia, di filosofia e di teologia.
Il pavimento del Duomo di Siena è un esemplare unico nella storia dell’arte e per la tecnica e per il complesso repertorio iconografico. Già Vasari ebbe a definirlo “il più bello… grande e magnifico pavimento che mai fusse stato fatto”. Se, infatti, pavimenti in commesso di pietre sono frequenti, unico per complessità e ricchezza è il pavimento senese, che costituisce un vero e proprio libro di fogli sparsi lungo l’intera superficie del Duomo, un libro con ben 53 illustrazioni e con un numero incredibile di personaggi. L’usura ha imposto nei secoli numerosi restauri i quali, tuttavia, non hanno mai sostanzialmente alterato il racconto, così che esso si presenta oggi quale fu all’origine. I tempi di esecuzione dell’immane lavoro vanno dalla seconda metà del 1300 alla prima metà del 1500. Il primo documento risale al 1369 e riguarda un pagamento a Antonio di Brunaccio, Sano di Marco e Francesco di Ser Antonio, personalità a noi sconosciute e presumibilmente dei lavoranti. Di particolare interesse risulta la circostanza che per il disegno dei vari riquadri furono chiamati i più celebri artisti attivi a Siena nell’arco di tempo indicato e, accanto ad essi, è da annoverare un numero altissimo di esecutori, artisti-artigiani che hanno trasferito i disegni dei maestri nel lavoro in pietra. I colori sono fondamentalmente due, il bianco e il nero, ma in molti dei riquadri alcuni artisti hanno fatto ricorso anche a tonalità di grigio intermedie e a qualche colore di terra, così da ottenere effetti più dichiaratamente pittorici.
Numerosissimi sono stati nel tempo gli studi sul pavimento fino a quelli importantissimi di Enzo Carli che, dall’analisi stilistica delle forme e dai documenti d’archivio, ha praticamente indicato, per ciascun riquadro, l’autore e gli esecutori, facendo luce sul complesso delle attribuzioni. Ma non meno ricca è la bibliografia relativa ai contenuti del pavimento che spaziano dal mito antico alle fonti bibliche fino alla rivelazione cristiana ed alla storia contemporanea
Le fonti iconografiche per l’intero pavimento sono storiche, bibliche e filosofico-teologiche. Tra le tante raffigurazioni, i riquadri di Ermete Trismegisto e delle Sibille rappresentano un unicum nell’arte cristiana. Per questi riquadri la fonte di riferimento è Lattanzio, scrittore cristiano del secolo IV, che nella sua opera, “Divinae Institutiones”, dopo aver analizzato le divinità antiche, illustra i principi del Cristianesimo, sottolineando come le premesse di esso fossero già in antico.
Il testo era particolarmente apprezzato, nel primo Rinascimento, perché ricuciva il legame tra Antichità e Cristianesimo dopo la profonda frattura operata nei primi secoli cristiani. Il legame tra l’era antica con quella nuova è costituito dalla Sapienza che è alla base della rivelazione stessa. Nel I libro delle “Institutiones” Lattanzio, riprendendo a sua volta da Varrone, parla delle Sibille. Erano queste dieci profetesse (in seguito altri autori forniranno il numero di dodici), indicate con il nome del loro paese d’origine, che profetizzavano dal luogo dell’oracolo della divinità: la Persica, l’Ellespontica, l’Eritrea, la Frigia, la Samia, la Delfica, la Libica, la Cimmeria, la Cumana e la Tiburtina. Tutte e dieci le Sibille sono nel pavimento del Duomo, ognuna accompagnata dall’indicazione del suo nome e, caso unico, anche del nome dello studioso antico che ne ha parlato. Accanto ad ogni figura è collocato, prevalentemente in un cartiglio, il testo profetico che allude al Cristianesimo venturo. Di tali oracoli Lattanzio parla nel IV libro delle “Institutiones” e li riferisce in greco, tuttavia già nelle più antiche edizioni a stampa tali oracoli sono in latino, in traduzioni risalenti al Medioevo. La collocazione delle figure sul pavimento senese segue uno schema ben preciso, in relazione alle profezie, così da costituire un vero e proprio testo teologico e storico che ha inizio con l’iscrizione proprio appena oltrepassata la soglia del portale del Duomo: Castissimum Virginis Templum Caste Memento Ingredi. È l’invito ad entrare puri poiché si entra nel tempio purissimo della Vergine, che, tra l’altro, è considerata la protettrice della città che spesso viene definita Sena Vetus Civitas Virginis.
Il “racconto” inizia dal primo riquadro nella navata centrale che celebra Ermete Trismegisto,
simbolo dei filosofi che vissero nell’antichità e che furono i primi depositari della Sapienza. Subito dopo iniziano i riquadri con le dieci Sibille che giungono fino al transetto per poi tornare indietro, in un percorso da destra a sinistra, a partire dalla Sibilla Delfica per terminare con la Sibilla Libica. Questo gruppo di riquadri fu realizzato tra il 1480 e il 1483 e vi posero mano Giovanni di Stefano, figlio del Sassetta (il riquadro con Ermete e quelli delle prime tre Sibille), Antonio Federighi, Benvenuto di Giovanni, Matteo di Giovanni, Neroccio di Bartolomeo e Guidoccio Cozzarelli.
Di Ermete Trismegisto parla Lattanzio nel IV libro, ricordando un passo di Cicerone in cui è indicato come il grande sapiente che ha consegnato le leggi agli Egizi. Ermete è dunque il simbolo del fondatore della Sapienza umana. Non a caso consegna le leggi agli Egizi, perché la civiltà egizia è considerata la prima grande civiltà del Mediterraneo. Ma Ermete è anche il sacerdote che ebbe l’intuizione della unicità della natura divina e del rapporto tra Padre e Figlio. È in virtù di tale intuizione che egli si trova nel Duomo. L’iscrizione infatti cita: Dio Creatore di tutto fece seco un dio visibile e lo fece primo e unico nel quale si compiacque e amò fortemente il proprio figlio che è detto Santo Verbo. Ermete è raffigurato mentre consegna a due personaggi un libro aperto.
La Sibilla Delfica, della quale parla lo scrittore Crisippo, un autore antico del quale non rimangono testi, profetizzò invitando a conoscere Dio che è figlio di Dio.
La Sibilla Cumea o Cimmea o Cimmerica profetizzò la morte e la resurrezione di Cristo dopo tre giorni; di lei parla Pisone negli ”Annali”.
La Sibilla Cumana è ricordata da Virgilio nella IV Egloga ed è proprio da Virgilio che deriva la profezia che annuncia l’arrivo della Vergine e della nuova progenie.
La Sibilla Eritrea è legata alla profezia della nascita del Signore dalla Vergine ebrea nella culla della terra; tale profezia non deriva da Lattanzio o da altri studiosi antichi ma è ispirata da un testo del domenicano Barbieri pubblicato a Roma nel 1481. L’autore è il Federighi che ha firmato e datato 1483.
La profezia della Sibilla Persica, che è ricordata da Nicanore, descrive il miracolo dei pani e dei pesci, anch’esso in Lattanzio
La profezia della Sibilla Alburnea o Tiburtina riguarda la nascita di Cristo a Gerusalemme e l’annuncio a Nazareth durante il regno di Augusto.
La Sibilla Samia è ricordata da Eratostene e la sua profezia concerne la Passione: il non riconoscimento da parte degli ebrei, l’incoronazione di spine e il fiele.
Per la Sibilla Frigia l’iscrizione ricorda che il suo oracolo era in Ancira; la sua profezia è costituita dall’unione di più oracoli, tutti riportati da Lattanzio nel VII libro, e concerne il giudizio finale con la distribuzione dei pii e degli empi che saranno precipitati nel fuoco e nelle tenebre.
La Sibilla Ellespontica è citata da Eraclide. La sua profezia, che concerne il fiele e l’aceto della Passione, è inserita in un’edicola dove sono raffigurati un cane e un leone che si danno la zampa. I due animali, secondo alcuni studiosi rappresenterebbero gli ebrei il cane e i pagani il leone che vengono a patti contro Cristo. La profezia, nel IV libro di Lattanzio, ricorda che: per cibo è dato fiele e per bevanda è dato aceto, il velo del tempio si spacca e nel mezzo del giorno la notte tenebrosa dura tre ore. Secondo un’altra interpretazione i due animali sarebbero la Lupa di Siena e il Leone di Firenze, in uno dei rari momenti di alleanza.
La Sibilla Libica è ricordata da Euripide; porta in mano un libro sul quale è la scritta, sempre relativa alla Passione, che ricorda le percosse inferte a Cristo. È l’unica Sibilla ad essere di pelle scura con allusione alle sue origini africane.
Ritornando all’ingresso e ripercorrendo la navata lungo l’asse centrale, dopo il riquadro con Ermete, entriamo in un ambito storico arricchito con i simboli contemporanei.
La lupa senese e i simboli delle città alleate (Firenze, Arezzo, Lucca, Pisa, Pistoia, Massa Marittima, Grosseto, Roma, Viterbo, Orvieto) è un riquadro da ascrivere ad un ignoto artista della fine del 1300 ed è l’unico a mosaico ma è stato completamente rifatto da Leopoldo Maccari tra il 1863 e il 1865
La Ruota con l’Aquila Imperiale, simbolo del potere civile, è anch’essa di ignoto trecentesco ed anche essa è stata rifatta dal Maccari.
Il Colle della Virtù è splendida opera attribuita al Pinturicchio che la dovette realizzare al tempo in cui eseguiva gli affreschi nella Libreria Piccolomini (1505). In basso è la Fortuna, simboleggiata da una donna con la cornucopia in equilibrio instabile perché poggia un piede su una barca senza timone e senza albero e l’altro piede su una palla; a sottolineare che va dove la porta il vento, tiene in una mano una vela. Dall’altro lato è il colle sulla cui sommità è assisa Sapienza. Il colle è scosceso e difficile da raggiungere anche per la presenza di serpi. In alto giungono i filosofi Socrate e Cratete che sono premiati dalla Sapienza perché si sono liberati delle ricchezze della terra.
Nel transetto è la storia sacra, tratta dal Vecchio Testamento e da altri testi antichi tra i quali le “Antichità Giudaiche” di Giuseppe Flavio, storico ebreo del secolo I d. C.
I primi due riquadri presentano, rispettivamente, Erode e la strage degli innocenti.
Le Storie di Giuditta, del 1473, sono tra la più belle dell’intero ciclo, ricche di personaggi, con mosse scene di battaglia e rappresentazioni anche particolari quali la città ideale. La bellezza di queste scene ha fatto suggerire i nomi di celebri artisti ed in particolare quello di Francesco di Giorgio Martini.
L‘imperatore Sigismondo in trono, circondato da dignitari, è una delle scene storiche più interessanti in quanto documenta il viaggio dell’imperatore a Siena nel 1431; il riquadro fu pagato a Domenico di Bartolo nel 1434.
Le storie di Assalonne, realizzate da Pietro del Minella nel 1447, accompagnate da una scritta in volgare, sono raffinatissime e pregevoli soprattutto per l’esecuzione minuziosa dei particolari quali le splendide chiome di Assalonne intrecciate al ramo dell’albero.
Le storie di Iefte sono degli anni 1481-85 e sono attribuite a Neroccio di Bartolomeo.
Le sette età dell’uomo, le Virtù Teologali e la Religione furono rifatte nel 1800.
Le storie di Elia, subito presso l’altare, furono eseguite da uno dei più grandi artisti del Manierismo senese, Domenico Beccafumi, dal 1519 al 1524, con l’aiuto dell’allievo Giovanni Battista Sozzini; alcune di queste storie sono tuttavia di Alessandro Franchi che le ha eseguite circa il 1870.
Nella zona presbiteriale, la zona per eccellenza della salvezza, vi sono le Virtù, David e le storie di Mosè, di Isacco e di Giosuè, queste ultime attribuite al Sassetta. Le storie di Mosè e il sacrificio di Isacco furono eseguite tra il 1524 e il 1547 e furono ideate dal Beccafumi. È questo uno dei punti artisticamente più alti dell’intero ciclo. Il Beccafumi dimostra qui, senza l’ausilio del colore, di essere anche un grandissimo disegnatore. In questi riquadri ci sono numerosissimi personaggi in movimento che si dirigono verso l’altare, forse il popolo ebreo in marcia verso la terra promessa.
L’aspetto più fascinoso di tutta la decorazione è che tutte le verità filosofiche e teologiche espresse sono, nonostante i riferimenti all’antico, concepite come contemporanee. L’intero ciclo è guidato dall’idea dell’immanenza. Come Cristo nasce e risorge per l’umanità in ogni luogo e in ogni tempo, così la Sapienza non è patrimonio esclusivo degli antichi ma patrimonio dell’umanità ovunque e sempre. E Cristo nasce e risorge qui e adesso a Siena, i cui cittadini sono ognora illuminati da quella Sapienza che è fonte di prosperità, di benessere e di armonia del vivere civile. E tutte quelle persone che si dirigono verso l’altare sono gli stessi Senesi, proprio lì nel cuore della loro splendida città e nella loro chiesa più bella.
Stefani SEVERI Roma settembre 2017